Suore dell'Immacolata

Mortificazione

 

MORTIFICAZIONE DEI SENSI

La vita di Gesù Cristo è modello per ogni cristiano, ma principalmente lo è per noi, persone religiose. Ora, vedendo che Gesù Cristo volle nascere su questa terra in mezzo alle privazioni e ai disagi; che continuò a vivere in questo mondo sempre sostenuto dal pane della mortificazione e del dolore; che non terminò di vivere senza che ogni membro del suo corpo avesse patito e sofferto il proprio tormento, non dovremmo noi imparare dal suo esempio a mortificare i nostri sensi? Sì, mie figlie, la mortificazione corporale è la virtù che Gesù Cristo ci insegnò fin dalla grotta di Betlemme, dove noi lo vediamo tormentato in tutto il suo corpicino dalle punture di quella paglia ruvida su cui giace, dal freddo che lo intirizzisce e dallo squallore di quel luogo. Cresciuto poi in età, Egli condusse sempre una vita disagiata e nel corso della sua predicazione più volte richiamò i suoi seguaci alla pratica della necessaria virtù, ora col dire che chi vuole seguirlo, conviene che accosti anche lui le labbra al calice amaro della passione; ora con l’invitare chi vuol essere suo discepolo a caricarsi della propria croce; ora col dire che chi vuole salvarsi deve essere nemico anche della stessa sua vita; ora col ripetere insistentemente che se non faremo penitenza, periremo tutti quanti: « Se non farete penitenza, perirete tutti ». Questi divini insegnamenti, queste prescrizioni che noi leggiamo nel Vangelo, non sono insegnamenti e prescrizioni che ci abbia fatto solamente il nostro amorevole Salvatore, ma ce li fece per suo mezzo, lo stesso divin Padre perché Gesù Cristo ripete spesso che non sua, ma del Padre celeste, è la sua dottrina. Stando così le cose, chi non vede che la mortificazione dei sensi, che un santo cristiano rigore deve star molto a cuore ad ogni anima religiosa? E con ragione, perché la mortificazione è la salvaguardia di ogni virtù: essa eleva lo spirito a Dio, lo fa degno di Lui e ci colma di meriti per la vita eterna. Tanti peccatori infatti, dopo essersi convertiti, ci lasciarono dolce memoria e segnalato esempio di questo salutare e cristiano rigore.

Poiché per conseguire l’eterna salute si richiede sempre qualche penitenza esteriore, mi accingo ad esortarvi tutte alla dovuta mortificazione dei vostri sensi, non perché voi la intraprendiate, perché penso che ormai la pratichiate da lungo tempo, ma perché ad essa vi affezioniate sempre più e in essa perseveriate costantemente. Per ottenere ciò, vi mostrerò, con tutta la possibile chiarezza, che chi, potendo, non mortifica i suoi sensi, difficilmente si salva. Già tutti sanno che il regno dei cieli non è solamente un’eredità, ma un premio, e sapete di che? Veniamo al confronto col primo dei predestinati, che è Gesù Cristo. A qual prezzo, credete voi, che l’eterno Padre abbia dato al suo figlio naturale la gloria del cielo, che pur era già sua? Già lo accennai fin da principio: gliela diede al solo prezzo di patimenti volontari. Ora, quantunque il divin Salvatore, con gli infiniti suoi meriti, abbia ricomprata quella gloria celeste dalle mani della divina giustizia e l’abbia lasciata a noi, come preziosa eredità, tuttavia, non volle però disporne a nostro vantaggio se non alla stessa condizione che aveva disposto per Lui l’eterno divin Padre. Perciò l’apostolo Paolo disse francamente che i predestinati e i coeredi di Gesù Cristo non solo tengano a freno le loro passioni e i loro vizi, ma mortificano anche i loro sensi: « Coloro che sono di Cristo, hanno crocifisso la loro carne con i suoi vizi e la sua concupiscenza ».

Posto ciò, chi è che oserà allontanarsi da un santo e cristiano rigore? Ricordate quello che fece Giosuè per difendere la città di Gabon, sua confederata? Appena quel buon capitano si accorse che cinque re orgogliosi, unitisi insieme, desideravano di stringere fortemente d’assedio quell’ottima città, combatté con tale valore che sconfisse e sbaragliò gli eserciti, prese prigionieri gli stessi cinque re, e ordinò sì aspra, ma insieme sì giusta vendetta che, fece uccidere anche i cinque re e li fece sospendere su cinque tronchi fino al tramonto del sole. Questo stesso, dice Origene, è lo spettacolo che Dio vuole gli si offra da ciascuno di noi, fino al tramonto della nostra vita mortale, sé vogliamo avere libero l’ingresso alla celeste Gerusalemme. I cinque capi che dobbiamo domare sono i cinque sensi, i quali spesso vogliono farla da re e comandare da padroni, quantunque siano nati soggetti all’anima e debbano servirla. Essi devono essere sottomessi alla ragione, ma essendo arditi, devono essere confitti ciascuno sulla sua croce: sulla modestia deve essere crocefisso lo sguardo; sull’astinenza il gusto; sul disagio il tatto; sulla temperanza e sulla cautela gli altri due sensi dell’odorato e dell’udito, benché questi sembrino meno nocivi degli altri. « Ma noi siamo innocenti – voi mi direte – e i nostri sensi non hanno macchie da purificare, né colpa alcuna da scontare ». Io sono ben persuaso di ciò, e me ne congratulo grandemente con voi. Ma per questo vi credete forse dispensate dall’usare con i sensi un cristiano rigore? Erano forse colpevoli i sensi dell’innocentissimo figlio di Dio? Eppure a nostro esempio, tutti i suoi sensi, durante la passione, ebbero il rispettivo loro tormento: qui sunt Christi, carnem suam crucifixerunt. E’ certo fuori dubbio, che se noi vogliamo godere con Gesù Cristo la sua eterna ricompensa, dobbiamo in qualche maniera uniformare i nostri sensi ai suoi. « La croce del mio Figlio – dice Dio – è la divisa che devono portare con sé, anche esteriormente, i predestinati ». Lo stesso apostolo S. Paolo ci insegnò quale sia il vero carattere degli eletti, dicendoli: coloro che Dio predestinò ad essere conformi all’immagine del Figlio suo. Spiega S. Gerolamo che quelli che Dio vide in questa vita simili, nella mortificazione, a Gesù Cristo, li predestinò ad essere simili nella sua gloria in cielo. I predestinati, dunque, sono coloro che sono trovati conformi all’unico Esemplare che Dio diede loro da ricopiare in se stessi. Se noi vogliamo essere nel numero dei predestinati al Paradiso, che è quanto dire se vogliamo salvarci, bisogna che la nostra fronte, i nostri occhi, le nostre labbra esprimano in sé la fronte, gli occhi, le labbra del Figlio di Dio. La fronte perciò deve essere umile e modesta; gli occhi raccolti e custoditi; il palato abituato alla frugalità e alla sobrietà; il tatto dev’essere allenato ai disagi, al travaglio, alla sofferenza; il portamento atteggiato alla dignità e alla compostezza, e così ogni senso dev’essere sottoposto al laborioso esercizio della virtù sua propria. « Quelli che Dio conobbe e predestinò, sono conformi all’immagine del figlio suo ».

Lo so che una tale rassomiglianza ed immagine si deve intendere principalmente dell’anima, ma chi non sa che senza la mortificazione dei sensi non si può avere per lungo tempo neppure quella interiore dell’anima? Voi lo sapete, figlie mie, la somiglianza dell’anima con Gesù Cristo sta riposta nella grazia abituale e santificante, ma tutti i teologi, con la Sacra Scrittura alla mano, c’insegnano che la grazia, ossia la divina amicizia, non si mantiene a lungo senza l’esercizio delle virtù morali e soprattutto di quelle virtù che il divino Maestro volle che praticassero i suoi seguaci e che intitolò: Beatitudini. Ora fra le tante virtù morali, ce n’è forse una sola che non valga la mortificazione dei sensi? Come potremo noi, ad esempio, praticare la povertà volontaria e tenere il cuore distaccato dai beni di quaggiù, senza privarci delle nostre soddisfazioni e dei nostri comodi? Come potremo essere miti e mansueti, se viviamo troppo affezionati a noi stessi, se fuggiamo i patimenti, se guardiamo con occhio torvo il dolore, la molestia e coloro che ne sono la causa? I più delicati con se stessi, d’ordinario, sono sempre i più impazienti.

Un po’ di cristiano rigore risparmierebbe spesso tante collere, tanti risentimenti, per cui si perde ogni mansuetudine. Potremo noi vivere morigerati e giusti, senza usare di continuo la verga con un giumento, qual’è il nostro corpo, che sempre è restio ad ubbidire all’anima, e senza tenere a freno i nostri sensi? Potremo serbare illesa la purità del cuore, conservare la pace con Dio, amare la vita interiore senza frenare gli occhi, fuggire certe occasioni pericolose, lasciar da parte certi discorsi, privarci di certe curiosità? Credetelo, sorelle mie, noi non saremo mai virtuosi, anzi saremo spesso in contrasto con Dio e con la nostra coscienza, se non ci priveremo di ciò che alletta i sensi ed appaga l’amor proprio.

Non solo necessitano le virtù morali nell’esercizio della mortificazione dei sensi, ma necessitano talora le stesse virtù teologali, quantunque queste siano indipendenti dai sensi. Ecco la ragione fondamentale. Dio scaccia, come sapete, dal paradiso terrestre il primo peccatore del mondo e lo condanna al lavoro e alla morte. « Col sudor della tua fronte, gli dice, guadagnerai il tuo pane ». Questa intimazione cade non solamente sul corpo di Adamo, ma ancora e principalmente sull’anima. Infatti, astenendosi dal pomo vietato, avrebbe sfamato il suo corpo senza stento, così pure l’anima di lui, se non avesse disubbidito, si sarebbe nutrita senza fatica di atti virtuosi, che sono il suo alimento. Poiché l’uomo nel commettere la prima colpa, fece dipendere l’anima dai sensi, così è conveniente che dai medesimi sensi, da allora in poi, dipenda l’anima per esercitare la virtù. Allora Adamo operò il male, perché si lasciò vincere dai sensi, in seguito non poté più operare facilmente il bene, se non col domare gli stessi sensi: purtroppo, però, essendo stati i sensi, i primi a vincere perché ribelli, l’anima fu costretta a non fidarsi più di loro e a tenerli continuamente a freno.

Questa conseguenza, purtroppo ereditaria, dura ancora oggi ed è questo appunto il grande motivo per cui, senza mortificazione, noi non possiamo essere virtuosi. Per il peccato originale i nostri sensi prevalsero sullo spirito; di mano in mano essi maggiormente prevalgono per le nostre attuali mancanze, dunque noi non possiamo agevolmente operare il bene se, con l’aiuto di Dio, non togliamo ad essi la prevalenza con la mortificazione; altrimenti che ne avverrà? Non solo non saremo mai virtuosi e conformi al primo predestinato Gesù Cristo, ma gli saremo positivamente dissimili, cadendo con facilità in mille difetti. Allora per qual mezzo ci salveremo? « Se vivrete secondo la carne, morrete », conclude S. Paolo.

Ma veniamo all’esperienza. Dacché mondo è mondo, donde credete che siano derivati i maggiori peccati? Dalla soddisfazione dei sensi. Il senso del gusto fu quello che condusse frequentemente il popolo eletto all’idolatria: sebbene sfamato, ingrassato, impinguato, spesso abbandonò Dio. Le dolci canzoni, dirà il profeta, affascinavano, per mezzo dell’udito, l’animo dei leviti; la mollezza del vivere fece ricadere nelle già detestate abominazioni i Niniviti. E se Dina, figliola di Giacobbe, se Davide, gran re d’Israele e tanti altri, che son famosi nelle Scritture, avessero frenato la cu riosità dei loro sguardi, credete voi che si leggerebbero nella storia i loro gravi peccati? E se noi nella nostra vita peccammo, ditemi, non furono i nostri sensi che ci indussero a peccare con grande ritrosia della nostra anima? Sì, furono essi che, tradita la volontà la trascinarono nel peccato. Ora quei sensi che ci fecero mancare alla pazienza, alla carità, alla devozione, non ci faranno cadere di nuovo se, non ne faremo loro pagare la pena? Il nostro amor proprio continuerà a dominarci, e il nostro temperamento diverrà più ostinato se non freneremo la nostra suscettibilità, se non vorremo frenare i desideri sregolati, moderare i nostri affetti, frenare le nostre inclinazioni, sottrarre un po’ di tempo ai soliti svaghi per consacrarlo ai piedi del Crocifisso, ad una visita in chiesa o ad una lettura devota. E’ vero, la natura si ribella a questo linguaggio, ma pure è così; il santo timor di Dio non sussiste a lungo in chi rifugge la mortificazione dei propri sensi, infatti, le persone meno mortificate sono sempre le più dissipate e le meno ricche di interiorità.

Dunque, affezioniamoci ad un santo cristiano rigore contro di noi stessi! Persuadiamoci di quanto dice S. Luigi Gonzaga: che non si è mai udito esser giunto alcuno ad un’alta perfezione, senza aver prima domato il proprio corpo, come un giumento restio, a forza di mortificazioni e di penitenze.

Amen.