Suore dell'Immacolata

Pazienza

 

LA PAZIENZA

La pazienza è necessaria, dice S. Paolo, per conseguire la vita eterna. In altro luogo lo stesso Apostolo ci avverte che la nostra pazienza dev’essere così grande da fare di tutta la nostra vita un continuo esercizio di pazienza: in patientia vestra possidebitis animas vestras. Ma ditemi, figlie mie, questa pazienza tanto necessaria, credete voi che sia la virtù più praticata dai cristiani? Credete che tutti siano pazienti? Io non parlo solo delle persone in genere, ma parlando anche di persone devote, di religiose, credete voi che queste siano tutte molto impegnate nella pratica della virtù della pazienza? Che tutte ugualmente accolgono con serenità e con animo tranquillo la tribolazione? Che tutte sopportino con umile rassegnazione le avversità ed i contrattempi che loro succedono? Ne dubito grandemente. Poiché l’angelo spedito dal cielo a confortare Gesù nell’Orto del Getsemani, per mitigare il dolore e l’angoscia dell’agonizzante Signore, lo confortò invece a patire di più per amor dell’uomo, così io stasera voglio alquanto mitigare l’affanno e l’angustia che ognuno porta nel cuore per la tribolazione, ed esort are tutti a sopportare pazientemente ogni avversità, ogni contrasto, ogni male che ci possa accadere: sia per le strettezze in cui forse dobbiamo vivere; sia per le malattie con cui siamo o saremo visitati dal Signore; sia per le calunnie e le malvagità altrui; sia per la morte di parenti stretti o di amici cari; o per qualunque altro motivo. Vi mostrerò brevemente che la tribolazione torna sempre a nostro vantaggio spirituale e a profitto dell’anima nostra. Ho detto che la tribolazione, da qualunque parte venga, ci è sempre utile e vantaggiosa. Infatti, se siamo peccatori, la tribolazione è balsamo che ci riscatta dalla colpa: se siamo tiepidi, è fuoco che ci riscalda e ci purifica dai difetti; se siamo fervorosi, è farmaco che ci preserva dal cadere in imperfezioni. In qualunque stato noi ci troviamo, non possiamo mai aver motivo alcuno di rattristarci e di affliggerci dai mali temporali con cui Dio spesso ci mette alla prova.

Il peccato, dice S. Giovanni Crisostomo, è per l’anima una piaga purulenta; la tribolazione è il ferro medicinale con cui si cura e si elimina la parte infetta. Come colui che ha una parte del suo corpo in suppurazione, se non usa i rimedi adatti, cade via via in mali più gravi; così l’anima peccatrice se non venisse purificata dalla tribolazione, andrebbe a poco a poco a cadere nell’estremo della miseria, che è la sua eterna perdizione. Ora, se l’infermo, per prolungare anche di pochi giorni, la vita del corpo, soffre volentieri che il chirurgo curi la carne malata e recida la parte infetta, non dovremo noi soffrire con pazienza che Iddio curi le piaghe dell’anima nostra con avversità e travagli, affinché non ci portino alla morte eterna? Chi fu che aprì gli occhi e condusse a ravvedimento gli inumani fratelli di Giuseppe, se non la tribolazione? Quando Dio li percosse con l’avversità e con la miseria, allora conobbero la crudeltà e la barbarie che avevano commessa contro l’innocente fratello nel calarlo, prima nel fondo di un’oscura cisterna, e poi nel venderlo a mercanti stranieri, come schiavo. Quando fu che il superbo Nabucco abbassò la testa, adorando la Divina Maestà e ne magnificò la grandezza? Quando, a castigo della sua superbia, si vide condannato da Dio a mangiar l’erba del bosco come i giumenti. Quel giovane del Vangelo, fuggito con tanta ingratitudine dalla casa di suo padre, voglio dire il figlio! prodigo, chi lo indusse a ritornare a casa? Non fu che la fame, la nudità, l’estrema miseria? Non furono queste che gli fecero sgorgare dagli occhi lacrime di pentimento, che lo ricondussero fra le braccia dell’addolorato genitore e che gli fecero esclamare che non era più degno di essere chiamato suo figlio? Dice S. Agostino che, per i peccatori, la tribolazione è la vera medicina che Dio, come medico pietoso, porge loro per sanare le loro piaghe e salvarli. Dunque, per quanto sia amara la medicina, noi, consapevoli di essere colpevoli, dobbiamo prenderla volentieri dalle mani benigne del Signore, ingoiarla con pace, senza turbamenti, senza tristezza e senza lamentele, altrimenti ci fabbricheremo la nostra rovina con quegli stessi mezzi con cui Dio cerca di salvarci.

Se poi siamo giusti, ma tiepidi e accidiosi nel bene, invece d’inquietarci delle controversie che ci capitano, dovremmo ringraziare il Signore, il quale ce le manda proprio per distaccarci dal mondo, dalle vane consolazioni di quaggiù, da cui ci lasciamo così spesso allettare e per cui viviamo così lontano dalla religiosa perfezione. Iddio fa con noi come le madri con i loro teneri figli: esse volendo svezzarli, amareggiano il latte, affinché se ne allontanino. Così Dio, con le tribolazioni che ci manda, amareggia i miseri beni di questa terra, a cui siamo tenacemente attaccati, perché ce ne allontaniamo e sorgiamo da quella dannosa tiepidezza che ci porterebbe, quasi senza avve-dercene, a lacrimevoli sciagure. Guai a noi, se le cose terrene ci andassero sempre bene, se non avessimo mai contrasti o avversità di sorta; noi andremmo certo di male in peggio: dalla tiepidezza alla freddezza e poi alla totale rovina. E’ dunque, nostro dovere che in tempo di tribolazione, sottomessi ai divini voleri, adoriamo i decreti della Provvidenza divina, che tutto dispone per il nostro bene; anziché rattristarci per le croci che ci capitano, consoliamoci, perché mentre noi viviamo così poco preoccupati del nostro profitto spirituale, il Signore pensi Lui stesso al nostro vero bene con tanta amorosa sollecitudine.

Finalmente, se noi siamo giusti e fervorosi nel divino servizio, allora non solo dobbiamo aver pazienza nei travagli, ma dobbiamo stimarli grandi benefici. Sono essi infatti il crogiolo dove le anime buone si purificano dalle loro imperfezioni, si rivestono di luce e di nuovo splendore. Lo dice chiaro l’autore dell’Ecclesiastico: come l’oro e l’argento si purificano col fuoco, così l’uomo si purifica nelle avversità, se soffre con paziente umiltà, tutto ciò che gli accade. Gli arboscelli, nati sulla cima di una montagna, sono i più esposti a tutte le ingiurie del tempo, ma nello stesso tempo, essendo combattuti dai venti, acquistano maggior fermezza, perché quanto più sono scossi, tanto più gettano profonde le radici. Così la virtù: provata da persecuzioni, da malignità e da calunnie, si radica più profondamente nell’anima, purificata da tentazioni, da malattie, da avversità, diviene più perfetta. Né mi venite a dire che l’essere tribolati, può sembrare di non essere accetti a Dio e di non essere da Lui amati; perché è tutto il contrario: proprio perché siamo accetti a Dio, Egli ci flagella e ci percuote con le tribolazioni. Come il maestro aggrava di maggiori compiti gli alunni più abili, perché spera di trarne maggior profitto; come il capitano prepone alle imprese più ardue i soldati più forti, perché spera un esito più felice; come il padre è più severo con i figli migliori, per renderli più morigerati e più virtuosi, così Dio espone alle prove più dure e più tormentose, perché vuole renderli robusti nella virtù, coloro che ritiene per soldati più fedeli nella sua milizia, per discepoli più diligenti nella sua scuola, per figli più cari nella sua casa. Voi vedete, infatti, un Abramo, un Isacco, un Tobia, un Giobbe, un Daniele, un Davide, tutti personaggi santissimi, ma tutti passati attraverso il cro-giuolo della tribolazione. Quando, dunque, il Signore ci affligge con qualche avversità, perché viviamo in malinconia e tristezza, in sgomento ed affanno? Perché non tolleriamo ogni cosa con pazienza e rassegnazione, sapendo che Iddio ci tratta così non per odio, ma per amore; non per il piacere di vederci afflitti, ma per desiderio di vederci perfetti? Su, dunque, facciamoci coraggio, siamo virtuosi; e se le motivazioni fin qui addotte non bastano ancora a farci sopportare serenamente ogni travaglio, c’induca l’esempio di Gesù Cristo, questo mirabile Dio Crocifisso.

Egli, dice S. Pietro, ha patito anche per questo scopo; ha voluto camminare per una strada lastricata di spine, affinché fossimo incoraggiati a seguirne le vestigia. Cristo, dice il Vangelo, ha patito per noi e ci ha lasciato l’esempio, affinché seguissimo le sue orme. Grande incoraggiamento è questo per soffrire in pace ogni male. Quale grave tribolazione può mai accaderci che il nostro Salvatore non l’abbia patita? Egli fu calunniato, beffato, schernito, deriso, maltrattato e maledetto da tutti; Egli fu tradito, rinnegato dai suoi stessi discepoli, flagellato crudelmente, coronato di spine, condannato a morte e crocifisso ingiustamente.

Quale grave avvenimento, dunque, potrà accaderci nella nostra vita, tale da non potersi soffrire con rassegnazione e pazienza, se ricordiamo le pene atrocissime di Gesù Cristo, Signor Nostro? Se ha patito tanto per noi, non potremo noi soffrire alcuna cosa per Lui? Non ce lo dice Egli stesso che chiunque vuol essere suo discepolo deve prendere ogni giorno la sua croce sulle spalle e seguirlo con generosità, con coraggio, sulla strada dei patimenti? Perché, dunque, piangere, rattristarsi, lagnarsi, sotto il peso della tribolazione, invece di portare la croce con umile e paziente rassegnazione? Pensiamo spesso a quanto Gesù ha patito per nostro amore e alla invitta pazienza con cui ha patito: in tempo di avversità, teniamo lo sguardo della mente fisso in Lui, gemente sotto la croce, agonizzante sopra la croce; trafitto dalle spine, piagato dai flagelli, perseguitato a torto, condannato ingiustamente, strapazzato con percosse o con parole. Confrontate con le sue, le vostre pene, vedete che si desterà in voi un certo desiderio d’imitazione che vi farà sembrare più soavi o, perlomeno, meno gravi, le vostre sofferenze.

Un certo giovane, cresciuto tra le comodità e le morbidezze della sua casa, si fece religioso in un convento di vita austera, ma venuto meno in breve tempo il suo primitivo fervore, incominciò a sembrargli duro il pane, agro il vino, ruvida la veste, pesante l’ubbidienza, intolleranti i superiori e i compagni: sicché, vinto dal tedio, decise di tornarsene a casa sua. Depose l’abito religioso, si vestì da secolare e se ne fuggì. Per la strada gli comparve Gesù Cristo sotto l’aspetto di un bel giovinetto, il quale, seguendolo, gli diceva: « Fermati, aspettami, non fuggire, io voglio venire con te ». Quegli, temendo d’essere trattenuto, affrettava ancora di più il passo. Alla fine però, importunato dalle voci e dalle preghiere di quel giovinetto, si fermò. E Gesù allora: « Dove vai con passo così celere? ». Rispose l’ardito fuggitivo: « Sei forse mio padre che ti debba dire le cose mie? Che importa a te dove io vada? ». Ma il Signore, raddolcendolo a poco a poco con buone parole e importunandolo con interrogazioni, lo indusse a confessare che fuggiva dal monastero e se ne tornava a casa a vivere nel secolo. Allora Gesù si aprì la veste e gli mostrò la piaga del suo costato grondante sangue e gli disse: « Torna, mio caro, torna al monastero e, in avvenire, se il pane sarà duro, intin gilo in questo fianco squarciato per tuo amore e ti sembrerà morbido; se il vino sarà acido, aggiungivi di questo sangue e ti parrà dolce; se la veste ti sembrerà ruvida immergila in questa piaga e la troverai morbida. In questo costato troverai amorosa l’ubbidienza, cari i compagni, dolce la ritiratezza, l’osservanza, l’austerità della vita ». A questa vista e a queste parole, il religioso, compunto, tornò indietro e facendo da quel momento la sua dimora nel costato del Redentore, soffrì con molta pazienza tutte le asprezze della vita comunitaria e passò santamente la vita.

Ora, se noi faremo altrettanto, se anche noi avremo sempre, o almeno spesso, presenti nelle meditazioni le piaghe, i dolori, gli obbrobri, la povertà, le ingiustizie, i torti, i disprezzi sofferti da Gesù Cristo per amor nostro, credetemi che anche a noi sembreranno dolci le ingiurie, le persecuzioni, le infermità, i dolori, le mortificazioni della volontà e le privazioni della vita religiosa. Dove credete che abbiano trovata la forza i martiri per soffrire tanti strazi; gli apostoli per sopportare tante fatiche; gli anacoreti per tante mortificazioni; i confessori per vivere in tante angustie, se non dall’esempio dell’inalterabile pazienza del Salvatore? Fu Costui che diede a tutti i santi una tempra d’acciaio per la tolleranza di tanti mali. E noi, dinanzi a questa invitta pazienza di Gesù Cristo, non avremo la forza di sopportare con umiltà e in pace le tribolazioni della nostra vita? Amen.