Suore dell'Immacolata

Ostinazione peccati

 

La distruzione di Gerusalemme

Dal brano del Vangelo di S. Luca: 19, 41-44

  1. «…Et ut appropinquavit, videns civitatem
  2. flevit super illam dicens: – Si cognovisses et
  3. tu in hoc die, quae ad pacem tibi!… Quia venient dies in te, et circumdabunt te inimici
  4. tui vallo et obsidebunt te… et ad terram prosternent te etfilios tuos… et non relinquent in te lapidem super lapidem…».

OSTINAZIONE NEI PROPRI PECCATI

(Riflessione dettata ai cristiani in genere)

«Infelice Gerusalemme! – Così diceva piangendo Gesù Cristo alla vista di quella ingrata città, come si narra in S. Luca – Gerusalemme infelice! Beata te se conoscessi in quel giorno l’amorevole visita che ti fa Colui che è mandato per la tua salvezza! Ma tu hai sugli occhi e nel cuore un velo di cecità e di perfidia che non ti lascia vedere il tuo stato, né lo stato peggiore a cui tra poco sarai ridotta quando i tuoi nemici ti stringeranno di forte assedio e ti ridurranno all’ultimo sterminio, fino a non lasciare di te pietra su pietra».

Questo predisse il divin Redentore all’infelice Gerusalemme: terribili cose! Le disse chiaramente, come udiste, che se essa non si fosse ravveduta prontamente, se non avesse approfittato del tempo di misericordia che ancora le era concesso, se avesse persistito nel vivere ostinatamente male, sarebbe stata, in breve, manomessa dai suoi nemici e da questi distrutta fin dalle fondamenta.

Ma chi non vede, in questa miserabile ed ingrata città, raffigurato al vivo lo stato compassionevole di un’anima in peccato mortale e molto più di un’anima che, in mezzo alle trasgressioni e agli stravizi, non pensa minimamente di ritornare a Dio con la penitenza?

Sì, miei cari: Gesù, che piange nel fissare gli occhi sopra Gerusalemme non per le temporali disgrazie che vede incombere su di essa, ma per l’insensibilità e l’accecamento mostrate nel non voler approfittare della visita che le fa il Signore per il suo ravvedimento, ci ammaestra e ci insegna, col proprio esempio, che il peccato solamente è l’oggetto degno e meritevole di grandi lacrime, quantunque da molti lo si pianga così poco. Ecco l’argomento che io propongo oggi alla vostra considerazione, se voi mi presterete attenzione.

Tre volte, come si legge nella divina Scrittura, Gesù pianse nel corso della sua vita mortale: quando gli fu annunziata la morte di Lazzaro seppellito già da quattro giorni e perciò già corrotto e maleodorante; quando, avvicinandosi a Gerusalemme, vide quella sciagurata città baldanzosa in mezzo ai suoi stravizi e, finalmente, quando, sulla croce, offrendosi vittima al Padre in espiazione di tutti i peccati del mondo, emise un grande grido interrotto da sospiri e accompagnato da lacrime. In tutte queste tre volte, Egli non pianse se non il maledetto peccato. In Lazzaro già corrotto, infatti, veniva raffigurata la sorte di un’anima invecchiata nel vizio e difficile ad emendarsi della propria cattiveria senza un miracolo della grazia divina, perché le sue lunghe abitudini al male la tenevano come legata e sepolta nella colpa.

In Gerusalemme ingrata viene raffigurata l’anima peccatrice che non si cura di uscire dalla colpa nonostante i lumi e le grazie che Dio le accorda per il suo ravvedimento, che anzi, tutto disprezza come quella miseranda città, a tutto resiste con perfidia, di niente si ravvede e mira soltanto a soddisfare la malnata sua voglia di compiere il male, come Gerusalemme che volle la morte di nostro Signore Gesù Cristo, configgendolo alla croce con sempre nuovi peccati.

La croce, poi, era il luogo ove Gesù sentiva tutto l’enorme peso e l’eccessiva gravita del peccato che Egli stesso soddisfece con tante pene.

Se Gesù Cristo, Sapienza eterna e infinita, ogni volta che pianse su questa terra ha pianto sempre per il maledetto peccato, potremo noi, per un motivo vilissimo resi colpevoli tante volte, starcene così impassibili da non versare una lacrima? Dice S. Bernardo che infiniti sono gli oggetti capaci di trarci lacrime dagli occhi, ma una cosa sola può rendere santo e religioso il nostro pianto, cioè quando noi piangiamo i nostri peccati e quelli degli altri. In tutte le altre occasioni le lacrime non sono che profane o inutili. Piangere la perdita dei beni terreni, la privazione dei mondani piaceri, l’abbandono di una parziale amicizia, non sono che lacrime profane. Piangere la morte di qualcuno dei nostri Cari, gli incomodi della povertà, le conseguenze dolorose di una lunga malattia o di qualche sciagura, non sono che lacrime infruttuose od inutili. Soltanto il piangere la morte spirituale dell’anima, l’allontanamento da Dio causato dal peccato, la perdita della divina amicizia e della celeste protezione sono lacrime religiose sante e necessarie.

Così l’intendevano tutti i santi, sia dell’antico, sia del nuovo Testamento. Il Profeta Amos, considerando l’orribile moltitudine dei peccati che si commettevano dagli Israeliti, piangeva dinanzi a Dio giorno e notte, affinché lo sdegno divino non cadesse sopra di loro. Lo attestò egli stesso agli Israeliti: levo il pianto su di voi. E il Signore volle che il pianto fosse universale: nelle piazze e nelle campagne, infatti, si piansero i disordini commessi.

La misura delle lacrime che si devono versare sopra di un’anima in peccato mortale si deve prendere – dice il Profeta Gioele – da una giovane sposa a cui la morte abbia rapito all’improvviso lo sposo amatissimo. Che dolore per costei, che gemiti, che sospiri! Ella è così desolata ed afflitta, che nulla riesce a consolarla. Questa – dice il Profeta – è la situazione di ogni peccatore. Anch’egli ha perduto il suo Dio, Bene infinito, e l’ha perduto per propria colpa! Anch’egli, dunque, deve piangere il suo peccato e piangerlo amaramente ben di cuore.

Se la vita durasse anche migliaia di anni, non dovrebbe cessare mai di piangere, come fecero S. Pietro, S. Maria Maddalena e tanti altri, i quali non cessarono di piangere, finché vissero, anche i minimi falli. Leggiamo di S. Luigi Gonzaga che in religione piangeva continuamente a calde lacrime due piccole mancanze commesse nel mondo all’età di quattro o cinque anni; mancanze, come voi sapete, che non arrivavano a peccato e veniale. Di queste non poteva mai ricordarsi senza raddoppiare le lacrime, perché temeva di essere di quelli che Dio giustamente abbandona per i loro peccati dei quali concepiva un dolore così intenso che spesso sveniva ai piedi del confessore quando se ne accusava nel sacramento della Penitenza.

Di S. Francesco d’Assisi si legge che un suo confratello, trovandolo un giorno inginocchiato davanti ad un Crocifisso mentre piangeva dirottamente, interrogato da lui perché piangeva; «Piango – rispose con gli occhi inondati di lacrime – piango per le tante offese che si fanno dagli uomini ingrati a questo Dio crocifisso e morto per la loro salvezza».

San Bernardo, per tacere degli altri, andava spesso ripetendo fra sé: «Con quale coraggio io posso alzare gli occhi a guardare quel Dio così buono che ho tanto offeso? Versino pure questi miei occhi continue lacrime, la confusione mi copra pure il volto e in tutta la mia vita io non faccia altro che piangere, e ben a ragione, il male da me commesso!».

Dove sono, miei cari, di fronte a tante lacrime che versavano i Santi, dove sono coloro che, sebbene rei di mille colpe, non sanno pentirsi né spargere una lacrima per i gravi falli di cui sono colpevoli? Dove sono coloro che hanno appena confessati i loro peccati che già li dimenticano, né più si prendono di essi alcun pensiero? Dove siamo noi, miei cari, che ci mostriamo per il peccato, non dico altrui, ma nostro, così insensibili che proviamo difficoltà a destare nel nostro cuore quel vero dolore che è necessario per una buona confessione? Sapete voi il motivo di questa nostra durezza e riprovevole insensibilità? Ogni colpa ci sembra piccola e perciò poco ci si amareggia. Non si considera che, con il peccato, si offende un Dio che, per eccesso di amore, ci ha creato dal nulla a sua immagine e somiglianza e che ci ha redenti dalla schiavitù dell’inferno con il prezzo del proprio sangue, versato per noi fino all’ultima goccia in mezzo ai più spietati tormenti; un Dio che lasciò tutto se stesso nel Sacramento dell’Eucaristia per cibo e bevanda delle anime nostre; un Dio, infine, che ci conserva e ci lascia nel mondo unicamente perché lo amiamo.

Non si considera un Paradiso che si perde, un fuoco che si merita o nell’inferno se la colpa è grave, o nel Purgatorio se è leggera. Noi siamo soliti fare, per i nostri peccati, quello che si fa con i cibi disgustosi. Si evita di masticarli, per non sentirne l’amarezza. Impariamo una buona volta a riflettere con attenta considerazione il gran numero dei nostri peccati, la deformità dell’ingiuria che, con questi, facciamo a Dio, Bene infinito, il torto che abbiamo nel prendercela con un Padre così amoroso, che ci ama come suoi propri figli e che ci ha arricchito con tante grazie; vedrete, allora, che non ci sarà più difficile provare amarezza, dolore.

Anzi, se noi, così favoriti dal Signore con tanta abbondanza di amore, considereremo il grande male che abbiamo fatto col consentire al peccato, anche solo veniale, non ci sarà certamente difficile ravvivare in noi la contrizione in un grado intenso e conservarla viva nel cuore per tutto il tempo della nostra vita. Con questa comunione continua noi verremo ad assicurarci sempre meglio il perdono delle nostre colpe presso Dio, il quale perdona veramente ai contriti di cuore, ci rafforzeremo sempre più nei buoni propositi di non più cadere in peccato e ci meriteremo un’assistenza più amorevole da parte della grazia divina, poiché il Signore ha detto di guardare con occhi di misericordia particolarmente il povero, l’umile e il contrito di cuore.

Al contrario, se non ci renderemo familiare un dolore così salutare, se non piangeremo che per poco tempo su questa terra le mancanze commesse, se, accecati dal nostro amor proprio e dalle malvage passioni, persistendo nel resistere alle divine chiamate e agli inviti amorosi della grazia non penseremo a correggere in tempo i nostri difetti, avremo a temere che abbia a verificarsi anche sopra di noi la terribile minaccia che Gesù Cristo rivolgeva, con le lacrime agli occhi, alla ostinata Gerusalemme. Voi sapete come quell’infelice città non tardò a sperimentare la realizzazione fatale della divina predizione ed a pagare il fio della sua ostinata resistenza ai divini favori e all’amorevole visita che, per il suo bene, le fece per l’ultima volta il divino Maestro.

Non molti anni dopo la morte del Salvatore i Romani, capitanati da Tito, figlio dell’imperatore Vespasiano, la strinsero di lungo assedio per saccheggiarla e numerosissimi furono gli Ebrei che morirono in orribili combattimenti, senza contare l’infinità di coloro che morirono di fame e di miseria e tanti altri che si uccisero da se stessi gettandosi, chi nei precipizi del monte e chi nel profondo delle acque, preferendo darsi la morte con le proprie mani, anziché cadere nelle mani dei loro nemici. Quelli che sopravvissero alla fierissima strage e che avevano diciassette anni di età, furono condotti in Egitto, legati con catene al collo e ai piedi, gli altri, di minore età, vennero venduti come schiavi in diverse parti del mondo. Il tempio stesso fu distrutto dalle fondamenta e la città fu talmente rasa al suolo che non rimase di essa pietra sopra pietra, come aveva predetto il divino Maestro.

Alla considerazione di così terribile castigo dato da Dio ad un’antica e famosa città qual’era Gerusalemme per non aver questa voluto approfittare in tempo della divina misericordia, non dovrà temere l’anima invecchiata nel vizio, raffigurata dai Santi Padri nell’ingrata Gerusalemme, se prontamente non si ravvede a penitenza? Certo, se non approfitta e non corrisponde agli inviti della grazia emendando i propri difetti, succederà immancabilmente ad essa come alla sciagurata città di Gerusalemme: nel punto della morte anch’essa sarà circondata da strettissimo assedio di demoni, i quali occuperanno ogni strada per impedire l’entrata in essa del benché minimo conforto spirituale, di esortazioni, di avvisi, o di minacce, per cui ella verrà assalita da ogni lato da orribili angustie.

Alle ingiustizie del male, gli spiriti infernali aggiungeranno anche quella della memoria di tanti peccati commessi, dei quali l’anima infedele non volle fare a suo tempo penitenza, quella dell’abbandono di Dio e di tante cose amate, quella dell’incontro terribile con la morte e col giudizio, mentre si avvererà anche per lei il monito: «Ti stringeranno da ogni parte», vedendo ovunque oggetti di terrore e di spavento, cosicché la misera, gettata nell’ultima costernazione, rimarrà spiritualmente desolata e finirà malamente i suoi giorni, per non aver voluto, a somiglianza dell’infelice, ingrata ed ostinata Gerusalemme, approfittare in tempo delle tante grazie e delle tante amorevoli visite ricevute dal Signore per la di Lui misericordia.

Amen.