LE PICCOLE PASSIONI
(Seconda Istruzione)
È cosa certissima che da piccole, piccolissime cause, come dicevo l’altra volta, sogliono derivare talvolta grandissimi effetti e funestissime conseguenze. È questa una verità che, quasi ad ogni momento, ci conferma chiarissimamente la quotidiana nostra esperienza. Quindi voi ben vedete, mie carissime, quanto io ebbi ragione di esortare tutte voi, nell’ultima mia istruzione, a vegliare attentamente sul vostro cuore e a reprimere, con somma diligenza, ogni cattivo affetto, ogni moto disordinato, affinché non abbia, poco a poco, a condurvi a conseguenze funeste e a pericolosi disordini. Sono persuaso che, premurose come siete tutte della vostra santificazione, avrete accolto benignamente quanto vi dicevo e, pienamente convinte della verità che vi annunziavo, tutte avrete deciso in cuor vostro di metterlo in pratica.
Tuttavia non posso astenermi dal credere che il mio ragionamento vi abbia suscitato nel cuore una gravissima obiezione che voi, certo, avreste voluto farmi. Ed io son qui, oggi, per soddisfare questo vostro desiderio. Parlate, dunque, con libertà e dite schiettamente quello che pensate. «0 Padre, se fosse vera la dottrina da voi predicata l’ultima volta, povere noi! Ne seguirebbe che dovremmo vivere in continuo sgomento, in una continua angosciosa sollecitudine poiché, se noi sapessimo che da quella passioncella o da quel piccolo, disordinato affetto non represso in tempo potrebbe dipendere la nostra spirituale e temporale rovina, chi può dubitare che noi saremmo molto sollecite nel soffocarlo nel suo primo nascere? Ma non sapendo di quale passione dobbiamo temere, converrà temere sempre di tutto e, pertanto, dovremmo far conto grandissimo di ogni minuzia, non dovremmo trascurare mai alcun difetto, benché leggero, mai lasciare un’opera buona, quantunque piccola, per pigrizia, o perché non ci sia obbligo di farla; mai trascurare una ispirazione come non importante».
Che volete che risponda? Mi do per convinto che quanto avete obiettato è tutto verissimo. Ma che volete? Che altro volle dire S. Pietro quando, dopo un lungo discorso, concluse con quella formidabile asserzione: «Perciò, fratelli, datevi da fare, affinché, per mezzo di buone opere professiate la vostra vocazione; facendo questo, non peccherete»; quasi volesse dire: «Miei dilettissimi, voi credete che l’affare della vostra eterna salvezza, sia un affare da trattare così superficialmente?
Non è così. È un affare gravissimo, tremendo, il quale dovrebbe tenere sempre occupato il nostro pensiero. Datevi quindi da fare: diligenza, ci vuole, industria, mortificazione e fatica, perché non pecchiamo mai né molto né poco, se ciò ci sarà possibile. Quanto più facciamo, tanto più stimiamoci obbligati a fare di più. Non contentiamoci di fare solo l’essenziale, quello cioè che non si può lasciare senza violare la legge santa di Dio, ma procuriamo di fare qualche cosa di più; non contentiamoci di vivere solamente come vivono nel mondo le persone anche timorate di Dio. Dobbiamo ricordare che siamo persone religiose, che ci siamo dedicate a Dio in modo particolare e che il nostro stato comporta delle pratiche e delle obbligazioni che non hanno le persone, anche devote, del mondo.
Per noi, non basta fare quello che ci viene comandato; dobbiamo fare anche quello che il non fare può spingere, col cattivo esempio, la Comunità al rilassamento e alla tiepidezza, anziché al fervore e ad un fervente spirito religioso. Il silenzio, a mo’ di esempio, l’ordine, la pacatezza, la visita in Chiesa a Gesù Sacramentato dopo il pranzo e dopo la cena, la benedizione delle ore sono cose non comandate e che nel mondo non si fanno neppure dalle persone devote, ma noi, senza un legittimo dovere che ce lo imponga, dobbiamo farlo perché così si fa in tutte quelle Comunità religiose dove regna l’ordine e l’osservanza e molto più perché tali pratiche servono al profitto spirituale ed all’avanzamento dell’anima nella virtù.
I Santi, sentendosi dire dalla Divina Scrittura: «Chi teme Dio, nulla trascura», usavano ogni diligenza per non commettere neppure le più piccole imperfezioni. Appena avvertivano una leggera sollecitazione dei sensi un Bernardo, un Francesco, un Benedetto, subito correvano" chi a tuffarsi nel ghiaccio, chi a seppellirsi tra le nevi, chi a ravvolgersi tra le spine.
Dilettissime mie, pensate che, per così piccole mancanze, questi Santi credessero di aver meritato l’inferno, e perciò se ne volessero riscattare con tali asprezze? Non erano essi così ignoranti, che non sapessero assai bene quanto si richiede per dannarsi. Sapevano che si richiede colpa grave, colpa commessa ad occhi aperti, con animo risoluto e con deliberazione. Non di meno temevano di ogni minuzia, frenavano le proprie passioni sul loro nascere, poiché sapevano quanto sia facile, in materia di male, passare dal poco al molto.
I Santi, vestiti di cilicio e ricoperti di lividure, temevano ogni principio di colpa come fosse un principio di dannazione, e noi temeremo di patire e sopportare ogni incomodo più che sia possibile?
Verrà giorno nel quale si vedrà chiaro quanto ad ognuno, religioso o laico, sarà costato il salvarsi. Il regno dei cieli non è da tutti; chi vuole entrarvi, lo deve fare anche a viva forza, con l’abnegazione di quelle passioni scorrette che glielo ritardano. «Cercate di entrare per la porta stretta» dice il divin Salvatore. Cercate, cercate. Che vuol dire questo «cercate»? Vuol dire forse: affannatevi, affaticatevi? Questo è poco. Vuol dire quello che S. Luca esprime con – agonizzate – che vuol dire ridursi, se è necessario, fino all’estrema agonia: non curare amici, non curare visite, non relazioni, e disprezzare perfino la nostra stessa vita.
Lo so che queste cose non si ascoltano tanto volentieri e che più volentieri si ascoltano quei predicatori i quali danno sicurezza, che non quelli che recano timore, ma con tutto ciò, voi non dovete sdegnarvi con me, ma anzi compatirmi. Non ho forse in comune la causa con tutte voi? Anch’io vi loderei volentieri, anch’io vi lusingherei, così mi cattiverei anch’io la vostra benevolenza, ma facendo ciò io vi tratterei da servo infedele mentre, per darvi un breve contento, vi recherei forse un’eterna rovina.
Concluderò dunque con S. Agostino, che dice di dover sempre molto temere di noi stesse. Conviene temere, perché è molto più vantaggioso un santo timore, che una sicurezza baldanzosa.
Quanto a me, non posso dare a voi ciò che non ho: se fossi sicuro, farei sicure anche voi. Ma io temo e tremo e tutto mi spaventa pensando all’anima mia. Come, dunque, posso farvi sicure? Sapete voi qual è il modo di trovare qualche considerevole sicurezza nell’affare della nostra eterna salvezza? È di vivere sempre con immenso timore, sempre ricorrere a Dio e a Dio sempre raccomandarsi. Chi fa così, cammina sulla via sicura, né può dubitare di arrivare finalmente in Paradiso: «Beatus homo, qui semper est pavidus». Amen.