PASSIO DOMINI NOSTRI IESU CHRISTI
(Istruzione tenuta il Venerdì Santo al popolo)
Lacrime e non parole richiede da me questa considerazione, cristiani miei carissimi, lacrime e non parole. Che cosa mi annunziano: il silenzio delle campane, gli altari spogli dei sacri arredi, i Sacerdoti mesti che pregano sottovoce, i tabernacoli vuoti e tutto questo triste apparato di cose, se non mestizia e pianto? L’Autore della vita non vive più.
Sì, miei cari, l’amantissimo nostro Gesù, il nostro buon Dio, il nostro vero Padre, l’Autore amoroso del nostro riscatto, la nostra Vita, la nostra Speranza, il nostro tutto è morto; il Giglio delle convalli non germoglia più, perché è stato barbaramente ucciso da mano ingrata. È questo il giorno anniversario della Sua sanguinosa passione e della Sua crudele morte.
Potrei io essere indifferente e non piangere? Tutta la natura è sconvolta perché in grandissimo lutto; la Chiesa desolata ed afflitta piange la morte funesta del suo caro Sposo, e con canti tristi e cerimonie commoventi cerca di onorarne il sepolcro.
Potrò io, ministro di questa Chiesa, essere così insensibile alla morte del mio Signore da poter trattare il doloroso racconto a voce franca? Se voi, per dare sfogo al pianto, attendete solo che io vi ricordi i patimenti e gli strazi subiti da questo buon Dio, a me pare una crudeltà frenare le mie lacrime nel parlarne. Tuttavia lo farò, e poiché l’appassionato nostro Gesù merita di essere teneramente compianto da ognuno di noi, sia che si mediti il Getsemani, dove Egli fu tormentato con dolori interni così acerbi, che non potevano essere più intensi; sia che si rifletta sui tribunali ove venne beffeggiato dall’odio implacabile dei Suoi nemici; sia che si consideri il Calvario dove soffrì la morte più crudele, io sarò pago se col mio ragionare riuscirò ad ottenere da voi che versiate almeno una lacrima o emettiate un sospiro sulla Sua pena e detestiate il maledetto peccato che ne è la funestissima causa.
In tanto sconvolgimento di affetti, chi ci darà la forza di seguire Gesù lungo la via dell’ingrata Gerusalemme e sull’erta del Golgota? O croce adorabile del mio Signore, dove sei? Vieni tu almeno a darmi aiuto; tu sola in questi momenti, quale prodigiosa colonna di luce, puoi diradare le dense tenebre che ci avvolgono, affinché, illuminati dai luminosi tuoi raggi riusciamo a capire tutti quei barbari strazi, che Gesù subì per la nostra salvezza.
Tu, o croce, puoi e devi aprire nei nostri cuori due vive sorgenti: l’una di compassione per le Sue acerbe pene, l’altra di compunzione per i nostri peccati, affinché nella dolorosa storia di quanto avvenne in te né io parli senza efficacia né questo popolo mi ascolti senza ravvedimento.
Compiuta che ebbe il buon Gesù l’ultima cena pasquale, quella memoranda cena che fu sempre l’oggetto dei Suoi più ardenti desideri, come Egli stesso manifestò in quelle parole: DESIDERIO DESIDERAVI HOC PASQUA MANDUCARE VOBISCUM; cena in cui, raccomandati all’Eterno Padre i Suoi amati Discepoli, infuse loro un nuovo coraggio col dare loro in cibo la Sua carne ed in bevanda il Suo stesso sangue, Gesù passò il torrente Cedron e si portò con i Suoi Apostoli nell’Orto del Getsemani, per dare inizio al Suo patire.
Quivi giunto, si ritirò tutto solo in disparte e, prostratosi bocconi a terra, cominciò ad impallidire, a gemere, a supplicare. Lasciò che la Sua umanità fosse assalita così vivamente dalla chiara cognizione di quanto doveva soffrire per il genere umano, che Gli fece provare, ad un tratto, tutte le ansietà, i dolori, le paure, i gemiti e le agonie più mortali: TRISTIS EST ANIMA MEA USQUE AD MORTEM.
Ogni dolore, causato dall’apprensione dell’anima, è assai più tormentoso di qualunque altro che si possa soffrire nel corpo, perché l’anima, essendo la parte più nobile dell’uomo, è anche la più sensibile, per cui ogni pena più la ferisce e più l’addolora. Chi può immaginare quale atrocissimo spasimo avrà sofferto Gesù, nel succedersi ad uno ad uno nella Sua mente di quei barbari strazi, che avrebbe poi subito durante il corso della Sua acerba passione?
Al vedere quel fiele che Gli avrebbe amareggiato le labbra; quelle spine che, traforandoGli le tempia, L’avrebbe incoronato Re di dolori; quei chiodi spuntati che trapassandoGli a viva forza mani e piedi, Gli avrebbero contratto ogni nervo; quegli stiramenti crudeli della crocifissione per i quali Gli sarebbero state slogate tutte le ossa; quell’orribile tempesta di flagelli che, scaricata sopra il Suo dorso, Gli avrebbe stritolato le carni, come un nembo di grandine infrange l’erba e le spighe del campo, il buon Gesù talmente si afflisse e si addolorò che, non potendo più reggere all’intimo contrasto tra lo spirito e l’umanità, indebolito e sgomento, si accasciò agonizzante al suolo. Angeli del santo Amore, perché almeno Voi non porgete conforto all’Uomo-Dio che, sfinito, quasi muore di spasimo? Presto, moveteGli incontro, prendete il volo. Ma no, che dico? Fermate il corso, nascondete quel calice che portate in mano, perché non giova ad altro che ad accrescere pene al mio agonizzante Signore.
Il buon Gesù alla vista di quel calice, presentatoGli dall’Angelo, che il Padre Gli aveva mandato a confortarLo, si atterrisce, si conturba e, cadendo bocconi per terra, esclama: «Padre mio, per pietà, allontanate da me, se è possibile, questo calice». «PATER MI, SI POSSIBILE EST, TRANSEAT A ME CALIX ISTE».
Transeat? O mio Gesù, non desideraste Voi sempre la croce, per mezzo della quale volevate operare la nostra salvezza? Come mai, ora, la sola sua vista Vi sbigottisce, Vi abbatte e Vi induce a sfuggirla?
Ben lo comprendo: non è la croce, non è il calice amaro della passione che Voi aborrite, perché anzi lo sospirate; quello che Vi abbatte e Vi fa sudare vivo sangue, sono i peccati; è l’ingratitudine con cui gli uomini avrebbero corrisposto al Vostro amore.
Sì, miei cari, non fu l’apprensione degli atroci tormenti e degli strazi crudeli a cui andava incontro, quello che fece agonizzare Gesù nell’orto, ma il vedere che nonostante gli spietati martirii che stava per soffrire per la salvezza di tutti gli uomini, una grande parte di essi, con ingratitudine e malizia, abusando della grazia, si sarebbe eternamente perduta. Questo fu l’atrocissimo affanno e il crudele strazio che, martoriando il Suo spirito, Lo fece cadere in un’angoscia mortale e prorompere in quelle amare parole: «QUAE UTILITAS IN SANGUINE MEO? TRANSEAT, TRANSEAT A ME CALIX ISTE».
Certamente la vista delle Sue acerbe pene e della Sua crudele morte non l’avrebbe tanto afflitto né le spine né i chiodi sarebbero giunti a straziare così spietatamente il Suo cuore, se un più crudele martirio non Gli avesse offerto la moltitudine dei nostri peccati. Questa fu la nemica potente che, opprimendoLo con tutta la forza, tormentava così vivamente la Sua bell’anima che senz’altro sarebbe morto di dolore, se l’eterno Suo divino Amore non Lo avesse risparmiato per la croce, per compiere su questa l’umana redenzione.
Ciò posto, chi tra noi avrà ancora il coraggio di trasgredire i divini precetti e di commettere nuove colpe? Possibile che solo le nostre colpe personali, viste da Gesù Cristo in lontananza Gli abbiano recato tanta pena da piangerle con lacrime di vivo sangue, mentre noi non sappiamo dolerci di averle commesse?
Questa sola riflessione, di aver ridotto nell’Orto del Getsemani il nostro buon Dio ad agonia di morte, dovrebbe indurci al più vivo pentimento e al più amaro pianto. Ma questo non avviene perché non vi riflettiamo: voi, dunque, pensateci seriamente, o miei cari, e vedrete che non vi sarà più difficile: né il compiangere l’appassionato Gesù né il detestare e schivare quei peccati che maggiormente inasprirono i Suoi interni dolori.
Tutto bagnato di sangue, uscitoGli dalle vene per la grande interna amarezza, e già rassicurato dal Padre che la grazia che Gli domandava con grande istanza di accettare noi come Suoi figli adottivi, Gli era stata accordata, si alza dal luogo della Sua orazione, si incammina verso i discepoli, i quali dormivano tranquillamente, e svegliandoli dice: «Ecco, colui che mi tradisce già si avvicina, alzatevi e andiamo».
Non aveva ancora finito di parlare, quand’ecco Giuda, alla testa di un branco di sgherri, armati di frusta e di bastoni, si avanza e, salutando il Divino Maestro, Lo bacia in fronte, e con quel bacio traditore Lo mette nelle mani di quella soldataglia iniqua, la quale furibonda si getta addosso a Gesù, Lo afferra per i capelli, Lo stringe per le braccia, Lo urta, Lo spinge, Lo fa stramazzare a terra e, quasi fosse un assassino, con ripetuti giri di fune Gli lega le mani, Lo cinge con pesanti catene e a forza di orribili spintoni Lo fa uscire dal Getsemani, per condurLo nel tribunale e farGli sperimentare il loro odio, che non poteva essere né più crudele né più implacabile.
In verità, chi ha mai visto alcuno venire empiamente oltraggiato dagli sbirri, prima ancora di essere presentato ai giudici? Gesù appena venuto nelle loro mani, viene trascinato attraverso il torrente Cedron, quindi, dopo molte cadute procurateGli a bella posta lungo quella strada fangosa, viene condotto al pontefice Anna, alla cui presenza un vile servo Gli scarica sul volto un orribile schiaffo. Indi, fra risate, gli schiavi Lo trascinano a forza dinanzi a Caifa, dove la soldataglia Gli rinnova strapazzi ed ingiurie: chi Gli strappa i capelli; chi Gli svelle la barba; chi Gli sputa in faccia; chi Lo getta per terra e chi, finalmente vomita contro di Lui mille calunnie e mille accuse. Egli stesso un giorno se ne lagnò per bocca del Profeta: «LA BOCCA DEL PECCATORE E DELL’INGANNATORE FU APERTA SU DI ME, E DISSE MENZOGNE CONTRO DI ME».
Mio tormentato Gesù, quanto mi sorprende la Vostra pazienza, il Vostro silenzio in mezzo a simili barbari strapazzi! Io vorrei sperare che questo popolo da Voi sempre amato, vinto da una tenera compassione, pieghi la sua durezza e, riconoscendovi per suo Dio, per suo amorevole benefattore, finisca di tormentarvi.
Ma io mi inganno! La rabbia di quella vile ciurmaglia s’inasprisce ancor più contro l’Innocente e appena Lo vedono licenziato dall’empio Caifa, che già Lo aveva giudicato reo di morte ed era impaziente di vederLo giustiziato nel modo più barbaro, Lo incamminano subito verso il patibolo.
Fermiamoci un poco, cristiani carissimi, per contemplare il barbaro strazio che quei crudeli sono in procinto di fare del delicatissimo corpo di Gesù.
Appena strappato a viva forza dalle labbra di Pilato l’ordine di flagellarlo, a guisa di rabbiosi mastini, si avventano contro Gesù, Lo spogliano delle Sue vesti, Lo legano ad una bassa colonna, affinché così legato, il Suo delicatissimo corpo soffra maggior pena, e con una varietà di flagelli, Lo battono.
Mirate, mirate quei barbari carnefici armarsi di pesanti catene, di verghe spinose, di uncini di ferro e scaricare una tempesta di colpi sulle carni immacolate del Redentore; ciascun colpo impiaga e ferisce. Già scompare da quel volto divino il candore e vi subentrano le lividure; affiora per mille solchi il sangue; la pelle lacera pende a brani; le carni strappate cadono a brandelli.
Contemplate: le ossa spolpate, le vene aperte, i muscoli scorticati, la fronte inondata di sangue per ogni parte. Di sangue sono intrisi i flagelli, spruzzati i carnefici, allagata la terra; e quei perfidi continuano a battere, aggiungendo ferite a ferite, piaghe a piaghe, squarci a squarci.
O santi Profeti, voi che Lo rassomigliaste per la Sua straordinaria bellezza: al fiore del campo, al giglio delle convalli, all’acqua limpida della fonte, alle delizie stesse del Paradiso, che giudizio formulereste voi ora, se Lo vedeste ridotto tutto ad una lividura, tutto ad una piaga? Dal Suo volto è svanita ogni bellezza e non ha più sembianze di uomo, tanto è deforme e contraffatto.
Tale orribile carneficina, purtroppo Gli rinnovano continuamente i nostri peccati, non solo i gravi, dice S. Agostino, ma anche i leggeri; e non per poco tempo, noi flagelliamo Gesù con le nostre quotidiane mancanze, come gli empi manigoldi nel Pretorio, ma continuamente, da mattina a sera, perché da mattina a sera continuiamo a peccare. Come non detesteremo tanta nostra crudeltà?
Stanchi, finalmente, i carnefici cessano dal flagellare l’innocente Gesù, ma non cessano dal tormentarLo. Accortisi che il Suo santissimo capo era rimasto illeso in così grave tempesta di battiture, formano una grande corona di giunchi marini con lunghe spine, e gliela piantano sul capo adorabile con tanta forza, che alcune di quelle punte Gli trafiggono il cranio, altre più lunghe Gli trapassano le tempia ed altre si affacciano per gli occhi e per le palpebre: ogni trafittura, senza toglierGli la vita Lo sommerge in un mare di amarissimi tormenti.
Non ancora sazi di averGli causato un così tormentoso diadema, per maggiormente umiliarLo, Lo coprono con un vile straccio di porpora, Gli pongono in mano una fragile canna, Gli bendano gli occhi, come fosse un Re da burla e, affollandoGlisi intorno, alcuni Gli strappano la barba, altri Gli tirano i capelli, altri Gli sputano sul volto, altri Gli schiaffeggiano villanamente le guance.
Barbari, dove imparaste a godere per le pene di un innocente? Se dà disperazione un dolore non compatito, che sarà di un dolore beffeggiato?
Mio Dio, doveste dunque sopportare tali angustie e tali spasimi, che persino lo stesso Pilato giudicò sufficiente farVi vedere, così martoriato dalle ferite, per muovere a compassione gli stessi Vostri nemici?
Ed è lo stesso Pilato che, vedendo Gesù così contraffatto ed insanguinato, lo conduce sull’alta loggia del suo palazzo e qui, alla vista di tutti, grida forte: «Guardate, guardate, quest’uomo che voi diceste di essersi spacciato per Dio; guardate se ha ancora fattezze di uomo: ECCE HOMO. Che ve ne pare? Che dite? Che rispondete? Non vi basta ancora?» «No, – risponde quell’insolente plebaglia – non siamo soddisfatti, levaLo di qui e mettiLo a morte: TOLLE, TOLLE, CRUCIFIGE EUM». Riprende Pilato: «E che male ha fatto? Perché volete crocifiggerLo?» «CRUCIFIGATUR, CRUCIFIGATUR». «Ma, non è meglio condannare Barabba?» Risponde ancora la plebaglia: «No, no». «Ma Barabba è un omicida, Gesù è il vostro Re, il vostro sommo benefattore». «Non importa, sia salvo Barabba e sia messo a morte Gesù. CRUCIFIGATUR».
Quale perfidia e malvagità! Poiché, ormai è data la sentenza di morte, lasciamo il pretorio e incamminiamoci con Lui al Calvario, sulla cui cima sofferse una morte spietata.
Ecco Gesù che, trasportato più dall’impeto della Sua carità che dalla forza dei Suoi nemici, già è fuori dalle porte dell’ingiusta Gerusalemme; già è arrivato alla falde del monte e comincia la salita, trascinando sulle spalle piagate il pesantissimo legno della croce.
Guardatelo, anime cristiane, come geme affannosamente, come tentenna esausto dal continuo spargimento di sangue, e non potendo più reggere a tanto peso, ogni tanto cade bocconi per terra.
Possibile, mio appassionato Signore, che fra tanti seguaci non troviate un amico che stenda la sua mano pietosa per sostenervi? Eppure è così. Nessuno Lo aiuta, anzi, tutti maggiormente Lo aggravano con urti, con calci, con pugni, finché, spasimante per le piaghe riaperte e mezzo morto per il sangue versato, finalmente giunge sulla cima della montagna. Ma con quale ansia e con quale pena vi sia giunto, diteLo voi dure pietre che ne udiste i sospiri e vi inteneriste al Suo dolore. Ivi giunto, i Suoi carnefici, senza indugiare, distesa la croce a terra, strappano con furore di dosso a Gesù le vesti che, attaccatesi fortemente alle Sue piaghe, le riaprono con atrocissimo spasimo. Indi, a forza di urtoni, Lo fanno cadere supino sul duro tronco e, impugnati i lunghi chiodi, Gli inchiodano le mani e i piedi. Poiché la prima mano e il primo piede inchiodati si rattrappiscono e i nervi si contraggono, stirano a viva forza l’altro piede e l’altra mano, finché riescono a conficcarli anch’essi alla croce.
I manigoldi poi, dato tutti insieme un grido, alzano, quasi trofeo della loro bravura, quella croce su cui hanno confitto Gesù e la fanno piombare di colpo in una fossa ivi scavata. In tale momento Gesù sente un indicibile spasimo per lo sconquasso di tutto il corpo: Gli si riaprono le vene, Gli si rompono i nervi, si dilatano le arterie, si sconnettono le giunture, a tal punto che le ossa si possono contare uno ad uno: DINUMERAVERUNT OMNIA OSSA MEA. Poi si avanzano con derisione, Lo guardano fisso»nel volto, Lo chiamano con beffe: «Sciocco millantatore, vano operatore di prodigi». E con maliziosa ironia aggiungono: «Ha salvato gli altri e non può salvare se stesso».
Quegli inumani sgherri si accorgono che le labbra sono rimaste senza il loro particolare tormento, quindi Gli porgono da bere aceto misto con fiele, affinché amareggiato da così disgustosa bevanda, provi, in quegli ultimi momenti, tutto ciò che Gli può rendere ignominiosa e spietata la morte.
Mio agonizzante Gesù, quanto Vi costano cari i miei peccati, e noi: chissà se riusciamo a detestarli con una sufficiente contrizione; chissà se riusciamo a comprendere i teneri sforzi del Vostro amore e l’obbligo che Vi si deve di un’immensa riconoscenza.
Questo, miei cari, è il dolore che più di ogni altro Lo rattrista e Lo martirizza. Questo è quell’atroce e fierissimo spasimo che, riducendoLo in fin di vita, Gli rende livide le guance; Gli affila il naso, Gli serra i denti, Gli affossa gli occhi e, facendoGli mancare interamente le forze, Lo costringe a prorompere in quella gran voce, foriera dell’estremo respiro: «ITERUM CLAMANS VOCE MAGNA».
Gesù, Figlio di Dio, nel fior degli anni, sulla cima del Golgota, alla presenza di un popolo numeroso, nel giorno più solenne, nel modo più barbaro, fra gli spergiuri dei Suoi carnefici, nudo, abbandonato, deriso, dopo tre ore di penosissima agonia, alla presenza della Sua afflittissima Madre che affida alle cure di S. Giovanni, EMISIT SPIRITUM.
Col disordine degli elementi, con l’orrore dei cieli, con l’oscuramento del sole, con la natura tutta in scompiglio, il nostro pietosissimo Dio, l’amantissimo nostro Padre, il nostro divin Salvatore, lentamente, chinando il capo trafitto: muore. Gesù è morto per noi; dinanzi ad una carità così grande e così tenera, noi non ci commuoveremo? Se la storia dei barbari dolori da Lui sofferti per nostro amore non vi commuove, che dovrò fare di più per ottenere la risoluzione del vostro cuore di non più rinnovarglieli con nuovi peccati?
Il Re di Moab, vedendo passato a fil di spada tutto il suo esercito, devastato il paese, inutile ogni difesa, per impietosire i vittoriosi nemici a non più incrudelire contro di lui, uccise di propria mano il suo figlio unigenito che doveva regnare dopo di lui e, posto sulla cima di una grande asta l’insanguinato corpo, lo mostra alle schiere nemiche.
Questo stratagemma ebbe tanta forza sul cuore dei nemici e suscitò in essi così tenera compassione, che levarono subito l’assedio e partirono. Date anche a me, soldati, il mio Bene, affinché, inalberandoLo io pure alla presenza di questo popolo, ciascuno veda nelle Sue spoglie esangui, quale fu il bersaglio che colpirono i loro peccati. EccoLo, contemplateLo, vi dirò piangendo con S. Beda: « Contemplare Dominum et Salvatorem Tuum».
Osservatelo bene. Vedete questo capo? Esso fu trafitto dai nostri cattivi pensieri di superbia, di ambizione, di desideri malvagi. Mirate queste mani! Furono trapassate non da chiodi, ma da furti e rapine.
Osservate questi piedi: essi furono trapassati dall’andare spesso presso quella persona e in quel luogo, ove si finisce col fare peccato.
Guardate questo petto squarciato! Non fu trapassato da altra lancia, che dall’avversione e dall’antipatia che nutriamo verso il nostro prossimo.
Vedete tutte queste membra lacere e infrante? Esse furono colpite non dai flagelli, ma da quei peccati che si commettono senza scrupolo per compiacere il nostro corpo. Vorremmo noi rinnovare a Gesù con tali colpe gli stessi antichi patimenti?
No, mio caro Gesù, non soffrirete più un tale dolore da alcuno di noi, anzi tutti ci sentiamo l’anima profondamente commossa: per le Vostre acerbissime pene e dal dolore dei nostri peccati che ne furono la causa.
Tutti siamo risoluti di non offendervi a qualunque costo. Voi, o buon Gesù, perdonate i nostri peccati, dei quali ci pentiamo di cuore e umilmente Vi domandiamo perdono; accettate la promessa che tutti insieme formuliamo di non peccare mai più per l’avvenire, anzi incoraggiate il nostro cuore ad amarVi da qui innanzi con maggior tenerezza e costanza, e fate che tutti, per Vostra pietà, possiamo essere eternamente salvi nel Cielo.
In segno che non sdegnate questa nostra preghiera, lasciate che io ricerchi nell’umile ossequiente bacio delle piaghe dei Vostri piedi, la Vostra benedizione, e che a nome Vostro la comunichi a questo popolo che mostra tanto impegno di bontà e santità. Amen.