Suore dell'Immacolata

Piccole cose

 

Il granello di senapa e il lievito

(seconda riflessione)

Dal brano del Vangelo di S. Luca: 13, 18-21

18 «Dicebat ergo: – Cui simile est regnum Dei, et cui simile existimabo illud?

19 Simile est grano sinapis, quod acceptum homo misit in hortum suum, et crevit et factum est in arborem, et volucres caeli requieverunt in ramis eius -.

20 Et iterum dixit: – Cui simile aestimabo regnum Dei?

21 Simile est fermento, quod acceptum mulier abscondit in farinae sata tria, donec fermentaretur totum».

LE PICCOLE COSE

San Luca in due parabole narra lo sviluppo del Regno dei cieli. Nella prima ci dice che il Regno dei cieli è simile ad un granello di senapa il quale, seminato da un uomo nel suo campo, benché piccolo, cresciuto poi con l’aiuto della pioggia e del calore del sole, si alza sopra tutti gli erbaggi e diviene un albero così grande, che gli uccelli dell’aria vanno a rifugiarsi sotto i suoi rami.

Nell’altra parabola ci fa intendere che il Regno dei cieli è simile al lievito il quale, posto da una donna in mezzo a tre misure di farina, fa fermentare tutta la pasta e la fa lievitare in modo da trasformarla in ottimo pane.

Con queste due parabole Gesù Cristo ha voluto insegnarci che le piccole cose possono essere, e talvolta lo sono realmente, principio di grandi effetti. Di conseguenza, la pratica delle piccole virtù, oltre a mantenere in noi il fervore della carità, ci fa avanzare nella grazia e nell’amicizia con Dio e, quasi alberi venuti da piccolo seme, ci innalza a così alto grado di santità, da meravigliare gli stessi Angeli del Paradiso.

Non vogliate dunque avervela a male, o mie Suore, se io prendo occasione da questa considerazione per esortarvi a far grande conto delle piccole cose e ad approfittare con diligenza di ogni buona opportunità, per piccola che appaia in se stessa, perché da questa può dipendere la nostra eterna salvezza.

È verità di fede che Iddio ha destinato a tutti la gloria del Paradiso e vorrebbe realmente che tutti si salvassero e non si perdesse alcuno: – Dio vuole che tutti gli uomini siano salvi -. Ma se lo stesso è il fine a cui tutti dobbiamo giungere, non sono però le stesse le strade per raggiungere un tale fine. Anzi, nella vita di ciascun uomo Iddio vede innumerevoli connessioni di avvenimenti i quali, come tante strade maestre, conducono o direttamente alla gloria, o direttamente alla perdizione. Che l’uomo si incammini piuttosto per una di queste strade che per un’altra, dipenderà talora da cose piccolissime. Ascoltare o non ascoltare una predica, leggere o non leggere un libro, approfittare o meno di un’ammonizione che ci viene fatta caritatevolmente, far silenzio o non farlo in una data circostanza, andare o non andare a fare una visita di carità, possono essere l’occasione che ci incammina al Cielo o all’inferno. Ho detto che ci «incammina» perché, vedete, la nostra salvezza non dipenderà immediatamente da tali cosette, ma ne dipenderà remotamente. Udite con attenzione e intenderete meglio questo concetto.

Racconta S. Agostino che, trovandosi l’imperatore Teodosio nella città di Treviri per vedere i famosi giochi del circo, due dei suoi cortigiani, volendosi allontanare da quello spettacolo, uscirono fuori dalla città per godere l’aria fresca della campagna; passando di strada in strada, penetrarono in una solitaria boscaglia dove abitavano, sotto una rozza capanna, alcuni penitenti romiti. Entrati per curiosità in quel tugurio, mentre ammiravano la povertà dell’abitazione e la scarsità dei mobili, videro un libro assai grande che giaceva sopra un tavolino. Uno di essi lo prese, lo aprì e si accorse che conteneva la narrazione delle gesta di S. Antonio Abate. Cominciò a leggere prima per curiosità, poi per piacere, e, poco a poco, si infiammò all’imitazione. All’improvviso, avvampando tutto nel cuore di santo amore, proruppe in un sospiro e disse al compagno: «Poveri noi che seguiamo una strada tanto diversa! Ditemi un poco, per la vita vostra, o Signore, che pretendiamo noi con tante fatiche, con tanti servizi, con tante umiliazioni che subiamo a corte, che pretendiamo noi? Possiamo sperare di più che conseguire l’amicizia e la benevolenza dell’imperatore? E questo è anche incerto, perché la vita è breve, la gioventù fallace, le forze deboli; i concorrenti sono molti e i posti sono pochi. Quand’anche ci arrivassimo, che avremo fatto alla fine? Saremo passati da fatica a fatica, da servitù a servitù, da pericolo a pericolo. Dovremmo vivere sempre con timore e star sempre in guardia per la grande invidia da cui saremmo sempre circondati. Invece, per diventare amici di Dio, basta solo volerlo e nessuno ce lo potrà mai contendere né impedire.

Dopo aver dette queste parole al compagno, tornò a fissare gli occhi sul libro e, quasi assorto nella grande conversione che si verificava in lui stesso, leggeva e gemeva, ora pallido ed ora acceso in viso, ora pensieroso ora piangente. Finalmente chiuse il libro e, battendo con la mano il tavolo, disse risolutamente al compagno: «Quanto a me, ho stabilito di fermarmi qui. Da quest’ora ed in questo luogo voglio consacrarmi tutto a Dio. Se voi non mi volete imitare, astenetevi almeno dal disturbarmi». «Come – riprese il compagno commosso da tale esempio – non sarà mai che io ritenga per me la terra ed a voi lasci il Cielo! O ritorneremo tutti e due alla reggia, o ci chiuderemo tutti e due in questo tugurio». Così determinato, senza tornare neppure dall’imperatore, gli mandarono su un foglio la loro comune risoluzione e, deposti subito i pomposi ornamenti, si vestirono di sacco, si cinsero una fune, si chiusero in una cella ed ivi in somma povertà, sempre squallidi, sempre scalzi, condussero il resto dei loro giorni.

Ora, ditemi un poco, mie Suore, le tante opere buone che questi due novelli romiti dovettero sicuramente aver fatto per acquistare la gloria del paradiso, da che cosa ebbero l’ispirazione?

Dall’essersi ritirati da uno spettacolo. Iddio, infatti, aveva disposto che uscissero a passeggiare, che incontrassero il romitaggio, che leggessero il libro, che si accendessero di sentimenti devoti, quindi che aborrissero la corte, che abbracciassero il chiostro, che camminassero sulla via regale della croce.

Immaginate, invece, che questi due cortigiani si fossero trattenuti anch’essi a quei giochi a cui forse si poteva intervenire senza colpa grave. Sarebbe accaduto quello che accadde?

È moralmente certo che no, poiché tutte le cose hanno una loro propria opportunità, da cui ne dipendono altre. Anzi, sarebbe seguita una serie di avvenimenti assai diversi, e solo.Dio sa dove li avrebbe condotti. Essi avrebbero probabilmente perseverato nel servizio dell’imperatore, nelle vanità della corte, nei vizi del secolo e, per conseguenza, nei pericoli dell’inferno. Questi due uomini debbono, dunque, riconoscere come causa della loro eterna salvezza (non già come causa prossima, ma come causa remota), l’aver lasciata una ricreazione non tanto lodevole. Quell’occasione fu per loro come la piccolissima fonte veduta da Mardocheo, che si trasformò in largo fiume. Fu come il piccolissimo sasso veduto da Daniele, che si mutò in smisurata montagna. Fu come il granello di senapa, di cui parla l’Evangelista S. Luca, che crebbe poi in grande albero.

Da piccole cose incominciarono quasi tutti quelli che noi sappiamo essere arrivati ai più sublimi gradi di perfezione e di santità. Pochissimi, certamente, furono i santi che nacquero santi: nella legge antica vi fu Geremia, nella legge nuova Giovanni Battista. La maggior parte degli altri non nacquero santi, ma lo diventarono e che lo siano diventati quale ne fu il motivo? Per uno fu l’aver ascoltato un consiglio, come accadde alla nostra santa Caterina Fieschi la quale, andando un giorno dalla sorella Limbania, monaca nel Monastero delle Grazie, per avere un po’ di sollievo nella grande afflizione in cui si trovava da cinque anni per i maltrattamenti che riceveva dal marito, fu da lei consigliata ad andarsi a confessare dal direttore spirituale di quel monastero e lì, ai piedi di quel Confessore, si sentì inondata da tanta grazia che da quel giorno diede un addio generoso a tutte le cose di questo mondo e gettò le fondamenta della grande santità che voi conoscete.

Per altri fu l’aver contemplato attentamente un cadavere, come avvenne a S. Francesco Borgia; per altri l’aver perdonato pietosamente un’ingiuria, come accadde a S. Giovanni Gualberto; per altri l’aver soccorso caritatevolmente un povero come S. Francesco di Assisi; per altri l’aver tollerata innocentemente una prigionia, come S. Efrem Siro; per altri l’essere caduto vergognosamente nel fango, come il Beato Consalvo Domenicano; per altri l’aver ricevuto opportunamente un rimprovero dalla madre, come S. Andrea Corsini; per altri l’aver sopportato in pace una calunnia, come la casta Susanna; per altri l’aver sofferto con pazienza una ingiusta persecuzione, come S. Stanislao Koska.

Giunsero alla santità, benché per strade molto diverse, S. Antonio Abate e S. Ignazio di Loyola. Tutti e due furono Padri di numerosissimi seguaci, quantunque l’uno di gente solitaria e contemplativa, l’altro di persone attive che vivono nel mondo.

Antonio popolò la selva di santi monaci, Ignazio riempì le città di zelanti predicatori: tutti e due, all’inizio della loro conversione, ebbero a soffrire dai demoni dei contrasti terribili: ad Antonio apparivano spesso in forma di animali feroci, ad Ignazio col volto di femmine lusinghiere, ma ambedue esercitarono sopra i demoni grandissima padronanza, ambedue arsero di desiderio accesissimo del martirio e, per realizzarlo, andarono Antonio ad Alessandria e Ignazio a Gerusalemme, quantunque Iddio li volesse preservare entrambi per riparare, tramite loro, le perdite che cominciava a soffrire la sua Chiesa: ai tempi di Antonio per l’eresia di Ario e ai tempi di Ignazio per l’eresia di Lutero. Per opporsi al furore dei demoni, il primo lasciò per qualche tempo la Tebaide e il secondo lasciò per sempre la solitudine di Monresa. Ora ditemi: la santità di questi due grandi uomini dove ebbe il suo inizio? Non avrebbe dovuto essere un grande seme quello che produsse due piante così ubertose? Eppure non fu così. Per l’uno: « initium viae bonae » fu l’ascoltare attentamente una Messa, per l’altro fu il leggere con attenzione un libro. Ancora giovanetto Antonio entrò in una Chiesa per partecipare a una Messa e si imbatté in quel Vangelo che dice: «Se vuoi essere perfetto va, vendi ciò che possiedi, poi vieni e seguimi». Egli lo reputò detto a se stesso e, da questo momento, iniziò una vita simile a quella di Cristo. Ignazio, non potendo uscire di casa perché ancora convalescente, domandò un libro da leggere: gli venne recato il leggendario dei Santi, invece del romanzo che avrebbe voluto. Cominciò a leggerlo e subito determinò di condurre una vita simile alla loro. Se non avessero l’uno partecipato con attenzione alla Messa e l’altro letto quel libro buono, che ne sarebbe stato di loro? Sarebbero divenuti i grandi santi che ora noi veneriamo? Io non lo so, perché ciò appartiene agli occulti giudizi di Dio che sono abissi impenetrabili, ma potrebbe essere che non lo fossero divenuti, perché assai spesso Dio suole determinare la santità, anzi la salvezza degli uomini, da un’opera buona molto ordinaria. Se essi la eseguono, Egli comunica loro una grazia tanto sovrabbondante ed una protezione tanto speciale che giungono infallibilmente al Paradiso, ma se non la eseguono Egli li priva dei suoi aiuti che, come insegnano i teologi, non sono dovuti né per legge di provvidenza, né per legge di redenzione e, concedendo loro solamente gli aiuti consueti e sufficienti, lascia che seguano le loro fallaci determinazioni e che così si perdano.

Questo è appunto quello che ci insegnano i santi, quando ci dicono che da un solo momento dipende l’eternità. Alcuni credono che questo momento sia soltanto quello della morte, per cui non si curano di tanti altri momenti, quasi bastasse impiegar bene quello solo, ma non è così. Per alcuni, questo momento è nella fanciullezza, per altri nella gioventù, per altri nella virilità, per altri nella vecchiaia. Ed è quello il momento nel quale Iddio ci attende, per così dire, al varco, per provare la nostra generosità e la nostra corrispondenza: non perché, passato quel momento, non ci sia più possibilità di salvezza (questo non si può dire), ma perché da quel momento dipenderà che incontriamo nell’avvenire maggiori o minori difficoltà per operare il bene e che abbiamo maggiori o minori forze per schivare il male: in una parola, che abbiamo o meno la grazia che ci aiuti.

Vediamo questo in un preclaro esempio delle divine Scritture, il quale conferma a meraviglia il nostro pensiero. Predicando nella Giudea, S. Giovanni Battista, animato dallo Spirito di Dio, si portò alla corte del re Erode e gli fece intendere schiettamente che egli non poteva tenere, come sua, la moglie di suo fratello Filippo, che tutta la città era scandalizzata del suo operare e che perciò procurasse di riparare a tanto disordine con una vera penitenza, per meritare di ricevere la grazia del Salvatore. Erode non diede retta alla voce del Battista. Accecato dalla passione, invece di approfittare del savio ammonimento se ne risentì aspramente e, quantunque avesse stima del Battista, non di meno lo scacciò dalla sua presenza e, per non sentirsi più all’orecchio quel disgustoso – «Non licet -», lo fece chiudere in una oscura prigione: poi, come sapete, lo fece anche decapitare per compiacere la figlia della sua prediletta.

Quando poi Pilato, per sbrigarsi della causa di Gesù Cristo e non essere obbligato a condannare un innocente mandò il Nazareno ad Erode, questi gradì molto di trovarsi dinanzi quel Gesù di Nazareth che da gran tempo desiderava vedere per le grandi cose meravigliose che aveva sentito raccontare di Lui. Credeva che questa volta gli sarebbe stato facile udire dalla sua bocca qualche cosa di bello, o forse vedere anche qualche prodigio operato alla sua presenza, anche per liberarsi dalle sue mani. Erode gli rivolse varie interrogazioni, lo sollecitò più volte a rispondere, ma Gesù, alla presenza di lui, non aprì bocca. Sapete perché? Poiché Erode non aveva voluto approfittare del rimprovero dei suoi misfatti che gli aveva fatto pronunciare per bocca del suo precursore, così ora Gesù lo lasciò nelle sue colpe, non disse una parola, non manifestò la sua volontà quantunque Erode mostrasse desiderio di accoglierla e lo lasciò accecato nel suo peccato, non avendo egli voluto, a tempo opportuno, prestare orecchio al suo invito e dare ascolto alle parole con cui lo richiamava a penitenza.

Ecco, mie Suore, quanto importa non trascurare alcuna buona occasione se non si vuole essere in evidente pericolo di perdersi eternamente. Diamo quindi prova noi di avere giudizio: facciamo conto di tutto, anche delle piccole virtù, non trascuriamo mai nessuna opera buona per piccola che essa sia in se stessa; quella piccola azione, quell’orazione, quel consiglio, quella mortificazione, quell’obbedienza, quella piccola osservanza, quel silenzio da noi trascurati, potrebbero essere causa di privazione di quei divini, speciali aiuti senza dei quali non si giunge a salvezza, ma ci si incammina, invece, sulla cattiva strada, cioè sulla « via mortis ». Che Dio ce ne liberi!

Amen.