Eternita

 

L’ETERNITÀ

È parola infallibile dello Spirito Santo che non vi è cosa la quale valga a tenere tanto a freno le sregolate nostre passioni e farci camminare diritti sulla via dell’osservanza dei divini precetti e delle cristiane virtù, quanto la considerazione attenta delle massime eterne: «Memorare novissima tua et in aeternum non peccabis». In verità: chi è così insensato che, avendo dinanzi agli occhi le pene terribili che Dio tiene preparate nell’altra vita a quelli che non avranno voluto, in questa, approfittare della sua misericordia, possa vivere in modo da meritarsele? Nessuno certo. Anzi, atterriti da quella vista, adopereranno ogni sollecitudine, ogni diligenza per vivere bene da buoni cristiani, per esserne esentati.

Per questo S. Bernardo esortava con tutto il cuore i suoi monaci e anche ogni anima fedele a scendere col pensiero, di tanto in tanto, giù negli abissi dell’inferno a contemplarvi l’acerbità delle pene mentre erano ancora in vita, per non dovervi scendere dopo morte.

Non sarà, dunque, fuor di proposito, mie Suore, che ci portiamo oggi con la nostra immaginazione a vedere le orribili pene che giù nell’inferno subiscono i poveri dannati, coloro che in questo mondo se la passavano allegramente. Guai a chi li avesse toccati o avesse fatto loro un torto, una piccola ingiuria! Essi non volevano sapere né di prediche, né di avvisi, né di correzioni e non miravano che ad accontentare se stessi e le proprie passioni. A tal vista, noi potremo conoscere che con Dio non si scherza; che se Egli in questa vita aspetta con misericordia il pentimento dei traviati, nell’altra punisce, con severità e giustizia, gli ostinati nel male. Da questa meditazione, ne sono persuaso, prenderemo tutti maggior coraggio a vincere noi stessi, ad usare maggior diligenza, per non mancare in nulla, o a correggerci presto, se già in qualche modo abbiamo mancato.

Per non dilungarmi troppo, restringerò tutte le pene dell’inferno in una sola: l’eternità, perché, essendo questa la maggiore di tutte le pene, quella che tutte in sé comprende, essa sola è più che sufficiente a farci conoscere l’infelicissima situazione dei condannati.

Vedremo dunque che l’eternità, nell’inferno, è una pena spaventosissima, perché non ha misura, perché non ha mutamento, perché non ha paragone: tre punti che formano tutta la materia della nostra considerazione.

È articolo di fede che, come è senza fine la gloria che dà Iddio alle anime giuste, così è senza fine il castigo che dà ai malvagi all’inferno. Il motivo è che, dopo la morte, è finito il tempo e non è più possibile né meritare, né demeritare: come si muore, tali si resta per tutta l’eternità: i giusti sempre giusti, i malvagi sempre malvagi. Ora, Dio, giustissimo rimuneratore, non può non premiare e glorificare le anime dei giusti e non punire e castigare i cattivi. I buoni in cielo saranno sempre buoni per tutta l’eternità, perciò Dio per tutta l’eternità li premia e li glorifica; i cattivi, al contrario, nell’inferno saranno sempre soggiogati, per tutta l’eternità, dai loro vizi, quindi Dio per tutta l’eternità li punisce e li tormenta. A far cessare all’inferno il castigo, bisognerebbe che cessasse il peccato, ma il peccato permane, perché il dannato non potrà mai rivolgersi a Dio con un atto di contrizione e chiedergli perdono.

Anzi egli lo odierà e maledirà eternamente, quindi conviene che anche la pena sia sempiterna, altrimenti Dio non sarebbe giusto.

Posto ciò, considerate che vuol dire eternità di castigo. Essa è una pena terribilissima, perché non ha misura. Amplissimo è il giro della terra e l’altezza dei pianeti, ma tuttavia si possono misurare; profondo è il fondo del mare, ma si può scandagliare dagli esperti; ogni cosa, insomma, benché si chiami smisurata, si può sempre, in qualche modo, misurare. L’eternità sola non può misurarsi; tutte le misure immaginabili, applicate all’eternità, sono di essa infinitamente minori.

Anzi, osservate che ogni quantità, col detrarle qualche parte, resta minore; coll’accrescerla di qualche altra parte, diventa maggiore: se al sei, per esempio, aggiungiamo due, avremo otto; se all’otto sottraiamo tre, non ci resterà che cinque. All’eternità, invece, sottraete pure centomila anni, ma non si accorcia di un punto; aggiungete pure centomila secoli, non si allunga di un momento. La ragione è sempre la stessa: perché l’eternità è immobile, incommensurabile, incapace di accrescimento e di diminuzione. O eternità, «o sempre, o mai», infinitamente vasta, infinitamente alta, infinitamente profonda!

Sono finiti i lunghi pontificati di tanti Papi, ma l’eternità non ha fine. Sono finiti i regni dei greci, dei romani, dei goti, ma con quali anni si può computare l’eternità che non avrà fine? Sono terminate, dopo lunghissimi anni, le miserie del povero Giobbe, la cecità di Tobia, le persecuzioni di Davide; Giuseppe fu rinchiuso in una cisterna, ma poi ne uscì; Daniele fu gettato nella fossa dei leoni, ma poi ne fu sottratto; fu afflitta la Chiesa da fierissimi tiranni, ma poi ebbe pace. Tante guerre, pestilenze, carestie, terremoti, disgrazie, malattie di ogni genere finirono, ma l’eternità? L’eternità non finisce.

Immaginate pure che ogni cento milioni di secoli un’anima dannata sollevi il capo da quella prigione e con voce lamentevole dica all’angelo custode di quel carcere dolorosissimo: «Che ora è, Angelo del Signore?». Sentirà rispondersi: «Sempre, mai; mai, sempre». Ma quando uscirò da questo luogo di affanni, da queste fiamme divoratrici?

«Mai!». Quanto dovrò stare fra questi tormenti? «Sempre!» – «Sempre, mai»: labirinto che non ha uscita, tormento che sempre si rinnova. Come mai, mie Suore, stando noi pendenti sopra questo mare d’immensi ed eterni mali, possiamo vivere da spensierate, da capricciose e lasciarci dominare dall’accidia nell’operare il bene e nel soffrire il male?

Lo so che al presente speriamo tutti di essere in grazia, ma se non usiamo diligenza nel tenere a freno le nostre passioni, nel mortificare la nostra volontà, nel praticare la virtù costantemente, possiamo mancare da un momento all’altro, passare da un piccolo difetto ad un altro maggiore, fino a giungere a perderci eternamente.

Vigilanza, dunque, perché l’eternità non muta, l’eternità non varia. Nel mondo si susseguono tante vicende che, con la loro mutabilità, rendono la natura varia e piacevole. Si cambiano ogni anno le stagioni, il sole ora nasce ora tramonta, il cielo ora è nuvoloso, ora è sereno. Si innalzano edifici, altri si atterrano; i fiumi ora si ritirano, ora si allargano.

Alcune famiglie decadono, altre fioriscono; si mutano le persone e gli uffici; fra tante mutazioni di città, di poteri, di stagioni, «il sempre e il mai» non si mutano: l’eternità è sempre la stessa.

Il dannato, dove cadrà una volta non si alzerà né si muoverà più, ma ivi starà in eterno. Dopo mille anni, lì sarà: dopo centomila, lì sarà; dopo milioni di secoli, lì sarà; i suoi parenti, i suoi amici che rimangono in vita cambieranno casa, ed egli nel fuoco; si sposteranno, ed egli nel fuoco. Almeno di tanto in tanto gli fosse concesso qualche refrigerio, ma non potrà avere neppure questo. Sulla terra tutti gli uomini e tutte le bestie hanno tempi di riposo, gli stessi mali hanno qualche pausa, ma nell’eternità non vi è sollievo, né alleggerimento, né mutamento di sorta: sempre notte, mai giorno; sempre fuoco, mai refrigerio; sempre ardentissima sete, mai una goccia d’acqua. O eternità, senza misura e senza mutamento!

Ma c’è di più: l’eternità non ha paragone. Dove si possono trovare esempi e similitudini? Supponete che ad ogni milione di secoli venisse un uccello a prendere sulla spiaggia del mare un piccolissimo granello di arena e la portasse lontana. Dopo tanti milioni di secoli riuscirebbe a trasportarla tutta, ma passati tutti questi milioni di secoli l’inferno sarà da capo. Supponete che ogni milione di secoli esca dagli occhi di un dannato una sola lacrima e questa si conservi, finché quel meschino ne sparga tante che bastino a formare un fiume e anche un mare.

Quanti milioni e milioni di secoli dovranno passare prima di riempire di lacrime anche solo un piccolo bicchiere? Eppure verrebbe il tempo che sarebbe allagata tutta la terra, senza che sia diminuita una minima parte dell’eternità. O disperazione! O inferno!

Qual concetto faremo noi ora di tutte le cose di questo mondo, in paragone dell’eternità? Se una soddisfazione peccaminosa, che per lo più dura pochi momenti, si punisse con un milione di anni di fuoco, la sofferenza sarebbe lunga, ma finirebbe. Ma, dovendola purgare sempre e non avere mai il saldo, vale la pena, per un momentaneo diletto, andare incontro ad una eternità di castighi? Quale pazzia è mai, per un momento di capricciosa libertà, condannarsi ad un eterno patire! Per brevi momenti godere di una vanità o di una soddisfazione illecita, e andare poi, per sempre, con i demoni infernali! Per schivare un leggero incomodo, un po’ di fatica, un po’ di sofferenza che dovremmo patire per compiere come si conviene quell’opera buona, mettersi a rischio di dover fare una penitenza eterna?

Aggiungete che, quantunque l’eternità consti di secoli infiniti nei quali il dannato sarà sempre tormentato, tuttavia ogni tormento per l’infelice reprobo sarà un patire tutti insieme l’eternità. Interrogate infatti un’anima dannata caduta mezz’ora fa in quell’abisso e ditele: «Quanto hai patito finora?». E vi risponderà: «Ho patito e patisco l’eternità». «Come, riprendo io, hai tu sofferto l’eternità, quando non è ancora mezz’ora che sei nel fuoco?». «Sì, soggiunge l’anima sventurata, perché su questo poco tempo pesa tutta l’eternità. Tutta mi pesa, perché solo ora comprendo che in questo fuoco dovrò bruciare eternamente, perciò il futuro già mi tormenta come fosse presente».

È accaduto più volte, nel fare la meditazione sopra l’eternità, che una persona uscisse dall’orazione con la testa fra le mani e dicesse: «Mezz’ora di questo pensiero, mi causa molto mal di capo».

Che sarà, dunque, del povero dannato il quale vi penserà sempre, notte e giorno; fisserà sempre nel suo pensiero questa crudele domanda: «Mai uscire, mai finire, mai libertà, mai riposo? Dio sarà sempre con me sdegnato, la sua giustizia mai soddisfatta, il mio corpo sempre sensibile al dolore, i demoni sempre crudeli, il rimorso della coscienza sempre spietato».

Che dice il vostro cuore, o mie Sorelle? Come è articolo di fede che vi è l’eternità, così è articolo di fede che vi sono due eternità: quella dell’inferno e quella del paradiso. Una di queste due infallibilmente deve toccare anche a noi, ma quale ci toccherà? Quella del paradiso, io spero. Ma intanto, non vi pare che dobbiamo avere grande timore e toglierci dalla testa tanti capricci, tanti puntigli, tante pretese, tante invidie… ecc, che ci possono mettere a rischio dell’eternità dell’inferno? Se noi pensassimo spesso all’eternità, non avremmo tante esigenze, tanti contrasti tra noi; non ci perderemmo in nonnulla, in curiosità, in passatempi, nel fare giudizi sugli altri; saremmo assai più umili, più docili, più caritatevoli, più affabili nel trattare come nel parlare, saremmo più forti e coraggiosi nel dominare e vincere le nostre sregolate passioni, nel negare la nostra volontà, nel portare la croce in compagnia di Gesù, nel curare di più la solitudine, il silenzio e l’orazione; vivremmo, insomma, come conviene a persone religiose e vere seguaci del Crocifisso.

Che serve il non pensarci? Forse che, non pensandoci, non ci dovremo trovare alle soglie dell’eternità? Se fosse così, sarebbero stati stolti tanti e tanti santi che, per schivare l’eternità di pena, si condannarono volontariamente a vivere una vita stentata, penitente, mortificata. Ma no, essi l’indovinarono; siamo noi gli spensierati, gli stolti che speriamo di andare in cielo senza frenare le nostre passioni, senza contraddirci in niente, né scomodarci di un poco. Ciechi e insensati che noi siamo! Ma Dio non si burla; finché coltiveremo volontari difetti, il cielo non sarà nostro. Se i difetti sono gravi, l’inferno sarà per noi; se leggeri ci sarà dato il purgatorio, ma sempre fuoco sia nell’uno che nell’altro. Quando saremo tra quelle fiamme, che ci servirà l’esserci accontentati in tutto su questa terra? L’aver sfogata la nostra ira, vinto il nostro puntiglio, sostenuta la nostra ragione?

Dunque, siamo santamente furbe: pensiamo spesso all’eternità e impegnamoci a vincere noi stessi e ad operare il bene con diligenza e fervore. Amen.