Suore dell'Immacolata

Opere corporali

 

LE OPERE DI MISERICORDIA CORPORALI

Racconta Tommaso da Kempis che, partecipando una persona al sacrificio della S. Messa, non vedeva l’Ostia in mano al sacerdote. Dopo due anni interi di così strano fenomeno, entrata in grande angustie di spirito, se ne andò ai piedi di un dotto e santo sacerdote e gli palesò il prodigioso avvenimento. Il confessore l’interrogò diligentemente e trovò che portava odio ad un suo prossimo e che in tutto quel lungo tempo, non gli aveva mai voluto perdonare. Perciò: « Figliola – le disse – vedo che voi nutrite ostinato rancore verso il vostro prossimo, e questa è la ragione per cui l’Ostia sacra si nasconde ai vostri occhi, perché, essendo voi priva di virtù, Gesù Cristo vuole con questo prodigio farvi capire che non beneficiate del santo sacrificio, benché vi troviate ad esso presente ». La persona, compunta, perdonò subito di cuore e promise di dimenticare i torti ricevuti. Il confessore, vedendola ben disposta, le diede l’assoluzione ed ella si partì dal tribunale della penitenza confortata, e portatasi a partecipare di nuovo al divin sacrificio, vide l’Ostia in mano del sacerdote, come gli altri.

Se i confessori di oggigiorno si mettessero ad interrogare i penitenti, credete voi, sorelle mie, che non troverebbero alcuno di questi casi? Certamente trove rebbero anime che, quantunque partecipino alla S. Messa, pratichino esercizi di pietà e di devozione, sono poi privi di amore verso il prossimo e piene d’invidia, di rancore, di astio e di malignità verso l’uno o verso l’altro; o per lo meno troverebbero delle anime che limitano la carità a semplici espressioni o a belle parole. Di simili anime certo non ve n’è alcuna tra voi, sorelle mie, ma con tutto ciò, io voglio tornare ancora a ripetere l’insegnamento di S. Giovanni: dobbiamo amare il prossimo non a parole, ma in opere e verità.

Dopo, dunque, aver osservato che tutti gli uomini, conosciuti o stranieri, amici o nemici, cristiani o infedeli, vengono denominati « nostro prossimo », e che verso tutti si deve estendere la nostra carità e il nostro amore; dopo aver visto che questo amore deve essere regolato non dall’interesse o dalla carne, non dal sangue o da qualche altra bassa passione, ma dalla ragione e in ordine a Dio, e che dobbiamo amare il prossimo come noi stessi, vi parlerò oggi dell’elemosina, che è quell’azione con cui si adempiono tutte le opere di carità che dobbiamo al prossimo, riguardo al corpo. No, non vi sembri strano ch’io venga a parlare di elemosina a voi che vivete nella povertà evangelica, perché anche il povero è obbligato a far elemosina, potendo anch’esso aver, talvolta, delle cose superflue al suo stato e, se voi mi udirete attentamente, vedrete che non sarà fuor di proposito il parlar anche a voi dell’elemosina.

Da nessuna cosa si può meglio dedurre quanto sia gradita a Dio l’elemosina, che dal precetto che Egli stesso ce ne ha fatto, dalla frequenza con cui ce l’ha rinnovato, dalla premura con cui ce l’ha inculcato: « Ti ordino di aprire la tua mano al tuo fratello bisognoso e povero – dice Dio nel Deuteronomio -; esercita – aggiunge in Tobia – la misericordia coi poveri, secondo la tua possibilità. Se sei ricco, dà con abbondanza; se povero, distribuisci volentieri quel poco che puoi ».

Ripete in Isaia, esprimendo in particolare gli atti dell’elemosina a cui ci volle obbligare: « Sfama col tuo pane i famelici; accogli in casa tua i pellegrini e quando vedrai una persona nuda, coprila con le tue vesti; né disprezzare i poveri, simili a te per natura, quantunque dissimili per condizione ». Lo stesso comando ripete Gesù Cristo nel S. Vangelo. « Date in elemosina, dice in S. Luca: date et dabitur vobis ». « Vende quod habes et da pauperibus », ripiglia in S. Matteo. In una parola, dice S. Cipriano, non c’è cosa tra i divini precetti che ci venga più frequentemente inculcata, come l’elemosina. Ora io dico: « Se un re della terra, in tutti i suoi decreti tornasse a chiedere sempre la stessa cosa: questa intimasse al principio del suo governo, questa durante il suo regno, questa ripetesse fino all’estremo della sua vita, qual suddito sarebbe così poco deferente verso il suo principe, che non avesse a cuore l’esecuzione di un’opera tanto insistentemente da lui voluta? Chi sarà fra i cristiani che non faccia gran conto dell’elemosina, che non le si affezioni, che non l’ami e non procuri di praticarla con qualche suo disagio, sapendo che tante volte gli è stata comandata, in tanti modi inculcata dal suo Signore, dal suo Dio? ». .

Ma non è solamente il precetto che Dio ci ha fatto dell’elemosina, né la frequenza con cui ce l’ha rinnovato, né la premura con cui ce l’ha inculcato, che ci mostra quanto sia gradita al Signore questa grande opera di carità. Vi sono ben altre prove di questa verità: sono i prodigi e i miracoli, che operò spesse volte Dio a favore delle persone amanti dell’elemosina. Valga per tutti questo solo che racconta un testimonio. Nella città di Brabanza vi era una pia dama, tanto caritatevole e benefica verso i poveri che in tempo di grande carestia, in cui la povera gente era costretta a morir di fame, aprì il suo granaio e distribuiva il frumento a quanti venivano a picchiare all’uscio della sua casa. Non passò molto tempo che il granaio rimase vuoto. La pia signora spinta dall’ardore della sua carità, non potendo più reggere alla vista di tante miserie, comandò alla serva che tornasse a vedere se, per caso, vi fosse rimasto ancora un po’ di grano, quantunque sapesse che non ne era rimasto niente. Andò la serva, aprì il granaio e trovò che era colmo di grano scelto. Gridò al miracolo e, accorrendo a quelle grida, la donna, il marito e il figlio constatarono tutti il prodigio, e diedero lode a Dio. Allora la signora ricominciò a distribuire il grano con abbondanza, continuando il Signore a favorire l’animo caritatevole di lei, e in pochi mesi fu distribuito tanto grano che cinque o più granai non avrebbero potuto contenerlo. In premio poi delle elemosine, ogni giorno ed ogni notte, mentre in chiesa si cantavano le ore canoniche, Dio mandava a questa signora un angelo sotto le sembianze di un uccelletto che, con un canto di paradiso, la riempiva di dolcezza. Questo miracolo non è prova evidente che Iddio gradisce sommamente il soccorso dato con l’elemosina?

Ma un attestato ancor più solenne sarà quello che Egli darà nel giorno del giudizio universale, nella gran Valle di Giosafat, alla presenza di tutto il mondo. Allora, chiamando al Regno eterno tutti gli eletti, darà loro un’immensa felicità, in premio delle elemosine date per suo amore. « Io ero affamato – dirà loro – e voi mi avete somministrato il cibo; avevo sete e mi avete dato da bere; ero pellegrino e mi alloggiaste; ero nudo e mi avete vestito ». E viceversa condannando i reprobi alle pene eterne, dirà loro: « Soffrivo la fame e non mi sfamaste; soffrivo la sete e non mi abbeveraste; ero nudo e non mi copriste ». E notate che non dice Gesù Cristo: « Il povero era affamato, era assetato, era nudo ». No, dice: « Io ero affamato, assetato, nudo », affinché s’intenda che l’elemosina, fatta al povero, la riceve in suo conto, come se fosse fatta personalmente a lui stesso. Sulla carità evangelica riflette opportunamente S. Giovanni Crisostomo e dice: « Se venisse Cristo in persona a chiedervi l’elemosina; se voi lo vedeste supplichevole ai piedi implorare qualche aiuto alle sue necessità, avreste voi cuore di negarglielo? Avreste animo di respingerlo da voi? Certo no, che anzi vi spogliereste volentieri di quanto avete, per dargli un abbondante soccorso. Perché, dunque, non fate ora quel che fareste a Gesù stesso poverello? Perché ora gli negate l’aiuto d’un vile denaro, di un po’ di cibo, d’una fatica, di un servizio? Forse, non è lo stesso dare a Cristo in persona propria, o dare a Cristo in persona dei suoi poveri? E non sentite le parole con cui Cristo ci assicura che tutto ciò che facciamo all’infimo degli uomini per suo amore, lo facciamo a Lui stesso? Le storie ecclesiasti-che sono piene di mirabili esempi con cui Gesù Cristo va mostrando ciò che nel giorno del giudizio manifesterà a tutto il mondo.

Fra tanti ne scelgo uno solo, sentitelo attentamente. Il Conte Teobaldo, uomo liberale specialmente verso i poveri, viaggiando nel crudo inverno, s’imbatté lungo la strada in un povero affamato e nudo. Mosso a pietà di quel meschino, intirizzito dal freddo, gli si avvicina e gli dice: « Che brami, figliolo? ». « Voglio – risponde quello – il tuo mantello per coprire la mia nudità ». Il conte si toglie senza indugio il mantello e glielo porge, poi soggiunge: « Vuoi altro? ». « Voglio, risponde il mendico, che tu mi dia il tuo giubbone ». Il conte se ne spoglia immantinente e glielo porge. Poi torna a interrogarlo se bramasse altro. « Bramerei, dice il mendico, la tua camiciola ». Il conte, nella sua grande carità, si toglie anche questa e rimane con la camicia. Nell’atto di porgerla, domanda al mendico: « Sei contento? ». E quello: « Vorrei ancora il tuo cappello ». Il conte rimase perplesso e per non esporre nudo il capo al vento: « Non posso – gli disse – sono calvo ». Dette queste parole, il povero, che era Gesù Cristo sotto quelle apparenze, sparì dai suoi occhi, lasciando per terra il mantello e le altre cose. Attonito il conte a tal vista, e pentito di non aver dato il cappello al Redentore, proruppe in devotissimo pianto, e mai più in tempo di sua vita, richiesto dai poveri, negò loro qualche cosa. Sebbene Gesù non compaia a noi sotto l’aspetto di un povero, sempre però è nella loro persona e, se non chiede Gesù stesso con la sua lingua, Egli chiede però con la bocca dei poveri. Ora, io rifletto: se Gesù non fu contento di colui che gli aveva dato tutti i suoi vestiti, potremmo dire che sia contento di quei cristiani che gli danno un pane, un denaro, una veste sdruscita, mentre potrebbero dare molto di più? Questo è prova del disamore portato a Lui nella persona dei poveri.

Ma l’elemosina non solo è sommamente gradita a Dio, ma è anche di sommo vantaggio a chi la pratica. L’elemosina, diceva l’arcangelo Raffaele a Tobia, libera dalla morte (s’intende, quella spirituale dell’anima) e dai peccati e fa trovare misericordia; in effetti la tua elemosina verso il povero – soggiunge lo Spirito Santo nell’Ecclesiastico – pregherà per te, affinché tu sia libero da tutti i mali. « Fate elemosina – riprende Gesù Cristo in S. Luca – e resterete mondi da ogni macchia ». Si possono dire cose più magnifi-che, più grandi per spiegare i vantaggi che porta l’elemosina a chi la pratica? Dicono i santi padri che uno che fa l’elemosina è un altro dio. Siccome non v’è cosa che sia propria di Dio quanto la misericordia, secondo il detto di Davide: miserationes eius super om-nia opera eius, così la persona che è generosa con i poveri, soccorrendoli nei loro bisogni, partecipa di quella dote di cui tanto Dio si pregia e, se non diviene un altro dio per essenza, lo diviene per partecipazione di perfezione. Così San Gregorio Nisseno, così il Nazianzeno, così S. Clemente Alessandrino e mille altri. Che meraviglia dunque se Santa Paola, dama romana, da ricchissima che era, divenne per l’elemosina, così povera, che in morte non lasciò neppure un soldo alla sua figliola diletta, con cui sostentare la vita? Se San Carlo Borromeo fu così largo con i poveri che non si riservò neppure un lettuccio su cui adagiarsi di notte ed era costretto a dormire su una nuda tavola? Se S. Giovanni elemosiniere, vescovo, sebbene ricco di rendite ecclesiastiche, si ridusse, per amore dei poveri, a tal miseria che non aveva una coperta con cui difendersi durante la notte dai rigori del freddo invernale? Se S. Tommaso da Villanova, in morte, non ebbe letto su cui posare le membra languenti e, per non morire sulla nuda terra, fu costretto a richiederlo al poveretto a cui l’aveva donato per carità? Queste anime sì che sapevano quanto piace a Dio e quanto ci renda simili a Lui la misericordia, che per mezzo dell’elemosina, si esercita coi poveri e perciò, bramose di dargli gusto, distribuivano a piene mani argento, oro, vesti e utensili e quanto avevano di più prezioso.

E qui notate che i santi padri per questo nome « elemosina » intendono qualunque atto di carità che si esercita verso il nostro prossimo: l’elemosina non si deve ridurre solo a vestire gl’ignudi, saziare i famelici, ma è elemosina anche a servire gl’infermi, aiutare nelle loro fatiche coloro che sono oberati dal lavoro, prendere cura dei bambini e via discorrendo; tutte cose che possono essere altrettanti atti di carità, quando si facciano per amor di Dio, mentre Dio tutti li riceve come fatti a Se stesso. S. Gregorio riferisce di un certo monaco che, imbattutosi con un lebbroso giacente in terra, il quale diceva che, per l’estrema debolezza, non poteva più tornare a casa, (il monaco) lo ravvolse nella propria tonaca, se lo prese sulle spalle e lo portò al Monastero. Ma appena giunto, il lebbroso fece balenare dal suo volto un raggio di gloria e, sparendo, disse al monaco: « Tu non ti sei vergognato di me e mi desti ricovero in terra, io non mi vergognerò di te e ti accoglierò in cielo ». Così dello stesso S. Gregorio si legge che, essendo solito tenere ogni giorno dodici pellegrini alla sua mensa, qualche volta ricevette Gesù Cristo in sembianza di pellegrino. Così Iddio, per mezzo dell’angelo, lodò Tobia per la cura sollecita che aveva di seppellire i morti.

Adunque, o mie sorelle, se noi bramiamo di dar gusto a Dio, un gusto specialissimo, e conseguire la perfetta carità fraterna, procuriamo di soccorrere anche noi il nostro prossimo in quelle cose che possiamo e di cui lo vediamo bisognoso. S. Giovanni dice: « Se tu vedrai in necessità tuo fratello, se lo vedrai bisognoso di aiuto e, indurendo il tuo cuore, non vorrai scomodarti per lui, come si potrà dire che risieda in te la carità di Gesù Cristo?

Per salvarci abbiamo bisogno della misericordia di Dio, e misericordia tanto più abbondante quanto sono più numerosi i nostri peccati; ora questa misericordia da parte di Dio, non l’avranno certamente coloro che non hanno usato, potendo, misericordia al loro prossimo bisognoso. E Dio, per bocca dell’apostolo San Giacomo, asserisce che farà un giudizio senza alcuna misericordia, a colui che non avrà avuto compassione del suo fratello indigente. Perciò S. Agostino dice: « Se tu vuoi ottenere misericordia da Dio per le colpe da te commesse, sii misericordioso con il tuo prossimo, perché Dio giudica te con quella stessa misura, con cui tu giudichi i tuoi fratelli ».

Trattiamo, dunque, il nostro prossimo con cuore misericordioso e troveremo anche noi pietà e misericordia, quando ci presenteremo al tribunale di Dio.

Amen.