Suore dell'Immacolata

Saggio uso grazie divine

 

l fattore infedele

Dal brano del Vangelo di S. Luca: 16, 1-2

1 «…Homo quidam erat dives, qui habebat villicum, et hic diffamatus est apud illum

2 quasi dissipasset bona ipsius. Et vocavit illum et ait itti: «Quid hoc audio de te? Redde rationem villicationis tuae; iam enim non poteris villicare»…

SAGGIO USO DELLE GRAZIE DIVINE

(Postilla autografa: Istruzione dettata ai fedeli nella Chiesa dell’Annunziata nel 1853)

Il citato brano del Vangelo di S. Luca ci presenta una Parabola in questi termini: «Vi era un uomo ricco, padrone di molti beni, armenti, poderi, capitali, negozi, il quale ne aveva affidato l’amministrazione e la cura ad un fattore di sua fiducia. Questo fattore, però, sia perché di sua natura infedele, sia perché, trovandosi incaricato dell’amministrazione di così abbondanti ricchezze, da buono fosse diventato cattivo, fatto sta che cominciò a considerare i beni, che dal suo signore gli erano stati affidati affinché li tutelasse, come beni suoi propri e, invece di tenerli da conto, li scialacquava e se ne valeva per condurre una vita splendida, molle e dissoluta, ora procurandosi un piacere, ora sfoggiando inviti, ora in stravizi, facendone, insomma, un detestabile abuso. La cosa giunse all’orecchio del padrone, il quale si accorse di avere deposto in cattive mani le proprie sostanze e che, se prontamente non vi avesse posto rimedio, tutte si sarebbero dissipate come neve al sole. Egli, allora, mandò a chiamare l’economo infedele e, pieno di risentimento, gli parlò in questo modo: «Che cosa sento di te? Rendimi ragione della tua amministrazione. Mi fu detto che tu mandi in rovina la mia azienda. Ciò è falso o è vero? Se è falso, presenta i tuoi conti che smentiscano le accuse e si riveda la situazione della tua amministrazione. Guarda che io la sto aspettando: « redde rationem ». Se poi è vero, sappi che per te è finita; non ho più bisogno della tua opera».

Atterrito dalle minacce del suo signore, il fattore fu colto da profonda agitazione e, tutto sconvolto, non sapeva neppure lui quale partito prendere: « Quid faciam ?» «Lavorare non posso, andare mendicando ho vergogna… ». Dopo aver molto tentennato, decise: «So ben io ciò che farò». Radunati tutti i debitori del padrone li attirò a sé, l’uno dopo l’altro, in questo modo. Disse ad uno: «Tu quanto devi al mio padrone?». «Cento barili d’olio» – fu la risposta – «Prendi» – soggiunse lui – «la tua carta di obbligazione, stendine un’altra e scrivi solo cinquanta». «Tu quanto devi?» – disse ad un altro debitore – «Cento misure di grano». Rispose: «Eccoti la tua quietanza per ottanta». Ad un altro ancora disse: «Tu quanto devi?» «Cento staia di grano». Egli disse: «Prendi la tua carta e scrivi ottanta». Venendo a sapere il padrone l’industriosa maniera, sebbene ingiusta, adoperata dal fattore per provvedere alla propria disgrazia, almeno facendosi degli amici che, in premio del bene ricevuto, lo ricevessero in casa, invece di punirlo lo lodò, perché si era diportato prudentemente.

«Così dico a voi» – chiude la parabola il divino Maestro – «così dico a voi: con la vostra elemosina fatevi degli amici, affinché sfuggiate il meritato rigore del giudizio e siate, per mezzo loro, introdotti nelle «eterne dimore». Con tale parabola, o cristiani, come voi vedete, ci viene ricordato non solo il severo giudizio che pronuncerà Iddio su ciascuno di noi alla fine dei nostri giorni, ma anche la maniera di fuggire i rigori di un tale giudizio, usando, finché siamo in tempo, dei rimedi opportuni per riparare alle nostre mancanze.

In questo brano evangelico, come vedete, cristiani miei, vi viene chiaramente espresso il quadro di quanto succederà a noi alla fine dei nostri giorni. Iddio, gran Signore e Padrone dei cieli e della terra, ha costituito noi come altrettanti suoi economi e ci ha affidata l’amministrazione e la cura di una porzione di quei beni, di cui Egli solo è padrone assoluto. Niente è nostro, tutto abbiamo ricevuto da Dio e Dio ci ha elargito tutti i beni che abbiamo ad una condizione: che li trafficassimo bene secondo i dettami della retta ragione e i precetti della santa sua legge, proprio come il padrone del Vangelo che aveva affidato l’azienda al suo economo.

Ma noi, fratelli miei, come ci siamo serviti dei beni che Dio ci consegnò? Quale uso ne abbiamo fatto finora? Come abbiamo impiegato le sostanze che ci diede in deposito, come: la bontà, i sentimenti del cuore, l’ingegno, l’industria e la vivacità della mente? Anche a noi potrebbe essere avvenuto ciò che accadde all’economo del Vangelo. Costui, come avete udito, dimenticandosi di dover rendere conto al suo signore di quanto amministrava, non si curò di tenere i conti in regola, né di non abusare dei beni a lui affidati, agendo secondo i comandi avuti e la buona intenzione di chi glieli aveva consegnati; invece, quasi ne fosse lui assoluto padrone, se ne servì a capriccio e ne fece un detestabile abuso.

Così e non altrimenti, se vogliamo confessare la verità, è accaduto a noi. Sì, ci siamo dimenticati di essere costituiti come amministratori dei beni di Dio e, fingendo di non dover rendere conto al nostro vero padrone, ci servimmo dei beni che ci furono affidati per soddisfare le nostre capricciose voglie e, con profonda ingratitudine, non ci facemmo scrupolo di convertire in offesa della divinità gli stessi suoi doni. E tutto ciò, credendo di non dover, un giorno, rendere conto a Dio di tutte le nostre azioni. Il santo re Davide, ispirato dallo Spirito Santo, nei suoi salmi dice che l’empio giunse perfino a prendersela con Dio, perché non fu avvisato di dover un giorno rendergli conto del suo operato.

Considerando che verrà un tempo in cui si dovrà rendere conto a Dio di tutti gli sprechi, di tutti i pensieri malvagi, di tutti gli affetti impuri, come potrebbe il libertino determinarsi a pronunciare tante bestemmie contro Dio, tante calunnie e diffamazioni contro i suoi ministri, spargere errori contro la fede e il buon costume, usare tanta irriverenza nelle chiese, tante profanazioni dei suoi Santi, se lo si avvisasse che di quante parole egli dice, di quanti progetti formula nella sua mente, di quante azioni commette non ne sfuggirà neppure una al giudice dei vivi e dei morti?

Come quel padre di famiglia o quel giovane potrebbe scialacquare in giochi, in ubriachezze, in divertimenti il denaro che gli è necessario per il mantenere i figli o per sostenere i genitori che non hanno di che sfamarsi o di che ricoprirsi se riflettesse che il primo conto che dovrà rendere al tribunale di Dio sarà appunto quello della noncuranza della propria famiglia? Come infine potrebbero quell’uomo, quella donna, quei figli non andare nel giorno festivo ad ascoltare la divina Parola, trattenendosi invece o in casa o nelle piazze, non esclusa quella della Chiesa, a chiacchierare o, se volete, anche ad occupare del tempo in mancanze senza considerare che se non ascoltano la Parola di Dio in vita, dovranno, loro malgrado, ascoltare la parola di Dio giudice alla fine dei loro giorni? Riconosciamo, dunque, che la causa di tanti stravizi che abbondano sulla terra è il lusingarsi di non dover rendere conto a Dio di tutte le nostre opere.

Miei cristiani! Forse che Iddio rinuncerà a pronunciare sopra di noi il suo severissimo giudizio solo perché noi non ci badiamo, non ci riflettiamo e, di conseguenza, continuiamo a sciupare la sua grazia e i suoi doni? Anche l’economo evangelico credeva di non dover dare conto al suo padrone delle sostanze a lui affidate. Invece, quando questi si avvide dell’orrendo abuso che egli stava facendo dei suoi beni, lo mandò subito a chiamare e gli intimò il rendimento dei conti e la perdita del suo impiego.

Non lusinghiamoci, quindi, circa l’abuso che facciamo dei celesti favori e non sforziamoci di scacciare dal pensiero ogni triste idea del giudizio severo che ci attende alla nostra morte, poiché non possiamo nascondere a Dio le nostre prevaricazioni: se, infatti, fu diffamato presso il padrone l’economo del santo Vangelo, molto più le accuse e la fama delle nostre colpe e lo spreco delle grazie divine giungeranno all’orecchio del Padre celeste. O fratelli, il demonio non cessa di accusarci: egli, nella Sacra Scrittura, è chiamato accusatore dei nostri falli innanzi a Dio, giorno e notte.

Accusatore ancor più veridico, insieme agli altri, è il nostro stesso Angelo custode il quale, vedendo che inutilmente ha tentato tutti i mezzi per salvarci dal precipizio, avanza anch’egli verso il trono di Dio e sostiene la nostra condanna. Aggiungete le grida ed i clamori degli uomini da noi offesi con le nostre ingiustizie, mormorazioni e discorsi scorretti. Dio, nella Sacra Scrittura, asserisce che Egli sarà costretto a prestare orecchio alle querele della vedova, dell’orfano e dello straniero offeso. Fra tanti accusatori dei nostri falli, pensate voi che non si sdegni il divino Giudice e che non ci chiami alla resa dei conti?

La fede ci insegna che, dopo morte, vi sarà un severo giudizio su quanto avremo detto, fatto o pensato in tutto il corso della nostra vita. Ora Iddio tace, pazienta, dissimula di fronte allo spreco che vede fare da noi dei suoi doni e delle sue grazie per darci tempo di fare penitenza, ma parlerà un giorno a tutti e, pieno di furore e di sdegno, dirà a tutti, come disse il padrone evangelico al suo economo: «Che cosa sento di te? Credevi tu dunque, anima infedele, custode dei miei beni, credevi che non sapessi dirti in faccia, ad una ad una, le tue mancanze?

Sappi che nei libri miei tutto si registra e si nota, circa lo stato dei nostri reciproci conti. Ti comportasti in tutto secondo le mie istruzioni? Fosti tu sempre il mio economo e non vi pensasti? Il non avervi pensato certo non ti difende.

Ripensa alla tua puerizia più remota, alla tua più fervida adolescenza, alla virilità più matura e alla vecchiaia decrepita: « redde rationem !». Rendimi conto di ogni tempo, di ogni pensiero che passò per la tua mente, di ogni parola che uscì dalla tua bocca, di tutte le opere che facesti o che volesti fare: « redde rationem !». La salute del corpo, la forza, l’istruzione, l’educazione furono tutti miei beni. Sì, l’essere nati nel grembo della Chiesa, l’essere nutriti del suo latte: i sacramenti, le ispirazioni e le grazie, non sono mio dono? Come corrispondesti tu, ingrato?

Quanto tempo non ti ho accordato per operare la tua eterna salvezza? Tu, dunque, rendimi conto di tutto. Rendimi conto di tanti pensieri e di tanti effetti impuri, di tanti desideri malvagi, dei rancori, delle invidie e di tanti altri peccati interni da te commessi negli anni della tua vita malvagia. E non sapevi, anima iniqua, che io sono il Dio scrutatore dei cuori, che tutto so, tutto vedo, tutto conosco?

Rendi conto di quella lingua che io ti avevo dato per lodarmi, per umiliarti e per edificare il tuo prossimo mentre tu, ingrata, te ne servisti solo per oltraggiarmi. Tengo presenti tutte le tue parole oziose, le tue bugie, le tue imprecazioni, le tue maledizioni, le bestemmie esecrande da te vomitate contro di me, contro il mio santo Nome, il mio Sangue, la mia Provvidenza e contro il tuo prossimo. Sì, fui presente ed ascoltai quei turpi discorsi coi quali intaccavi la mia religione, la mia Chiesa, i miei ministri, il mio culto; quegli infami discorsi, quei malvagi consigli, quelle nere calunnie, quei rapporti maligni non mi sono nascosti. « Redde rationem !». Rendi conto di tante feste violate, di tante Messe non ascoltate o ascoltate molto male, di tante Chiese profanate, di tanti Sacramenti abusati, di tante ispirazioni rifiutate, di tanti avvisi venuti dal tuo confessore e da te non curati, di tante disubbidienze che facesti ai tuoi genitori e ai superiori.

« Redde rationem ». Di tanti sguardi immodesti, di tante disonestà, dei furti, degli inganni, delle ingiustizie, delle frodi che usasti per rapire l’altrui. « Redde rationem ! ».

Dei discorsi maliziosi, degli scandali con cui mi strappasti tante anime che mi costarono il Sangue e che tu hai sacrificate al peccato e al demonio, per cui ora, per causa tua, gemono e gemeranno per sempre nell’inferno.

Io le sento ancora gridar vendetta contro di te e presto le esaudirò. Era questa la corrispondenza che tu dovevi a tante grazie, e tanti benefici che ti ho concessi nel corso della tua vita? Anima ingrata! Sappi che ormai è finita per te.

Cristiani miei, che vi dice il vostro cuore all’udire questi acerbi rimproveri che farà in morte Cristo Giudice all’anima che avrà abusato in vita di quei beni che Iddio le aveva accordato? Potrete ancora, dopo ciò, potrete ancora continuare a sciupare le grazie del nostro buon Dio con la scusa di non dover rendergliene minutissimo conto? Se un severo rendimento di conti di quanto avremo fatto, detto, pensato in vita è immancabile al punto della morte, perché non pensare seriamente, finché siamo in tempo, a rimediare al male fatto per il passato ed a risolvere decisamente di volere, per l’avvenire, impiegare un po’ meglio di quanto non abbiamo fatto finora i beni temporali e spirituali che ci furono consegnati dal supremo Padrone e Signore di ogni cosa?

Fratelli miei, se per il passato abbiamo avuto la sorte di imitare l’economo del vangelo nello sciupio delle grazie divine, non sia più così da qui in avanti. Se, finora, delle sostanze, della sanità, della forza, dei sentimenti, del corpo, dell’ingegno e dell’abilità della mente ci siamo serviti per offendere Dio, volgendo, con gravissima ingratitudine, contro di Lui gli stessi suoi doni, rimediamo, quanto prima, ad un sì grave disordine, detestiamo la nostra temeraria infedeltà e mostruosa ingratitudine; chiediamo veramente di cuore perdono a Dio del male che abbiamo fatto e procuriamo, per l’avvenire, di non abusare mai più dei beni che Egli ci ha concessi e ci concederà in seguito.

Promettiamo di servircene unicamente per quel fine per cui ce li ha dati, che è di sempre più amarlo e benedirlo con l’esercizio di buone opere in questo mondo, per andare poi a lodarlo eternamente nel cielo. In questo modo non solo schiverete il meritato castigo, ma anche vi acquisterete lode presso il nostro Padre celeste, come l’economo evangelico l’acquistò presso il suo padrone, per aver saputo prudentemente, col beneficare il suo prossimo, provvedere alla sua disgrazia: « et Dominus laudavit villicum iniquitatis ».

Amen.