Suore dell'Immacolata

Grazia santificante

 

La pesca miracolosa

Dal brano del Vangelo di S. Luca: 5, 4-5. 7

4 «… dixit ad Simonem: "Due in altum et laxate

5 retia vestra in capturam". Et respondens Simon dixit: "Praeceptor, per totam noctem laborantes nihil cepimus; in verbo autem tuo laxabo retia"…

7 … et impleverunt ambas naviculas, ita ut mergerentur».

LA GRAZIA SANTIFICANTE E LA RETTA INTENZIONE

 

S. Luca fa menzione di una pesca notturna tentata dai Discepoli del Salvatore, ma con esito infelicissimo; essi trascorsero, infatti, tutta la notte in continue fatiche, remando da una parte e dall’altra, senza poter prendere neppure un pesce. Lo stesso Vangelo, però, continua narrando che, avendo gli Apostoli gettata nuovamente la rete in mare per ordine del loro divino Maestro, raccolsero una quantità così grande di pesce, che la rete minacciava di rompersi e la navicella di affondare, tanto che furono costretti a far segno ad altri pescatori, loro compagni, che erano in altre barche, di venire in loro aiuto; questi, prontamente accorsi, riempirono tutte e due le barche di tanti pesci, da rimanere stupiti per la meraviglia.

Ora, che dobbiamo noi apprendere, sorelle mie, da questo fatto evangelico? Dobbiamo apprendere che per meritare presso Dio e procurarci meriti per il Paradiso, non basta operare, ma bisogna operare nel tempo e nel modo stabilito da Dio.

Vediamo un po’ dunque, oggi, Sorelle mie, quali siano le condizioni che devono accompagnare le nostre azioni se vogliamo che non avvenga a noi, come agli Apostoli, di dover dire alla fine della nostra vita: «Con tante nostre fatiche, con tante opere da noi fatte, niente abbiamo meritato per il Cielo, cioè abbiamo faticato invano, senza guadagnare alcunché».

La prima condizione che deve accompagnare le nostre azioni, affinché esse siano meritorie per il Paradiso, è la carità, ossia la grazia santificante, per cui le cose che noi facciamo o diciamo non solo bisogna che siano per loro natura buone e sante, ma che siano fatte o dette in stato di grazia. Se si fanno con l’anima in peccato mortale, benché di loro natura sante, non hanno alcun valore per la vita eterna, cioè sarebbe come un lavorare nelle tenebre tanto che, dopo aver faticato tutta la notte di questa vita terrena, dovremmo dire come gli Apostoli: « Per totam noctem laborantes, nihil cepimus ».

È infatti verità di fede che le opere, per sé indifferenti o anche buone e sante, fatte in stato di peccato mortale, non valgono per il Paradiso. Ascoltate come parla S. Paolo: «Se io avessi – egli dice – una eloquenza che ottenesse tutto ed una perspicacia che penetrasse ogni cosa, se fossi tale da uguagliare i più eloquenti oratori della terra e nell’intelligenza superassi anche gli Angeli, tutto ciò varrebbe niente senza la carità. Anzi, – continua il santo Apostolo – se io avessi lo spirito di profezia e conoscessi tutto il presente, il passato e il futuro, se avessi distribuito ai poveri tutte le mie sostanze e avessi anche consegnato il mio corpo alle fiamme, tutto ciò, senza la carità, niente mi gioverebbe».

La ragione di tutto questo sta nel fatto. Sorelle mie, che le opere nostre, affinché siano meritorie per il Paradiso, devono essere impreziosite e come divinizzate da Gesù Cristo Signor Nostro, la qual cosa è il principio essenziale di tutto il merito. Sì, è Lui quel capo da cui deriva a noi, sue membra, tutto lo spirito delle nostre operazioni vitali; è Lui quella vite che comunica a noi, suoi tralci, tutto il vigore del germoglio e del frutto. Perciò, per poter meritare degnamente la gloria del Cielo, è necessario che noi siamo a Lui uniti con la santa carità, cioè col suo divino amore.

Come un membro che non riceve gli influssi dal capo non può avere alcuna vita, come un ramo distaccato dall’albero e come il tralcio separato dalla vite non può fare frutto, così un’anima, separata da Cristo con il peccato, non può meritare alcun bene per il Paradiso e non può dare frutti di vita eterna.

Voi vedete che gli Apostoli, che si affaticarono tutta la notte a pescare senza Cristo, tirarono sempre vuote le loro reti e raccolsero tale quantità di pesci da far stupire per la meraviglia tutti gli astanti e farne quasi sommergere la barca soltanto quando Cristo fu salito su quella di Pietro e in suo nome vennero gettate le reti « in verbo tuo laxabo retia ».

È dunque chiaro, Sorelle mie, che, finché noi lavoreremo senza la carità di Dio, quantunque grande e santa sia l’opera nostra, niente guadagneremo mai per il Paradiso e potremo sempre dire con nostro grande dolore: « per totam noctem laborantes, nihil cepimus ».

Se qui fossero ad udirmi tutti coloro che vivono in peccato mortale settimane e mesi, o passano nel peccato la maggior parte della loro vita senza darsi alcuna premura di mettersi, con pronta e vera penitenza, in grazia di Dio, io vorrei dire ben altro a questo riguardo e farei osservare a costoro come la loro vita non è altro che un continuo aggirarsi, secondo l’espressione del Profeta, intorno ad una circonferenza senza mai fare un passo in avanti, cioè senza mai meritare per la beatitudine eterna. Proprio come un giumento, condannato a girare la ruota di un mulino faticando tutto il giorno, senza fare mai un po’ di strada.

Siccome però io parlo a persone religiose che quasi non sanno cosa voglia dire peccato mortale e vivere in peccato, giacché voi non siete mai cadute in tanta disgrazia da offendere Dio gravemente, o se, talvolta, vi siete incautamente cadute, risorgeste presto con pronta penitenza e sincera emendazione, così io passo subito alla seconda condizione che deve accompagnare le opere nostre, se vogliamo che siano accette a Dio e meritorie per la vita eterna.

Prima, però, voglio fare ancora una osservazione, cioè che anche in stato di peccato non si devono mai trascurare le azioni buone e gli esercizi di pietà, anzi ci si deve applicare ancora di più, perché essi giovano ad accelerare la grazia e a placare lo sdegno di Dio impegnandolo a concedere i lumi e gli aiuti necessari per il necessario ravvedimento.

Così Daniele esortò il re Nabucodonosor peccatore a fare elemosine, affinché il Signore gli perdonasse i suoi peccati; e il pubblicano nel tempio, sebbene gran peccatore, con l’orazione da lui fatta con grande umiltà, costrinse quasi il Signore a perdonargli i suoi grandi peccati e se ne tornò a casa giustificato.

Veniamo ora alla seconda condizione.

La seconda condizione, che deve accompagnare le nostre azioni buone e rette, è quella di compierle con un fine soprannaturale e, anche se indifferenti, riferendole a Dio. Sorelle mie, noi non dobbiamo accontentarci, per l’eterna nostra salvezza, che l’opera nostra sia buona, onesta e compiuta in stato di grazia, ma dobbiamo farla bene, cioè con fine non solo onesto ma soprannaturale, perché, essendo la gloria del Paradiso un bene soprannaturale, le opere che devono meritarla devono essere anch’esse soprannaturali, cioè fatte per motivi di fede, dovendo sussistere qualche relazione fra il mezzo e il fine.

Le virtù morali, pertanto, come la temperanza, la fortezza, la prudenza, la giustizia e le altre virtù soggette a queste, come l’umiltà, la pazienza, la sobrietà, la castità e simili, anche se bellissime e nobilissime per loro natura, non ci giovano per la vita eterna, se sono praticate solo con un fine onesto e non anche soprannaturale, cioè riferito a Dio. Con questo fine soprannaturale, poi, non solo serviranno per la gloria del cielo le accennate opere per loro natura buone, ma anche quelle indifferenti.

Sì, Sorelle mie, con un fine che ci porti a Dio noi possiamo santificare tutti i lavori ai quali giornalmente ci applichiamo: i passi che facciamo, il cibo che gustiamo, le nostre occupazioni domestiche, le nostre fatiche e perfino i nostri sollievi e il sonno stesso; il che significa fare di tutte queste cose, per loro natura indifferenti, un tesoro prezioso per il Cielo.

Così, appunto, ci esortava S. Pietro quando intimava a tutti i fedeli di fare ogni cosa per la gloria e l’onore di Dio. A Dio, dunque, devono essere sempre rivolti i nostri pensieri e le nostre azioni. Lungi perciò da noi e nel nostro operare i motivi di vanità e di interesse, di umani riguardi o di altro, che non servono ad altro che a rendere vane le nostre opere, non solo quelle indifferenti, ma anche quelle che, per loro natura, sono le più sante e le più divine. Quanto si ingannano coloro che, nel loro operato, non cercano altro che vanità, ostentazione e interesse!

Se noi volessimo esaminare bene la cosa, quante Comunioni troveremmo fatte per vanità e per ipocrisia! Quante elemosine o altri atti di carità fatti per ostentazione, per vanagloria! Quante orazioni ed esercizi di pietà praticati unicamente per umani riguardi o, almeno, per pura abitudine! Quante letture spirituali troveremmo fatte più per curiosità che per ricavarne profitto, quante prediche ascoltate più per criticare che con il desiderio di correggere i propri difetti! L’operare in simile modo merita il rimprovero che fece già Gesù Cristo ai farisei chiamandoli sepolcri, imbiancati che, se allo sguardo appaiono magnifici, nascondono poi dentro di sé cadaveri putrefatti.

Non dobbiamo meravigliarci di ciò, Sorelle mie, poiché il demonio, sempre invidioso del nostro bene e sempre intento alla nostra rovina, quando non può indurci ad opere cattive, fa di tutto perché operiamo con un fine cattivo e con vanagloria. La vanagloria, dice S. Basilio, è quella che ci spoglia delle ricchezze spirituali, ce ne toglie il merito e – come dice S. Isidoro – converte in vizio la stessa virtù. Essa – dice S. Bernardo – è come ; un dardo che uccide chiunque trova; entra dolcemente nel cuore, ma vi cagiona una piaga gravissima. La vanagloria è come un serpente che si nasconde tra le erbe e i fiori, mordendo più crudelmente quando meno vi badiamo.

Spesso noi trascuriamo le azioni virtuose e di maggior gloria di Dio perché non sono molto appariscenti, mentre, al contrario, ci mostriamo pieni di zelo per la gloria di Dio in quelle che vengono ammirate e ci procurano gli applausi.

Se al demonio – dice S. Gregorio Magno – non riesce di guastare la vostra buona azione nel suo principio con un fine cattivo, egli procura poi di insidiarla mentre la si sta facendo o è già fatta. Come un ladro che, non potendo assalire il viandante quando esce dalla propria casa, lo aspetta per la strada e ad un certo punto lo assale, lo spoglia e anche lo uccide, così anche l’opera buona, che pur viene cominciata bene, talvolta prosegue e finisce male, perché quella vanità che non ne è stata il principio, ne è poi stata la compagna. Così in tal modo, pur cominciando un’impresa per carità, la si finisce poi per sola vanità. Tante volte, inoltre, anche dopo averla iniziata bene, se ne perde il merito vanamente perché ci si rallegra e ci si compiace di averla fatta bene, o perché stoltamente ci si vanta del bene che si è fatto perché altri lo conoscano e si riesca così ad essere stimati e lodati. Attente, dunque, Sorelle mie, a ben guardarsi da questa maledetta vanagloria, perché, come vedete, è tanto maligna che, se non guasta l’opera buona nel suo principio, la guasta nel Suo proseguimento e perfino nel suo termine, cosicché, quando ci troveremo sul letto di morte, dovremo dire come gli Apostoli: « per totam noctem laborantes, nihil cepimus !».

La terza condizione, finalmente, che deve accompagnare il nostro ben fare, affinché sia meritorio per il Cielo, è quella di non operare il bene per proprio capriccio, ma solo quando Dio lo vuole e nel modo in cui Egli lo vuole. Alcuni sono tanto attaccati al proprio modo di vedere che, per quanto lo Spirito Santo li avverta di non appoggiarsi alla propria prudenza, nel loro operare si lasciano portare dal vento del loro capriccio e, senza badare allo stato di vita in cui si trovano, trascurano i propri doveri, tendendo all’esercizio delle virtù proprie di un altro stato.

Inganno, Sorelle mie, inganno! Tutta la perfezione cristiana, – chi non lo sa? – consiste nell’adempimento dei doveri riguardanti lo stato che si è abbracciato, qualunque esso sia. Non si deve uscire da quella strada per cui Dio vuole che ci si incammini per deviare verso un’altra che Egli non ci addita. Tale cammino, scelto per proprio capriccio, benché in apparenza sembri retto, finisce poi con l’essere obliquo, cioè causa di peccato. Iddio non vede di buon occhio il bene che si fa per proprio capriccio, ma anzi lo detesta, poiché non lo vuole da quelle persone e in quelle circostanze.

Eccovi, come esempio, due sacrifici in cui uguali sono le vittime e gli offerenti, ma con esito assai diverso uno dall’altro. Quando Abramo offre a Dio il proprio figlio e sta già alzando il braccio per vibrare il colpo, in premio di tale sacrificio, neppure portato a termine, viene assicurato da Dio che il suo seme sarà moltiplicato come le stelle del Cielo. Jefte, invece, che sacrifica l’unica figlia per la vittoria riportata contro gli Ammoniti, da Dio è condannato a vivere triste e dolente, privo di prole e di consolazioni. Perché Dio accettò il sacrificio di Abramo e non quello di Jefte? Perché Abramo non si accinse a quell’impresa per proprio capriccio, ma per ordine e volontà di Dio, mentre Jefte fu mosso dal proprio impeto nel mezzo della zuffa, per cui il suo sacrificio fu solo temerario e suggerito da una devozione indiscreta.

Se noi potessimo, Sorelle mie, penetrare bene a fondo la cosa, quante pratiche di pietà troveremmo fuori luogo e tali, che, invece di essere grate a Dio, gli dispiacciono perché da Lui non volute in quel tempo, in quella circostanza, in quella maniera e da quelle persone!

Dunque, Sorelle mie, se vogliamo che le opere nostre siano accette a Dio e meritorie per la gloria del Cielo, procuriamo che siano fatte in stato di grazia e con il buon fine di piacere a Dio. Diversamente faticheremo invano e, dopo aver lavorato per tutto il corso della vita, al punto della nostra morte dovremo confessare con gli Apostoli che, nonostante le nostre fatiche, abbiamo meritato nulla per il santo Paradiso. Che ciò non avvenga per alcuno di noi!

Amen.