I GIUDIZI CONTRO L’OBBEDIENZA
Se l’ubbidienza è la cosa più bella, più eccellente, più necessaria che possa essere in una comunità religiosa; se è la virtù, come dice S. Tommaso, essenziale alla religione, quella che costituisce l’uomo religioso, di modo che non può essere religioso, se non è obbediente; se l’obbedienza è la madre di tutte le altre virtù, perché tutte le genera e le conserva nell’anima, come dice S. Agostino, e io pure ve lo ricordavo la volta precedente, perché essa trova tanta ripugnanza e difficoltà proprio in coloro che la dovrebbero amare? Perché sì pochi sono quelli che la praticano con ogni diligenza? Perché, anzi, si vanno formando giudizi contro l’ubbidienza e si mormora continuamente di chi ce la impone? Donde nascono così strani giudizi e così frequenti lamentele?
Ecco, mie figlie, l’argomento che dobbiamo trattare questa sera: esaminare un po’, a nostro spirituale profitto, donde procede che noi spesso formuliamo giudizi contrari alla santa ubbidienza, e di quali mezzi dobbiamo servirci per liberarci dagli stessi. Spero che mi starete attente e che mi vorrete perdonare se parlerò un po’ chiaro, perché, come voi vedete, questa è materia di somma importanza; è il grande scoglio che ci attraversa la strada della perfezione, poiché voi sapete che nessuno è mai giunto ad esser persona di vera virtù, se prima non morì a se stesso, sottomettendosi all’obbedienza dei Superiori.
La radice dalla quale nascono i giudizi e le ragioni contro l’ubbidienza, se noi osserviamo bene, è la nostra poca mortificazione. Ma qualcuno può dirmi: questo pare che sia come se domandassimo donde nasce l’essere uno superbo, e ci venisse risposto che nasce da mancanza di umiltà. E’ cosa chiara, infatti, che se io fossi mortificato nel giudizio, avrei anche semplicità nell’obbedienza e, essendo semplice, non mi verrebbero in mente giudizi contrari. Io, però, non dico questo; dico solo che dal non essere mortificati nelle nostre passioni e nei nostri desideri; dall’essere molto amanti delle nostre comodità; dal non essere indifferenti e rassegnati verso ciò che ci viene comandato, dal volere invece sempre fare la nostra propria volontà, nasce che, quando quello che ci si comanda è contro la nostra volontà, si adducono subito molte ragioni e molti giudizi contrari. Non è forse così? Se non mi credete, rispondete a me: quando è che ordinariamente si sogliono suscitare in noi giudizi e repliche contro l’ubbidienza? Se volete dire la verità, è quando ci vien comandata una cosa che non ci va a genio, quando non ci viene concesso ciò che vogliamo, quando insomma ci mortificano e ci toccano sul vivo; è allora che si presentano alla nostra mente ragioni senza numero contro ciò che ci viene comandato, e tutte ci paiono buone e una migliore dell’altra. Quando, invece, ci viene comandata una cosa che ci dà gusto, che è saporita al nostro palato, allora non vengono in mente né giudizi, né ragioni contrarie, ma ci pare, anzi, che ciò sia molto logico e che sia la cosa migliore del mondo. Non vi pare che ciò sia in noi causato da poca mortificazione? Gesù Cristo nel S. Vangelo ci raccomanda d’imitare la colomba: « Siate semplici come le colombe ». Voi sapete perché? Perché la colomba, quando si vede togliere i suoi colombini non si difende né si lamenta, né mostra dolore, come fanno gli altri uccelli che difendono i loro piccoli, anche con pericolo della loro vita, ma lascia che le siano tolti liberamente. Così quando a noi vengono tolti i nostri figliolini, cioè quello che amiamo e che desideriamo, non dovremmo resistere, né contraddire, né lamentarci, né mostrare risentimento. E’ dunque, chiaro che dalla nostra mortificazione nascono in noi i giudizi contro l’ubbidienza.
Il principale mezzo che dobbiamo adoperare, per rimediare a questa tentazione, è procurare di mortificarci e di non avere volontà propria, ma essere molto rassegnati e indifferenti, di fronte a ciò che l’ubbidienza vorrà fare di noi, senza curarci che sia comandata più una cosa che un’altra. Questo rinnegare la propria volontà e il proprio giudizio è di grande importanza. Gli antichi padri dell’eremo, buoni maestri di spirito, esercitavano i loro sudditi col comandar loro delle cose che parevano fuori proposito, per far prova, appunto, della loro ubbidienza e perché non rimanesse più in loro vestigia alcuna del proprio giudizio e della propria volontà. E’ veramente molto importante che noi mortifichiamo e rinneghiamo la nostra volontà e il nostro giudizio, perché, senza questo, non riusciremo mai a lasciarci guidare dalla santa ubbidienza, come dobbiamo fare, se vogliamo avanzare nella via della virtù.
Un infermo, il quale conosce la sua infermità, sa bene che quantunque abbia sete, non gli conviene bere e, sebbene la medicina lo amareggi, la prende ugualmente perché non crede al suo gusto, né si fida di sé, ma, lasciata da parte ogni sua brama, si sottomette al medico e segue il di lui parere, ritenendolo il migliore. E chi lo induce e grandemente l’aiuta a non fidarsi di sé, ma a seguire le prescrizioni del medico? E’ appunto il conoscere ch’egli è infermo. Così, conoscendo noi d’essere infermi di spirito, piene di amor proprio e di disordinate passioni a tal punto che non sappiamo desiderare se non quello che ci nuoce e ci fa male, sapremo usare anche noi il rimedio che usa l’infermo, il quale desidera di guarire dalla sua infermità; non ci fideremo, perciò, di noi stessi, ma crederemo ai Superiori che ci curano e ci dirigono nelle nostre infermità spirituali, e ritenendo per ben fatto tutto ciò che essi ci comandano, non faremo alcun conto dei giudizi e delle ragioni che ci vengono in mente contro l’ubbidienza, ma li riterremo tutti capricci di persona inferma.
Così, tali giudizi e tali ragioni, non solo non ci recheranno alcun danno, ma ci saranno anzi occasione di trarre da essi molto profitto; noi ci confermeremo maggiormente nell’ubbidienza, perché ritorneremo subito su noi stessi, dicendo tra noi: quando sono ammalato mi nausea quello che è buono e quello che mi giova, dunque il miglior contrassegno che la cosa che mi viene comandata mi conviene ed è la migliore per me, è appunto il provarne disgusto e avere delle difficoltà contro di essa, perché io sono infermo di spirito e non ho il senso del gusto. Questo rimedio è molto buono per tutti i giudizi che ci vengono in mente, non solo contro l’ubbidienza, ma anche contro il nostro prossimo: perché voltando subito la cosa contro noi stessi dicendo: Io sono colui che è in errore, perciò, quello che forse è bene, a me pare male. Quando ci urterà il carattere di qualche fratello o sorella, attribuiremo a noi tutta la colpa, dicendo: io ho un cattivo carattere, non mi so affiatare con gli altri, dunque sta in me il difetto, non negli altri.
Voi sapete che grande rimedio delle tentazioni è conoscere che sono tentazioni: perciò il demonio, quando ci tenta, si affatica quanto può a procurare che la tentazione non sia conosciuta, non sembri tanto tentazione, ma vera ragione, affinché cadiamo in essa. Fa come il cacciatore quando tende il laccio: lo camuffa perché non sembri laccio, altrimenti la preda non v’incappa. Così il demonio si trasfigura, dice S. Paolo, in angelo di luce, perché noi pensiamo che è luce e chiarezza, quello che invece è oscurità e tenebre. Dio ci liberi dalla tentazione che non pare tentazione, ma vera ragione. Le tentazioni che hanno apparenza di bene, sono sempre le più gravi e le più pericolose. Quando la tentazione viene smascherata, noi ci possiamo valere di molti mezzi per vincerla, ma se non si conosce come tale, come possiamo scacciarla? Quando non si conosce uno come nemico, ma piuttosto lo stimiamo amico, possiamo guardarci da lui? Soleva dire un gran servo di Dio ch’egli non temeva i difetti che conosceva e odiava, ma solamente quelli che non conosceva e non stimava tali, oppure che scusava. Ritornando, dunque, al nostro argomento, dico che sarà gran rimedio, quando ci vengono in mente giudizi e ragioni contro l’ubbidienza, conoscere che sono tentazioni del demonio e nostra infermità. E abbiamo ben ragione di fare così, perché tale è la nostra sensibilità che subito inventa e trova molte ragioni apparenti per quel che le dà gusto e soddisfazione, e molti inconvenienti per il contrario. L’amor proprio e le sregolate passioni ci accecano tanto che facilmente ci fanno credere e giudicare di una cosa, molto diversamente da quello che è realmente.
L’acqua per chi ha sete è la cosa più buona e più dolce del mondo, perché egli giudica secondo la sua disposizione; in simile maniera colui o colei che ha qualche passione viva, vede la cosa in modo differente da quello che è, e gli fa giudicare il contrario della verità. E siccome l’uomo conosce di non essere libero dalle affezioni terrene e di aver molte passioni vive, non deve fidarsi tanto facilmente del suo proprio giudizio, ma lo deve riguardare come un infermo e un nemico, per starne in guardia. Anzi non dobbiamo mai fidarci dei nostri giudizi personali, ma dobbiamo confonderci e umiliarci dicendo: Come? Io son tanto superbo che mi passino per la mente giudizi contro i superiori? Io che son venuto in religione per essere sottomesso, devo antepormi a quelli che mi presiedono? Io non sono venuto per comandare, né per reggere, né per governare, ma son venuto per ubbidire e per essere comandato, e di questo ho fatto voto. In questo modo noi possiamo riportare molto frutto di tutte le tentazioni, prendendo dalla nostra stessa superbia e vanagloria occasione di umiliarci di più.
Per non dar credito alle nostre ragioni e non far conto dei nostri giudizi, possiamo anche valerci di molte altre cose. Primo: perché i filosofi dicono comunemente che in tutte le cose è vera prudenza non fidarci della propria opinione, essendo primo principio di filosofia morale che nessuno è buon giudice in causa propria, poiché l’amor proprio accieca e fa vedere le cose diverse da quelle che sono. Così non conviene che ci fidiamo dei nostri giudizi, ma seguiamo invece i giudizi dei Superiori.
Secondo: può aiutarci a far poco conto dei nostri giudizi, l’immaginarci che noi consideriamo solo alcune ragioni personali che ci tornano bene, mentre i Superiori ne considerano molte altre che noi non sappiamo, né possiamo sapere. E benché, considerando solamente le nostre ragioni, sarebbe forse meglio quello che a noi viene bene, considerando, però tutte insieme le altre ragioni che i Superiori sanno, non è quello il meglio. Perciò è grande indiscrezione e superbia il mettersi a sentenziare e giudicare quello che ordina il Superiore per una o due ragioni che ci sembrano valide, alle quali i Superiori ne hanno delle altre da aggiungere per le quali conviene far altra cosa. S. Agostino porta a questo proposito una bella similitudine.
Nell’uomo, egli dice, l’anima vivifica tutto il corpo, ma nel capo solo risplendono i cinque sensi: il vedere, l’udire, l’odorare, il gustare e il toccare; nelle altre membra c’è il solo senso del tatto e perciò tutte le membra dipendono dal capo, ed esso sta sopra a tutto il corpo per reggerlo e governarlo. Così nei Superiori, come nel capo, risplendono tutti i cinque sensi, e in noi, come membri, ne risplende uno solo. Noi tocchiamo una sola ragione particolare e i Superiori le toccano tutte: odono, vedono, ecc. La ragione, dunque, vuole che i membri si sottomettono al capo e questo comandi e diriga.
In terzo luogo: sospendere il nostro giudizio e assoggettarci a quello dei Superiori, aiuterà non poco a considerare che i Superiori hanno di mira il bene di tutta la comunità e di tutto l’istituto, mentre noi, come individui particolari, teniamo gli occhi rivolti solamente alle nostre comodità, senza riflettere che il bene comune deve essere preferito al nostro proprio e privato.
Finalmente a non dar credito ai nostri giudizi, ci aiuterà anche grandemente l’esperienza che abbiamo di noi stessi. Quante volte, infatti, abbiamo stimate cose che abbiamo affermate per certe, mentre siamo state ingannate e abbiamo dovuto poi mutar giudizio e sentimento! Se una persona ci avesse già ingannato due o tre volte, ci fideremmo ancora di lei? No, certamente. E perché vorremo fidarci del nostro proprio giudizio, mentre sappiamo che ci ha ingannato già tante volte? Se noi, sorelle mie, cammineremo di questo passo, se faremo queste riflessioni, vedrete che non saremo così facili a formare giudizi contro i superiori e la santa ubbidienza, ma procederemo in tutto con somma maturità e prudenza, ubbidiremo con prontezza e facilità a chi ci comanda, senza tante ragioni e mormorazioni.
Che Dio ce lo conceda. Amen.