La superbia 2

 

LA SUPERBIA

(Seconda Istruzione)

La superbia, dice lo Spirito Santo nell’Ecclesiastico, è principio funesto d’ogni vizio, causa malaugurata di tutti i peccati: l’inizio di tutti i peccati è la superbia. Essa, soggiunge il principe degli Apostoli S. Pietro, è il più grande ostacolo che c’impedisce di conseguire da Dio la grazia che noi gli chiediamo, perché Egli resiste ai superbi e dà la sua grazia agli umili di cuore.

La superbia è una bestia feroce, continua il grande maestro di spirito Cassiano, è un formidabile demonio, una peste così contagiosa che distrugge in un momento tutte le virtù cristiane. La superbia dai S. Padri e dai teologi è chiamata il primo dei vizi capitali, poiché da essa procedono tutti gli altri.

Come l’umiltà, a lei direttamente opposta, è base e sostegno di tutte le virtù morali, così la superbia è madre di tutti i difetti perché, quale potenziale veleno, guasta e corrompe tutte le potenze dell’anima. Avvelena l’intelletto e fa sì che non conosca più il suo principio e la sua origine; turba la memoria, la quale non si ricorda più che l’uomo viene dal niente e niente può da se stesso. Perverte la volontà, ricusando la dovuta obbedienza e il dovuto amore a Dio, fonte di tutti i beni; tributa adorazione all’amor proprio, come gli idolatri che rendono culto agli animali e lo negano all’unico vero Dio.

Che meraviglia, se lo Spirito Santo ci avvisa che l’uomo superbo sarà sottoposto alle divine riprovazioni? Quanto è brutta in se stessa la superbia, sia per l’ingiuria somma che fa a Dio, sia per i castighi gravissimi con cui è punita! Innanzitutto dobbiamo sapere che cosa è la superbia, e in quali modi si può peccare di superbia. La superbia, dice S. Tommaso l’Angelico, è un desiderio disordinato della propria eccellenza.

I teologi, insieme con i S. Padri, comunemente distinguono quattro specie o gradi di superbia.

Primieramente – essi dicono – peccano di superbia quelli che, essendo dotati di alcuni beni, non li riconoscono da Dio ma da se stessi, e se ne compiacciono e se ne gloriano, come fanno quelli che attribuiscono a se stessi le prerogative e gli onori a cui si vedono innalzati dalla natura o dalla fortuna, se ne vantano e se ne compiacciono come di cose proprie, mentre tutto è dono di Dio.

Si pecca, in secondo luogo, di superbia, quando si riconoscono, sì, i beni ricevuti da Dio, ma si attribuiscono a proprio merito, come fanno quelli che, essendo stati dal Signore favoriti con lo splendore dei natali o con l’abbondanza delle ricchezze, se ne vantano ed entrano in tale presunzione dei loro meriti, che non possono sopportare d’esser trattati come gli altri più poveri di loro, quasi che la nascita o le ricchezze li costituissero di un’altra specie diversa dagli altri e non fossero più figli di Adamo, impastati di creta e di fango al pari di tutti gli altri. ……….

Peccano in terzo luogo di superbia quelli che si attribuiscono un qualche bene o qualche eccellenza che non hanno. Se per avventura accadesse che venissero innalzati al di sopra della loro condizione, sdegnano di sentir parlare del precedente loro stato e fanno ogni sforzo per dissimulare la povertà dei loro natali. Non possono soffrire che si presenti loro alcuno benestante e, aborrendo tutto ciò che può mettere in vista l’umiltà della loro nascita, vanno fingendo antichità d’origine e grandezza che non hanno forse mai avute.

Peccano in quarto luogo di superbia quelli che disprezzano gli altri e le altrui abilità e fortune, per essere stimati essi soli e, facendo ostentazione delle loro virtù, cercano di essere ritenuti i più degni, quasi i più capaci di fare bene ogni cosa.

Peccano ancora di superbia tutti quelli che bramano di comparire più di quello che sono; quelli che desiderano disordinatamente onori, dignità, che si mostrano avidi eccessivamente di lodi e di gloria umana; quelli che si lodano di qualche loro buona qualità, che parlano con lode di se stessi e vorrebbero ad ogni costo che tutti avessero buona stima di loro; sono superbi quelli che si fissano nella loro opinione e sono sì attaccati al loro proprio giudizio che nessuno può persuaderli del contrario e farli mutare parere, per qualunque verità si proponga loro, facendo loro osservare che la vera pietà, cioè l’amor di Dio e l’utile spirituale proprio e del prossimo, esige assai diversamente.

Sono superbi, infine, quelli che trasgrediscono gli ordini dei Superiori; tale disobbedienza, quando è unita al disprezzo dei Superiori e del loro comando, è sempre peccato grave, anche se fosse in piccole cose, perché il Superiore, essendo Ministro e rappresentante di Dio, in lui resta disprezzato Dio stesso, conforme al detto di Cristo: «Qui vos spernit, me spernit».

Premesse queste generali cognizioni, chi è che possa ora esprimere la malignità e la gravità di questo abominevole vizio della maledetta superbia? Essa viene detta fra tutti i peccati il più enorme, il più odioso e ingiurioso a Dio. Qual cosa può essere più abominevole e più odiosa agli occhi di Dio che un vilissimo verme di terra, una miserabile creatura, che ardisca stimarsi qualche gran cosa da voler sovrastare gli altri suoi simili e attribuire a sé quella gloria e quell’onore che solamente a Dio è dovuto?

Che può dirsi di più orribile, di più ingiurioso, di più ardito? Eppure queste sono le espressioni gravissime di cui si serve lo Spirito Santo in Giobbe, dove parla dei superbi: «Stese contro Dio la sua mano e contro l’Onnipotente si rese forte». Per questo dice lo stesso Spirito Santo nell’Ecclesiastico: fra le cose che Dio odia e detesta, la prima è la superbia.

Ma io ho detto ancora che la superbia è il peccato più enorme di qualunque altro. E questo si deduce chiaramente dal Salmo XVIII, ove Davide pregava Dio di volerlo liberare dal massimo delitto, e S. Agostino spiega ch’esso è appunto la superbia: il massimo peccato nell’uomo è la superbia. Il motivo è che gli altri peccati si commettono ordinariamente o per debolezza, o per ignoranza, o per godere del creato; la superbia, al contrario, ci allontana da Dio per pura malizia, per arroganza, o per non volersi sottomettere a chi di dovere. Essa se la prende con Dio stesso, gli ruba la sua gloria, si appropria dei suoi beni, attacca le sue divine perfezioni, volendo vivere indipendentemente da Lui.

Mentre tutti gli altri vizi ci allontanano da Dio, la superbia sola gli tiene testa e combatte contro di Lui. Che meraviglia, dice S. Gregorio, che la superbia sia uno dei segni più certi di riprovazione eterna, nello stesso modo che l’umiltà è uno dei segni più certi di predestinazione al paradiso?

Dice S. Giacomo: «Deus resistit superbis, humilibus autem dat gratiam».

Ora chi avrebbe immaginato che un peccato sì enorme, fonte e origine di tutti gli altri peccati, segno evidente di eterna riprovazione, divenisse così comune nei cristiani che pochi, pochissimi sono quelli che ne vanno esenti? Eppure è così. La superbia non è un vizio di pochi, è un vizio di molti: le stesse persone religiose, che fanno professione di pietà e di virtù, ne sono spesse volte infette. Le stesse austerità e penitenze, la frequenza ai Sacramenti, l’assiduità alla chiesa, all’orazione ed altri devoti esercizi sono spesso viziate da questo pestifero male, il quale corrode tutto il mondo e lo rende abominevole dinanzi a Dio.

Quello ch’è più lacrimevole è che pochi, pochissimi, sono quelli che si riconoscono contaminati da questo vizio e quindi, mentre sono solleciti di confessarsi di tanti altri falli, per nulla si confessano della loro vanità e superbia.

Ma non è forse la superbia che, essendo il peccato più enorme, più ingiurioso, più odioso a Dio, ci tira addosso i più tremendi castighi? Sì, il superbo può paragonarsi ad un uomo epilettico. Per quell’infelice basta solo una malattia che, per un’improvvisa alterazione del cervello, o per una straordinaria alterazione dei nervi, lo getta a terra senza che possa stendere un braccio a suo riparo, fosse anche sull’orlo di un precipizio. Tale è il superbo. Con questa legge, però, dice un maestro di spirito, che quanto egli superbamente s’innalza, tanto miseramente precipita e l’altezza della sua esaltazione è la precisa misura della profondità della sua caduta. Gesù Cristo l’ha detto e la sua parola è infallibile: chi si esalta, sarà umiliato.

Questo è l’ordine stabilito dalla divina Giustizia e comprovato dall’esperienza e dalla storia di tutti i secoli, cioè che il primo castigo dei superbi sia una vergognosa caduta.

Saul, sebbene provato da Dio, e confidando nelle sue armi e nei suoi armati, pretendesse di mantenersi in capo la corona di re, fu sconfitto sul più bello delle sue speranze dai Filistei e, per disperato rimedio e per sottrarsi agli insulti dei vincitori, si diede la morte da se stesso.

Il gigante Golia, pavoneggiandosi delle sue forze e fidandosi delle sue schiere, disprezzando il popolo di Dio sfidava a singolare combattimento i prodi d’Israele, ma quando egli si riteneva sicuro, fu prostrato a terra dal colpo di un semplice pastorello qual era Davide.

Assalonne, ingrato, per sfrenata ambizione di regnare si rivoltò contro il padre, ma, vinto ben presto in battaglia, mentre sperava salvarsi su un veloce destriero, sospeso per i capelli ad un ramo di quercia, perdette la vita, ferito da tre colpi di lancia.

Un ritratto di grande superbo e del suo straordinario obbrobrioso castigo ce lo presenta il Profeta Daniele a proposito di Nabucodonosor, re di Babilonia. Stava costui passeggiando nella sua reggia gonfio di compiacenza di se stesso quando, inebriato della propria stima, rispondeva a chi non lo interrogava, anzi neppure era presente, come se avesse avuto intorno la turba dei suoi adulatori: «Non è questa, diceva, la grande Babilonia da me fabbricata?». Falso, perché Babilonia fu fondata da Belo e da Nabucodonosor fu solo ingrandita. Ma questo è il vizio proprio dei superbi: far servire alla propria gloria anche la bugia. Indi, crescendo la sua alterigia, attribuiva alla forza del suo valore lo stesso regno. Ma lo credereste? Nel tempo stesso in cui il superbo, parlando, si pasceva di vanità, una voce dal cielo gli fece intendere: «Tu, Nabucodonosor, gli disse, non sarai più re, perderai il regno, sarai scacciato dal consorzio degli uomini e, spinto da una strana mania al bosco, abiterai con le fiere e ti pascerai, come bestia irragionevole, di fieno e d’erbe selvagge».

I castighi così terribili, con cui Dio ha punito sempre i superbi, non vi pare che dimostrino con evidenza che la superbia è assai maligna ed enorme?

Eppure non ho ancora detto il peggio. I castighi di cui abbiamo ragionato finora sono piuttosto nell’ordine delle cose umane e perciò meno temibili.

Quello che deve incutere timore e tremore è il castigo spirituale, per cui si chiude al superbo la fonte d’ogni grazia celeste, poiché il Signore, come già accennai più sopra, ha affermato di non dare la divina sua grazia all’uomo superbo. E senza la grazia di Dio come può egli salvarsi? Se la grazia è necessaria, indispensabile per fuggire il male, fare il bène, resistere alla tentazione, vincere le proprie sregolate passioni, mortificare la carne e vivificare lo spirito, come si può, senza di essa, giungere al paradiso?

La superbia, come abbiamo già detto, è un segno evidentissimo di riprovazione eterna. Senza la divina grazia non si può esercitare la virtù. E questa grazia Dio non la dà se non a quelli che, conoscendo la propria povertà e miseria, gliela domandano con umile preghiera; dunque il superbo è fuori della strada del cielo. È per questo che S. Giovanni Crisostomo diceva che avrebbe preferito avere tutti i peccati del mondo con l’umiltà del pubblicano, che le virtù di tutti i Santi del paradiso con la superbia del fariseo: perché, con l’umiltà si dileguano tutte le colpe, come neve al sole; con la superbia, si dissipano tutte le virtù, come polvere al vento. E se Dio non volle soffrire neppure per un istante nel cielo milioni e milioni di angeli divenuti superbi e li fece subito precipitare nel profondo degli abissi in qualità di demoni, non possiamo certo sperare che voglia ammettere nella patria celeste, come beato, chi si trova in questo abominevole vizio.

Che può quindi aspettarsi il meschino se prontamente non si ravvede? Non altro che cadute sopra cadute. Cadute dallo stato di vanagloria, a cui s’innalzò con la sua superbia, nello stato di avvilimento; cadute di peccato in peccato, di precipizio in precipizio, sino alla totale rovina di se stesso. Ma quale rimedio può opporsi a tanto male? Quale rimedio? L’umiltà: questo è l’unico rimedio della superbia. Gesù Cristo, dice il Pontefice S. Gregorio, qual medico celeste, ha prescritto il rimedio adatto a tutti i vizi: comandò agli avari la liberalità, la continenza ai disonesti, la mansuetudine agli iracondi, l’umiltà ai superbi.

Senza umiltà, dunque, non si potrà mai riuscire a sradicare dal cuore questa maledetta passione e a correggere tante vanità e leggerezze in cui si cade di frequente; non si riuscirà a castigare e a togliere via quelle fissazioni di giudizio, quell’ostinazione e pertinacia di volontà, che ci rendono tanto audaci; né mai si potrà sperare che le nostre azioni, sebbene sante e lodevoli, siano accette a Dio e giovevoli per la vita eterna, se non sono libere dalla superbia e poggiate sul solido fondamento dell’umiltà. Amen!