Suore dell'Immacolata

Purita intenzione

 

Accumulatevi tesori nel cielo

Dal brano del Vangelo di S. Matteo: 6, 22-23

22 «… Lucerna corporis est oculus. Si ergo fuerit oculus tuus simplex, totum corpus tuum

23 lucidum erit; si autem oculus tuus nequam fuerit, totum corpus tuum tenebrosum erit. Si ergo lumen, quod in te est, tenebrae sunt, tenebrae quantae erunt!».

PURITÀ DI INTENZIONE

Gesù Cristo, dopo aver solennemente promesso ai suoi discepoli, ed in loro anche a tutti noi, che qualunque cosa avessero domandato al divin Padre in suo Nome l’avrebbero sicuramente ottenuta, rivolge ai medesimi discepoli un dolce rimprovero perché non avevano fino ad allora chiesto cosa alcuna in suo Nome, indi li esorta, e quasi li spinge, a domandare con piena fiducia di ottenere, affinché la loro gioia sia perfettamente piena. Con ciò, il divino Maestro ha voluto insegnare a tutti la grande necessità della preghiera per ottenere grazie dalla sua divina misericordia e il modo con cui si deve pregare affinché le nostre orazioni siano accette e gradite al Signore e da Lui esaudite. Dobbiamo pregare nel nome di Gesù, dobbiamo assumere, cioè, Lui nelle nostre preghiere come mediatore, come lo è veramente, e appoggiarci interamente ai meriti della sua passione e morte come fa la Chiesa nostra madre, la quale conclude ogni sua orazione con quelle parole: « Per Christum Dominum nostrum ».

Io, però, oggi non vi parlerò né dell’importanza né della necessità dell’orazione, né del modo di farla, perché mi ricordo di avervi già parlato di ciò un’altra volta. Farò, invece, un’altra riflessione, la quale mi pare che si possa giustamente dedurre dalle medesime parole dette quasi a rimprovero dal divino Maestro ai suoi discepoli: «Finora non avete domandato nulla in Nome mio».

Da queste parole dobbiamo imparare a fare tutte le nostre cose con purità e rettitudine d’intenzione se vogliamo che siano gradite al Signore e ci siano attribuite a merito per il Paradiso: altrimenti dovremo temere che, al momento della nostra morte, Gesù Cristo ci dica, come agli Apostoli: «Finora non avete chiesto nulla in mio Nome», cioè non avete fatto, durante la vostra vita, nulla a mio riguardo e perciò io non devo darvi alcun premio del vostro operato. Ascoltatemi con pazienza.

Gesù Cristo, nel citato Vangelo di S. Matteo, si fa intendere che se il nostro occhio sarà semplice, il nostro corpo sarà chiaro e luminoso; se, al contrario, l’occhio nostro sarà torbido e perverso, tutto il corpo diverrà tenebroso.

Ora, cosa credete, Sorelle mie, che il divino Maestro volesse significare per occhio e per corpo? Per occhio, dicono i santi Padri, Gesù ha voluto indicare l’intenzione con cui si opera e per corpo l’azione, ossia la cosa stessa che si fa. Quindi, se l’intenzione con cui operiamo è semplice, vale a dire se noi, nel nostro operare, non abbiamo altro fine che di piacere e di dare gusto a Dio, la nostra opera è tutta buona, tutta bella e risplendente di purezza e di santità; se, invece, la nostra intenzione è falsa, cioè, se nel fare ciò che facciamo noi abbiamo qualche altro fine meno retto o di vanità, o di propria compiacenza, o di rispetto umano, allora tutta l’opera nostra diventerà cattiva, cioè non avrà più alcun merito per la gloria del cielo, sebbene l’opera, per se stessa, sia santa e pregevole. «Ancorché io dessi – dice S. Paolo -il mio corpo alle fiamme e soffrissi il martirio per la fede, se non lo do per Dio, se non lo soffro per piacere a Lui, niente mi giova».

Il motivo è perché Dio non guarda l’esteriore delle nostre azioni come fanno gli uomini i quali giudicando dall’apparenza e credono tanto più grande un’opera quanto è maggiore la fatica che in essa s’impiega. Egli, al contrario, rompe la corteccia della cosa, penetra dentro e guarda il cuore, cioè la volontà e l’intenzione con cui la facciamo. Giustamente la purità e la rettitudine d’intenzione del nostro operare viene chiamata dai Maestri di spirito la vera e certissima alchimia che sa fare del rame e del ferro oro finissimo perché, quantunque l’opera sia di per sé umile e semplicissima, se fatta per amor di Dio, ossia per dare gusto e far piacere a Lui, diventa preziosissima e molto più gradita al Signore di qualunque altra per sua natura più nobile e grandiosa, ma eseguita senza rettitudine di volontà. Due esempi della Sacra Scrittura lo comprovano a meraviglia.

Si legge nel Vangelo che, mentre il divin Salvatore un giorno camminava accompagnato da molta gente che lo seguiva, una donna, che soffriva di emorragie, tanto si spinse fra quella turba che giunse a toccare il lembo della veste di Gesù Cristo, per cui il buon Maestro si voltò indietro e disse forte: «Chi mi ha toccato?». I Discepoli, meravigliati, gli risposero: «Come, Maestro? Le turbe vi opprimono da ogni parte, vi si calcano addosso, e voi dite: «Chi mi ha toccato?». Da ciò si vede che il leggero tocco della veste del Redentore fatto da quella pia donna, perché accompagnato da viva fede e sincera devozione, fu inteso e sentito dal Redentore e da Lui anche favorito dalla grazia miracolosa di una perfetta guarigione dalla sua lunga infermità, mentre le pressioni che Gli venivano fatte da ogni parte dalla grande turba di popolo non furono da Lui intese, perché non erano ispirate da fede viva. Ciò fece scrivere a S. Agostino che molti sono quelli che premono Gesù, ma pochi realmente lo toccano. Molte anime religiose fanno grandi fatiche per la loro comunità onde migliorarne le condizioni, ma poiché il loro intento non è puro e la loro intenzione non è totalmente retta esse, pur premendo Gesù Cristo, non lo toccano, vale a dire lo incomodano, ma non lo accontentano.

L’altro esempio che comprova come Dio non considera tanto l’opera che si compie quanto l’affetto e la purezza di intenzione con cui la si accompagna, è quello della povera vedova che mise due sole piccole monete nella cassa del tempio di Gerusalemme. Parlando di lei con i discepoli il divin Salvatore disse che ella aveva dato più di tutti gli altri, perché aveva fatto quell’elemosina con grande affetto e pura intenzione, motivo per cui Dio l’accettava, a preferenza di altre maggiori, ma offerte con meno amore e meno generosità.

Se dunque Dio non guarda l’operare esteriore -dice S. Gregorio Magno – bensì l’intenzione, l’affetto e l’amore con cui si opera, ne segue: 1) che una persona può piacere di più a Dio ed acquistarsi più meriti per la vita eterna con meno opere di un’altra che ne compie numerose, ma con minore amore; 2) che noi dobbiamo essere contenti di venire occupati tanto in uffici bassi come in uffici alti; tanto in cucina, in refettorio o alla porta quanto all’infermeria; tanto alla scuola quanto alla pulizia della casa, perché tutta la nostra consolazione deve consistere nel fare la volontà di Dio e questa si fa in qualsiasi ufficio veniamo impiegati dall’obbedienza, purché abbiamo sempre in bocca e nel cuore le parole: «Signore, faccio questo per piacere a Voi, perché così Voi volete». Non dobbiamo mai abbandonare questo esercizio di uniformità al divino Volere, finché non giungiamo ad operare come chi serve solo a Dio e non agli uomini.

S. Paolo dice: «Serviamo a Dio e non agli uomini quando agiamo come chi ama Dio nelle azioni stesse, contenti di fare, in esse, la Sua volontà». Se opereremo sempre in questo modo, se faremo sempre le nostre cose con intenzione di dare in tutto soltanto gusto e piacere a Dio, nulla potrà mai turbarci, saremo sempre in calma e tranquillità di spirito, resteremo sempre con inalterata pace sia che l’opera intrapresa abbia buon esito, sia che vada male e non possa conseguire il nostro intento perché, agendo unicamente per Dio, qualunque siano le occupazioni esterne, esse non potranno mai impedirci il nostro profitto spirituale, anzi, l’anima andrà sempre migliorando di giorno in giorno nelle virtù cristiane.

Il Rodriguez dice: «Poiché Marta e Maria sono sorelle, l’una non disturba né è di ostacolo all’altra, anzi si aiutano a vicenda. Mi spiego: l’orazione aiuta a far bene l’azione e l’azione, fatta come si deve, aiuta a far bene l’orazione; se tu ti senti turbato ed inquieto nell’azione, è perché non ti aiuta Maria che è nell’orazione». «Marta, Marta sei sollecita e ti turbi per molte cose», cioè ti occupi negli uffici e nelle cose esteriori in modo da soffocare lo spirito ed estinguerne la devozione. Marta si turba, perché non l’aiuta la sorella Maria: «Dille, dunque, che mi aiuti» «Marta, procura tu che Maria, che è in orazione, ti aiuti nei tuoi lavori e nelle tue fatiche corporali, in modo che le occupazioni esterne non ti impediscano il raccoglimento e la devozione interna. Farai così grandi passi nella via della virtù».

Si legge in S. Caterina da Siena che il padre e la madre la perseguitavano grandemente per indurla a prendere marito e la persecuzione giunse a tal punto da ordinare che la figlia non avesse più una stanza particolare dove potersi ritirare, occupandola negli uffici di casa al posto di una schiava che licenziarono, affinché non avesse più tempo di pregare, né di fare altri esercizi spirituali. Che fece allora Caterina? Ammaestrata dallo Spirito Santo, fabbricò dentro al proprio cuore una cella segreta, facendo il proposito di non uscirne mai. Se pertanto, nella stanza materiale che aveva prima, qualche volta stava e qualche altra ne usciva, dalla santa cella, che aveva fabbricata dentro di sé, non usciva mai.

Si immaginava interiormente che suo padre rappresentasse Gesù Cristo, sua madre la Madonna, i suoi fratelli con il resto della famiglia gli Apostoli e i discepoli del Signore e così trascorreva il tempo con grande gioia e diligenza perché, stando in cucina o servendo a tavola, si figurava di servire Gesù Cristo, suo Sposo celeste, e godeva sempre, in tal modo, della sua divina presenza.

Noi beati, mie Suore, se sapremo fare altrettanto, se in tutte le nostre occupazioni ci ricorderemo che le stiamo facendo per volontà di Dio e le indirizzeremo alla Sua maggiore sua gloria. Conformemente al detto della Divina Scrittura, noi consumeremo in breve molto tempo e molti anni in pochi giorni, acquisteremo in breve tempo il merito di lunghi anni e piaceremo sempre a Dio. Lo stesso mangiare, il riposare, il prendere il sonno necessario non saranno opere vuote per noi, ma tutte piene di grande merito, se le indirizzeremo alla maggior gloria di Dio. Noi non mangeremo per soddisfare il gusto come le bestie, cioè cercando la nostra soddisfazione, ma faremo ciò unicamente perché è volontà di Dio che lo facciamo, per la conservazione della nostra vita.

Al contrario, se noi non operiamo bene, se non spenderemo ed impiegheremo santamente i giorni della nostra vita, anche se vivessimo lungo tempo ed avessimo molti anni, noi morremmo, dice Giobbe, vuoti di Dio ed i nostri anni, avendoli passati invano, sarebbero pochi e cattivi – Parvi et mali -.

Si narra nelle cronache di S. Francesco che un santo religioso domandò un giorno ad un altro da quanto tempo era frate e questi rispose: «Non lo sono nemmeno da un solo momento» «Come – riprese l’altro – non lo sei da un solo momento? Che stranezza è questa? Non sono molti anni che sei in religione?» «Sì – rispose il servo di Dio – so bene che da settantacinque anni porto l’abito di frate minore, ma quanto tempo sia stato veramente frate, non lo so».

Piaccia al Signore, mie Suore, che nessuna di noi debba dire con verità quello che disse quel religioso per umiltà e cerchiamo di scolpire bene nel nostro cuore che l’affare della nostra salvezza non sta nei molti anni di religione e nemmeno in una lunga vita, ma in una vita buona; convinciamoci che valgono più pochi giorni di una vita fervente che molti anni di vita tiepida e rilassata, perché dinanzi a Dio non si contano gli anni di vita, ma solo quelli di una vita buona e virtuosa.

Sentite infatti che cosa avvenne a Saulo. Negli Atti degli Apostoli si legge che egli fu dato da Dio come re al popolo ebreo per quarant’anni, mentre nel primo Libro dei Re si legge che governò Israele solo per due anni, cioè il tempo in cui era vissuto da buon re; perché quelli soli gli furono scritti nel libro della vita.

Nel Vangelo si legge che quelli che andarono nella vigna del padrone evangelico all’ora undecima, venuta la sera, furono trattati come gli altri che erano andati alla mattina perché, in una sola ora di lavoro, avevano meritato più dei primi in tutto il giorno.

Dunque, mie dilettissime, regoliamoci anche noi secondo questo criterio e vediamo un poco quanto tempo siamo vissuti finora da buone anime religiose. «Voi – dice S. Eusebio – siate solite contare i tempi e gli anni che siete in religione, ma guardate che non vi inganni il numero degli anni e dei giorni decorsi da quando lasciaste il mondo. Dovete contare di essere state nella religione solo da quel giorno nel quale vi siete impegnate a mortificare la vostra volontà, avete fatto resistenza alle vostre passioni, avete osservato bene le regole del vostro Istituto, avete fatto bene la vostra orazione e i vostri esercizi spirituali.

Tutto il resto è tempo perduto. Non serve che dinanzi agli uomini abbiate buona fama e sembriate persone di virtù se non avete operato e non operate con purità di intenzione. In tal caso il Signore farebbe a noi quell’acerbo rimprovero che fece già al Vescovo della Chiesa di Sardi e che si legge nell’Apocalisse: «Io ben conosco le tue opere, hai nome di vivo, ma sei morto; hai nome di cristiano, ma non fai opere da cristiano, hai nome di sacerdote, di religioso, ma le opere tue non si accordano con il nome che hai; non trovo infatti le tue opere ricche davanti al mio Dio, perché esse non sono piene, ma vane e vuote. Vuote di Dio e piene di te, poiché in esse tu non cerchi che te stesso e le tue comodità, il tuo gusto e la tua reputazione».

Stiamo dunque vigilanti sopra di noi, mie Suore, e procuriamo che le nostre opere siano sempre piene e pieni anche i nostri giorni, facendo ogni cosa con pura e retta intenzione di piacere e dare gusto solamente a Dio, facendo in tutto la sua divina Volontà. In questo modo potremo, in poco tempo, vivere a lungo e meritare molto al cospetto di Dio.

Amen.