Suore dell'Immacolata

Volontà di salvarsi

Il lebbroso guarito

Dal brano del Vangelo di S. Matteo: 8, 1-4

1 «Cum autem descendisset de monte, secutae sunt eum turbae multae.

2 Et ecce leprosus veniens adorabat eum dicens: – Domine, si vis, potes me mundare -.

3 Et extendens manum, tetigit eum dicens: -Volo mundare! -; et confestim mundata est lepra eius.

4 Et ait illi Iesus: – Vide, nemini dixeris; sed vade, ostende te sacerdoti et offer munus, quod praecepit Moyses, in testimonium illis».

VOLONTÀ DI SALVARSI

Disceso Gesù dal declivio del monte sopra cui aveva tenuto con i suoi Discepoli il famoso discorso delle otto beatitudini, lo seguiva una grande moltitudine di popolo, avida di udire gli zelanti suoi detti e godere dei piacevolissimi tratti della sua persona. Ad un tratto gli si fa incontro un povero lebbroso che andava in cerca di Lui spinto dal desiderio di riacquistare la perduta sanità e che, fattosi avanti, prosteso a terra, lo adora profondamente e gli dice, alzando il capo, le mani e la voce: “Domine, si vis, potes me mundare”.

Gesù, commosso nel più profondo del cuore da così grande umiltà e da così profonda fede, stende pietoso la mano e dice: «Tu che chiedi se voglio mondarti, sappi che io lo voglio. Orsù, divieni mondo». E così avvenne. In quell’istante scomparve ogni squama dal corpo di lui e la sua pelle fu subito morbida e bella come quella di un fanciullo. «Va’ – gli soggiunse il Signore – presentati al sacerdote ed offri al tempio ciò che da Dio viene prescritto nella legge di Mosè».

Questo tratto evangelico descritto da S. Matteo, o mie Suore, offre due spunti alla nostra riflessione.

1) La volontà del lebbroso nel cercare la propria guarigione e nel procurarsela con i modi più adatti ed efficaci;

2) la volontà del Divin Redentore manifestata con quell’imperioso «volo» e compiuta con la prodigiosa guarigione di quell’infelice.

Cosa dobbiamo noi apprendere da questa evangelica lezione? Dobbiamo apprendere che, per conseguire la nostra eterna salvezza, sono necessarie due volontà: quella di Dio e la nostra. La volontà di Dio è sempre pronta; la nostra, invece, sovente manca.

Ecco due riflessioni su cui richiamo oggi la vostra attenzione.

Che per salvarsi sia indispensabile la divina volontà è cosa talmente chiara e incontestabile, che non ha bisogno di prove. È di fede, infatti, che nessuna delle nostre operazioni può essere meritoria per la vita eterna se non viene ispirata dalla grazia divina ed avvalorata dai meriti di Gesù Cristo. Che Iddio voglia veramente salvarci, è anche questa una verità di fede indubitata: «Deus vult omnes homines salvos fieri». Di questa sua volontà Egli ci ha dato prove infinite. Cosa non ha fatto Dio per la nostra eterna salvezza? Voi ben lo sapete, mie Suore, che noi eravamo, per il peccato originale, figli d’ira, vasi di riprovazione e, per servirmi della frase di S. Agostino, una massa di dannati. Ora Dio Padre, mosso a pietà di noi, mandò sulla terra suo Figlio, l’oggetto più caro delle sue divine compiacenze, come riparatore dei nostri mali e vittima dei nostri falli. Egli, il buon Gesù, discese dal Cielo per liberarci dalle catene del peccato originale e venne sulla terra per toglierci dalla schiavitù dell’inferno. Quanto non ha fatto e non ha patito il divino Gesù per salvarci!

Osservatelo nella capanna di Betlemme: quelle lacrime che sparge sulla ruvida paglia, le sparge per lavarci dalla immonda lebbra delle nostre colpe; quei caldi sospiri che di là innalza al divin Padre, sono per la nostra salvezza; quel sangue che versa fin dai primi giorni nella sua circoncisione, è il balsamo salutare per guarire le nostre ferite.

Osservatelo già grande in Gerusalemme, nella Galilea, nella Palestina, dove ammaestra i discepoli, istruisce i popoli, catechizza le turbe e ovunque sparge, con la predicazione, i segni della sua celeste dottrina e, con gli stupendi prodigi, sprigiona i lampi della divinità che in Lui si nasconde. Tutto ciò Egli opera al fine di farsi conoscere per nostro liberatore, nostro maestro e guida, affinché , seguendo le sue orme, possiamo giungere per via sicura alla patria del Cielo.

Cambiate ora pensiero: immaginatelo là, nell’orto del Getsemani, la sera prima della sua dolorosa passione. Cosa non fa, il buon Gesù, per il bene delle anime nostre? Quanto piange, quanto soffre!

Mi si affaccia alla mente anche il patriarca Giacobbe allorché, ritornando nella Mesopotamia con la sua numerosa famiglia, udì che il suo nemico Esaù gli veniva incontro per la stessa strada con quattrocento uomini armati per fare una strage. Il santo Patriarca, spaventato dal fatto e temendo molto l’odio antico del fratello Esaù, oltrepassò con i suoi undici figli un torrente che gli attraversava la strada e, divisa la sua famiglia in due gruppi, si separò da essa per raccomandarla a Dio da cui l’aveva ricevuta.

Mentre pregava caldamente il Signore di liberare lui e tutti quelli che erano con lui dalle mani dei nemici e insisteva presso Dio affinché volesse benedire lui e in lui tutta la sua posterità, gli apparve un angelo in forma umana a contestargli il successo della sua preghiera assicurandolo che avrebbe avuto sì la benedizione di Dio, ma per sé solo e non per la sua discendenza. Giacobbe si sgomentò a questa rivelazione della sorte futura del suo popolo, quindi affrontò l’Angelo corpo a corpo, lo strinse tra le sue braccia e durante tutta la notte lottò con lui, dichiarando di non volerlo lasciare fino a che non avesse ottenuto da Dio la promessa che il popolo giudeo, sebbene reo del deicidio, sarebbe stato conservato e un giorno perdonato e benedetto.

L’angelo chiese di essere lasciato; era un confessarsi vinto. «Invano lo speri – gli rispose Giacobbe -. Finché non mi avrai assicurato circa l’estensione della mia benedizione sul mio popolo, del suo perdono e della sua salvezza, tu non fuggirai dalle mie mani». Che fa allora l’angelo? Per vincere la resistenza di Giacobbe lo percuote su un fianco, gli intorpidisce il muscolo che congiunge il femore ai lombi, sede della forza degli atleti, ed in tal modo lo paralizza, lo storpia e lo atterra. Ma chi lo crederebbe? Giacobbe, così indebolito, diviene più forte. Stringe con più forza il suo celeste avversario e tanto fa e tanto dice che, finalmente, ottiene ciò che pretende, cioè la benedizione divina richiesta per il suo popolo, ossia la promessa che anche i giudei sarebbero stati miracolosamente conservati, che essi pure, un giorno, avrebbero tratto profitto dal sangue del Messia, versato indegnamente dai loro padri e che, divenendo essi pure cristiani, sarebbero anche loro stati santificati e salvati.

O profondità dei misteri delle divine Scritture! In questo fatto della Genesi, come voi vedete, sorelle mie, già tanti secoli prima ci viene delineato e descritto ciò che fece Gesù Cristo nell’orto degli ulivi per noi, nella notte antecedente la sua passione. Egli, come Giacobbe cercato a morte con i suoi seguaci dai giudei rappresentati in Esaù, attraversò con i suo undici figli, cioè con i suoi undici Apostoli essendosi Giuda già allontanato, il torrente Cedron e, arrivato nell’orto del Getsemani, ne lasciò otto all’ingresso e tre all’interno del giardino. Indi, separatosi da tutti, si ritirò in disparte a pregare per questa sua diletta famiglia che il divin Padre gli aveva dato, cioè per la Chiesa nascente, della quale la famiglia di Giacobbe era stata una copia fedele. Dai dodici figli di Giacobbe, infatti, è disceso tutto il popolo ebreo, come dai dodici Apostoli è nato tutto il popolo cristiano.

È vero che nella preghiera di Gesù nell’orto parve che Egli pregasse in prima persona dicendo: «Passi da me questo calice», però, come osserva S. Ilario, il Signore pregò per se stesso come Giacobbe riguardo alla sua posterità, cioè per la sua Chiesa e per i fedeli, perché non domandò di essere esentato dalla sua passione, ma chiese che, rimanendone a Lui tutta l’amarezza e l’orrore, si riversasse però su noi cristiani, che componiamo la sua famiglia, tutto il merito e la gloria che, con tale passione, ci avrebbe acquistato. Gesù non ricusa per sé il calice della divina giustizia – continua il santo dottore – anzi, lo sollecita e lo reclama – «Fiat, fiat!» – chiedendo che, versandosi sopra di lui, ne siamo risparmiati noi, in modo che noi potessimo partecipare alla sua eredità senza passare per le prove durissime dei suoi patimenti, che noi tutti abbiamo personalmente meritati; chiede, insomma, Egli, santità infinita, di essere trattato come uomo del peccato: « Qui peccatum non novit, pro nobis peccatum fecit », come dice S. Paolo, affinché noi, colmi di tutti i peccati e meritevoli quindi di tutti i castighi, fossimo trattati con riguardi e con amore, come se fossimo la stessa innocenza e la stessa santità di Dio.

«La mia benedizione, o Padre, – pareva dire – è certa e nessuno può contrastarmela per essere io vostro Figlio, ma ciò non mi accontenta. Io chiedo che essa si estenda soprattutto a tutti coloro che nasceranno dal mio amore. Io sono per tutti loro sicurezza, mediatore, vittima. Voi stesso, o Padre, col rivestirmi di un corpo da sostituirsi a tutte le antiche offerte, mi avete incaricato di questo ministero; voi stesso mi avete dati come figli quelli per i quali io prego: voglio dunque che essi passino al mio posto, come io sono messo al posto loro, che partecipino ai miei privilegi e alle mie grazie, come io ho preso la loro carne e il loro peccato e che, se prima erano nostri nemici, da qui innanzi possano invocarvi, sperimentarvi come Padre pietoso ed essere da Voi amati come figli».

Ma che, sorelle mie? Per il fervore di questa orazione a Gesù apparve, nell’orto, quell’Angelo stesso, secondo l’opinione dei Padri e degli interpreti, che tanti anni prima era apparso a Giacobbe per annunziargli che la severità della divina Giustizia sarebbe stata mitigata dai disegni della sua misericordia per i figli degli uomini, che Dio avrebbe cambiato in benedizioni le maledizioni che gli uomini avevano meritato e che li condannavano al supplizio degli angeli ribelli, che avrebbe permesso che i privilegi del Santo dei Santi passassero sopra tutti i peccatori e che tutte le ignominie dei peccatori si riunissero solo sul capo del Santo dei Santi, che consentiva che l’innocenza fosse punita e risparmiato il delitto. Certo, così grande eccesso di pietà il Redentore non avrebbe potuto ottenerlo se non in seguito a lunghe preghiere e a una durissima lotta.

A tale annunzio, però, Gesù Cristo non abbandonò la sua impresa, bensì raddoppiò i suoi timori e le sue apprensioni per la nostra perdita, riaccese maggiormente il suo amore e la sua pietà per noi e raddoppiò quasi le sue forze, come quando Giacobbe lottò con l’angelo, fino a che non ottenne la bramata benedizione.

Gesù Cristo entra qui in lotta con la giustizia di Dio, insiste nella sua preghiera con maggior energia di spirito e veemenza di affetto, mentre la divina giustizia, inflessibile e severa, sembra ripetergli: «Dividi la tua causa da quella dei peccatori, lasciami libera di sfogare la mia collera sopra la posterità condannata di un padre colpevole. « Dimitte me ». Ma Gesù, tornando per la terza volta a ripetere la stessa preghiera, insistendo più intensamente e più lungamente nella sua domanda e unendo al fervido amore la più profonda umiltà, sembra ripetere: «No, no, io non cesserò dal piangere, né dal lottare, fino a che i peccatori che io rappresento in me non siano messi ancora al mio posto e non siano perdonati e benedetti in me e con me».

Quindi, gettandosi bocconi a terra con le braccia aperte, quasi voglia con quell’atto chiudere l’inferno e impedire ai peccatori di precipitare in quella prigione di fuoco, sostiene una lotta tale con la divina giustizia, che suda sangue da ogni parte del corpo con tanta abbondanza che inzuppa il terreno ove è disteso: infine vince poiché, essendo inseparabile dalla sua umanità la condizione di Figlio di Dio per la persona del Verbo a cui è unita, tutto ciò che Egli fa ha un prezzo, un merito e un valore infinito. Facendo valere tutta l’altezza della sua dignità nello stesso suo abbassamento, dà al Padre una soddisfazione infinita e ottiene per noi la benedizione e l’adozione divina, implorata con tanta insistenza e tanti sforzi per noi.

La giustizia che inesorabilmente condanna e la misericordia che pietosamente perdona si abbracciano, si baciano ed insieme trionfano: noi siamo collocati al posto di Gesù e Gesù rimane al posto nostro. L’enorme peso della nostra colpa si accumula sul capo innocente del Redentore: la sua giustizia e la sua santità è tutta devoluta a noi. O immenso amore di un Dio Salvatore! Posto ciò, chi potrà ancora dubitare che Iddio non ci salvi? Se non è questa una viva volontà di salvarci, quale potrà mai essere? Poteva, forse, il pietoso Signore fare più di quello che ha fatto per noi, al fine di dimostrarci lo zelo che Egli nutre per la nostra salvezza?

Forse, però, le prove anzidette ci commuovono poco, perché universali ed estese a tutto il genere umano. Veniamo dunque più particolarmente a noi. Siete voi innocenti?

Ditemi, chi vi conservò illibata la candida stola dell’innocenza battesimale? Chi vi ha liberato dai tanti pericoli del mondo, del demonio, della carne? È Dio che vi diede un’anima buona, un’indole inclinata al bene, un’ottima educazione cristiana! È Lui che, con le sue sante ispirazioni e con gli aiuti della sua grazia, guidò i vostri passi, i vostri affetti e le vostre azioni. È Lui che vi ha tenuto lontane da tante occasioni in cui avrebbe fatto naufragio la vostra innocenza. È Lui, in una parola, che vi ispirò la magnanima risoluzione di abbandonare quanto di più caro vi poteva promettere il mondo e di ritirarvi a servire Lui solo, quali predilette sue figlie, in un Istituto religioso.

Se aveste, talvolta, la disgrazia di rendere a questo buon Dio male per bene e lo avete in qualche cosa disgustato ed offeso, ditemi, chi fu il primo a richiamarvi dalla via della colpa? Chi vi ispirò di gettarvi ai suoi piedi e domandare sinceramente perdono dei vostri falli? Chi vi dà la forza per correggervi dei vostri difetti?

Confessatelo pure, a gloria del divin Nome. Fu Gesù, amantissimo Padre e pietoso medico delle anime nostre. Fu Lui che benignamente vi accolse e vi strinse nuovamente al suo seno, che diede lumi alla vostra mente ed emozioni al vostro cuore, per cui riusciste a rimettervi sul buon sentiero della santità. Non è questo un chiarissimo segno che Dio vi vuole salvare? Sì, lo è; sì, lo è.

«Ma se è così – direte voi – noi abbiamo in pugno la nostra salvezza. Dio ci vuol salvare e noi ci salveremo». Adagio, figliole, adagio: «Quel Dio – dice S. Agostino -che ci ha creato senza di noi, non vuole salvarci senza di noi». Iddio, per crearci, non ha avuto bisogno di noi, ci ha tratti dal nulla con un atto della sua volontà, ma per salvarci vuole assolutamente che alla Sua volontà sia unita la nostra. Sicché, a conseguire l’eterna salvezza non basta che Iddio voglia salvarci, bisogna che lo vogliamo anche noi. «Ma noi lo vogliamo – voi mi direte – noi lo vogliamo». Ma questa vostra volontà è poi vera? È decisa, operante, efficace? Tutti vogliono salvarsi e chi è così stolto che non lo voglia? Eppure non tutti si salvano, anche tra i cristiani e i cattolici. Sapete perché? Perché pochi sono quelli che lo dicono sul serio.

La viva volontà di salvarsi è quella che è accompagnata dall’esatta osservanza dei divini precetti, cioè dall’adempimento perfetto di tutto ciò che Dio richiede da noi. Chi desidera la beatitudine eterna, ma non si sforza di conformare la propria vita alle verità della fede e agli insegnamenti di Gesù Cristo, sarà certamente deluso nel suo desiderio.

Posto ciò, ditemi, potete voi affermare di avere questa vera volontà della vostra eterna salvezza? Pare a voi di eseguire alla lettera quanto vi viene prescritto dalla divina legge e dalle Costituzioni del vostro Istituto religioso? Quale spirito di abnegazione, di ubbidienza, di umiltà, di mansuetudine mostrate voi nelle quotidiane vostre operazioni, per imitare gli esempi di Gesù Cristo, vostro Sposo celeste? Con quali disposizioni vi accostate ai divini Misteri e quale violenza vi fate per avanzare ogni giorno nella via della virtù e della perfezione voluta dal vostro stato? Con quale fervore, con quale impegno domandate a Dio la vostra santificazione e l’eterna vostra felicità? Potete dire di impegnarvi in questo?

Dio ha vera volontà di salvarci. Consideriamo un po’ quello che ha fatto per noi! Venuto sulla terra e assoggettatosi a tutte le miserie della nostra umanità, quante fatiche, quanti sudori, quante pene sofferse, quanto sangue versò per la nostra salvezza! Che tristissima lotta sostenne Gesù nell’orto degli ulivi con la divina giustizia per disarmarla dagli orrendi flagelli che stava per scaricare su di noi per i nostri peccati, affinché noi prendessimo il Suo posto, cioè fossimo riguardati dal Suo divin Padre non più come nemici, ma come diletti figli. Noi, ditemi, quale impegno abbiamo messo, finora, per scontare i debiti che abbiamo tante volte contratti con la divina Giustizia a causa dei nostri volontari difetti? Quali meriti voi accumulaste fin qui per il Paradiso? Se esaminate bene la cosa e riconoscete di essere state finora alquanto trascurate nell’attendere al vostro profitto, incominciate almeno da questo momento a fare sul serio. Cominciate subito a seguire il Divino Maestro, a essere veramente umili e mansuete di cuore, ad essere in tutto ubbidienti ai savi comandi di chi vi presiede.

Cominciate subito a crocifiggere interamente l’amor proprio con le sue sregolate passioni; cominciate subito ad avere più raccoglimento ed a pregare più e meglio; cominciate subito a togliervi, insomma, ogni leggero difetto ed a lasciarvi interamente possedere dall’amore di Gesù. Allora sì che dimostrerete di avere vera volontà di salvarvi e, volendolo Iddio e volendolo voi, vi salverete sicuramente come io vi desidero di vero cuore. Amen.