Suore dell'Immacolata

Dolore peccati

 

Gesù fra i Dottori

Dal brano del Vangelo di S. Luca: 2, 42-46-48-49

  1. …Et cum factus esset annorum duodecim, ascendentibus illis secundum consuetudinem diei festi, consummatis diebus, cum redirent, remansit puer Jesus in Jerusalem, et non cognoverunt parentes eius…
  2. …Et factum est post triìduum invenerunt illum in tempio sedentem in medio doctorum, audientem illos et interrogantem eos…
  3. …Et videntes eum admirati sunt,et dixit Mater eius ad illum: «Fili, quid fecisti nobis sic? Ecce pater tuus et ego dolentes quaerebamus
  4. te». Et ait ad illos: «Quid est quod me . quaerebatis? Me sciebatis quia in his, quae Patris mei sunt, oportet me esse?».

DOLORE DEI PECCATI

Giunto all’età di dodici anni, Gesù andò a Gerusalemme con i suoi genitori, secondo l’uso, per la solennità della Pasqua. Compiuti i giorni della festa, essi ritornarono a Nazareth e il fanciullo Gesù restò in Gerusalemme, senza che Maria e Giuseppe se ne accorgessero. Credendo che Egli fosse con qualcuno della loro comitiva, essi fecero il cammino di una giornata e, giunti all’albergo ove solevano pernottare, accortisi di aver smarrito Gesù, si misero a cercarlo tra i parenti e gli amici e, non avendolo trovato, tornarono a Gerusalemme. Lo trovarono dopo tre giorni nel tempio, seduto in mezzo ai dottori, che ascoltava ed interrogava e restarono attoniti per lo stupore, tanto che Maria, sua Madre, gli disse: «Figlio, perché ci avete fatto questo? Ecco, vostro padre ed io, pieni di afflizione e di affanno, vi andavamo cercando». «Pater tuus et ego, dolentes, quaerebamus te» . Egli disse loro: «Perché mi cercavate? Non sapevate che è necessario che io sia occupato in ciò che riguarda il servizio di mio Padre?». Essi, però, non compresero ciò che Egli aveva loro detto. Partito con loro, Gesù tornò allora a Nazareth, dove stava ad essi soggetto – «et erat subditus illis» .

L’oggetto principale di questo tratto evangelico, come voi vedete, è l’acerbissimo dolore che provò la SS. Vergine nell’essersi accorta di aver smarrito il suo caro Gesù. Soffermiamoci pertanto, oggi, a fare un po’ di riflessione sopra questo dolore di Maria, per imparare il grande conto che si deve fare della grazia di Dio e quanto sia da compiangere la leggerezza di coloro che non esitano a perderla con il peccato mortale o a diminuirla anche con i soli loro quotidiani e volontari difetti.

Numerosi, come ben sapete, sono i dolori che provò Maria nel corso della sua vita mortale: particolarmente dolorosi furono quello provato nel vedere spirare sulla cima del Calvario, conficcato ad una croce fra due ladroni, il proprio Figlio e quello provato nell’abbracciare il freddo cadavere di Lui e nel vederlo deporre nel sepolcro. Questi dolori, però, benché acerbissimi, non le procurarono tanta amarezza quanto quello di cui intendiamo oggi parlare, cioè quello provato per lo smarrimento del fanciullo Gesù in Gerusalemme. Questo fatto veramente la toccò nel più vivo dell’animo e la riempì di tanto dolore che, non potendo contenerne la forza nell’intimo del cuore, suo malgrado uscì in quelle lamentevoli parole: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre ed io, immensamente addolorati e piangenti, ti andavamo cercando».

È convinzione comune dei santi Padri che, quanto più grande è l’amore con cui si ama un oggetto, altrettanto più dolorosa e crudele riesce la privazione dell’oggetto stesso. Chi sa dire la grandezza dell’amore con cui Maria amava suo Figlio Gesù? Sapeva bene Ella quale delizia di Paradiso fosse quel suo Figlio, perciò chi può esprimere ed immaginare l’amarezza dell’affanno da cui si sentì trafiggere il cuore quando si accorse di averlo smarrito?

Altri incontri, purtroppo amari, aveva già avuto Maria, ma in nessuno mai Ella aveva dato il benché minimo segno delle sue interne amarezze. Quando arriva, stanca per il viaggio, a Betlemme ed il suo fedele compagno, Giuseppe, non può trovare in tutta la cittadina neppure un albergo ove ricoverarsi per quella notte, è costretta a ritirarsi, fuori dell’abitato, in una misera capanna e dare alla luce il Re del cielo e della terra, il Salvatore del mondo, il Dio di ogni ricchezza nella più estrema miseria. Ella, però, non muove querele; tace e si rassegna ai divini voleri.

Quando Simeone, nel tempio, le predice le contraddizioni crudeli di cui sarebbe stato oggetto quel tenero Bambinello che Ella tanto amava, non apre bocca; si umilia e, pienamente, si rimette alle superne disposizioni del Cielo.

Quando appare l’Angelo in sogno a Giuseppe e gli intima di recarsi immediatamente con la sua Sposa ed il fanciullo Gesù in Egitto poiché l’empio Erode voleva farlo morire, senza esitare affatto Ella si alza dal letto, allestisce un piccolo fardello e, insieme allo sposo e al Bimbo, si mette in cammino. È notte buia, sconosciute le strade, lungo il viaggio, ma non importa; poiché il cielo comanda e si tratta di salvare la vita a Gesù, si deve andare, senza timore.

Che dire di più? Quando là, ai piedi della croce, vede l’amato suo Figlio, sommerso in un mare immenso di patimenti e di pene, spirare coperto di lividure e di obbrobrii, soffre e tace.

«Stantem lego, flentem non lego» – esclama il grande Arcivescovo di Milano, S. Ambrogio, parlando di Maria ai piedi della croce. «Leggo che assistette all’agonia del Figlio la sconsolatissima Madre, ma non leggo che in così replicati colpi e ferite, inflitti al suo Gesù, spargesse una lacrima, desse un sospiro o emettesse un lamento».

Quando, però, si accorge di aver smarrito Gesù a Gerusalemme, allora non sa più contenersi; allora piange, sospira, si affanna e: «Figlio – gli dice – ecco che, pieni di dolore, ti andavamo cercando». Maria sapeva quale delizia di Paradiso fosse Gesù e quanto fosse amabile; sapeva che perdere Lui significava perdere ogni bene, non essendo Egli un semplice uomo, ma il vero Dio. Temeva che si fosse allontanato da Lei per non averlo trattato come a Lui si conveniva, per avergli usata qualche irriverenza sebbene inavvertita, o per avergli mancato di rispetto, sebbene non volendo, o per avergli recato qualche involontario disgusto. Sapendo Ella che nessuna cosa poteva essere occulta al suo amato Gesù, Sapienza infinita, si rendeva conto che Egli non poteva ignorare alcuno dei suoi passi e che pertanto questo suo allontanamento non poteva essere un casuale smarrimento, bensì una volontaria partenza da Lei, un volontario privarla della sua troppo cara presenza. Temeva, quindi, che Egli non si lasciasse più ritrovare da Lei, di non essere più degna di possedere una gioia così preziosa. Chi può esprimere, o anche solo immaginare, l’immenso cordoglio che trafisse l’anima di Maria per tale smarrimento?

Quale confusione per tante anime trascurate che hanno smarrito volontariamente Gesù perché hanno perduto volontariamente la grazia con il peccato e non si danno alcuna premura di andarne in cerca con vivo dolore! Mentre si mostrano piene di sollecitudine per riparare alle perdite che si accorgono di aver fatto nelle cose temporali, sono poi l’indolenza personificata per riparare a quelle spirituali della grazia.

Quale stoltezza! Quale insensatezza! Esaù perde la primogenitura ed alza clamori e lamenti, a guisa di un leone colpito a morte. Kis perde le sue asine e spedisce subito Saul, suo figlio, alla loro ricerca. Il figlio prodigo perde le sostanze a lui assegnate dal padre e ne è inconsolabile. Il pastore perde una pecorella e, lasciando al sicuro l’intero armento, ne va in cerca per balzi e dirupi. La donna di cui parla il Vangelo perde una dramma, moneta da pochi soldi, e mette sottosopra tutta la casa, finché la ritrova. Invece molti perdono la grazia di Dio e vivono con tale indifferenza, con tale freddezza, che sembra non se ne diano la minima cura.

Ma da che deriva, mi domando, una così deplorevole stoltezza? Perdiamo dei miserabili beni di questa terra che, un giorno o l’altro, volenti o nolenti, dovremo lasciare, e siamo colpiti da tale dolore che non ci diamo pace finché non si sia adoperato ogni mezzo per riacquistarli e siamo poi così insensibili per la perdita della grazia e dei beni celesti? Se sapeste che cosa vuol dire perdere la grazia, cioè l’amicizia di Dio, voi piangereste lacrime di sangue. La lontananza da Dio è la maggior pena che affligge le anime del Purgatorio e la perdita di Dio è il maggior tormento dei dannati nell’inferno; e noi potremo essere così indifferenti per una perdita tanto incalcolabile?

La divina grazia è il maggior bene che possa desiderare un cristiano. Essa è la partecipazione alla stessa divina natura per cui un’anima giusta, un’anima in grazia, viene fatta partecipe, per usare la frase di S. Paolo, della stessa natura di Dio. Ora, il perdere questa grazia, questa divina amicizia è come divenire nemico di Dio e di tutta la corte celeste, divenire schiavo del demonio ed erede dei suoi eterni supplizi. Vi pare questa una cosa tanto poco importante da non farne caso?

È vero che talvolta il Signore si allontana anche dalle anime giuste privandole delle sue spirituali dolcezze e lasciandole in aridità e desolazione di spirito per mettere alla prova la loro virtù ed esercitare la loro pazienza, per rendere stabile la loro umiltà, riaccendere la loro fede e i loro desideri, ma queste non perdono Dio e la sua amicizia; perdono soltanto il Dio delle consolazioni, non già il Dio della santità e della perfezione, per esprimerci con la frase di S. Francesco di Sales. Le anime peccatrici, invece, perdono Dio realmente perché Egli si separa veramente da loro, non potendo stare insieme col demonio.

Lo so che vi sono peccati così enormi che non possono entrare nelle anime senza che esse se ne avvedano, ma so ancora che ve ne sono tanti altri i quali, benché per loro natura veniali, diventano facilmente mortali per le circostanze che li accompagnano.

Se, ad esempio, una religiosa si allontana dall’ubbidienza dei suoi Superiori ed opera a proprio capriccio, ciò potrà essere solo peccato veniale, ma se con questa sua continua disobbedienza e capriccioso operare porta il turbamento in Comunità, genera disunioni, suscita fazioni, causa discordie, fomenta astio e rancore e impedisce il maggior bene, ciò potrà diventare colpa grave e privarla della grazia di Dio.

Il giudicare fra peccato veniale e mortale, dice S. Agostino, è cosa difficile. Supponiamo che i nostri difetti siano solo colpe leggere e non ci rechino sempre un grande danno, però, anche se non ci privano totalmente della grazia divina, senz’altro ce la diminuiscono e rendono l’anima nostra meno gradita al Signore. Se, dunque, siamo coscienti di aver perduta la divina amicizia col peccato grave o di esserci private del suo aumento a causa del peccato veniale, procuriamo di riparare subito alle nostre perdite! Cerchiamo Gesù nel Sacramento della Penitenza, ma cerchiamolo con il grande dolore di averlo smarrito, altrimenti non riusciremo a ritrovarlo. Come è necessaria ed essenziale l’acqua naturale per il Battesimo e il pane, cioè l’ostia, per l’Eucaristia, così è necessario, per ritornare a Gesù in modo essenziale, il dolore nel sacramento della Penitenza, anche se si avessero da confessare soltanto colpe veniali.

Nessuna cosa può supplire alla mancanza di dolore.

Se, dopo un diligente esame, il penitente si dimenticherà di accusarsi di qualche colpa anche grave, con la contrizione potrà compensare tale mancanza e ottenere ugualmente il perdono da Dio, ma anche la più minuta ed esatta accusa dei peccati non può mai sostituire la mancanza di dolore. Insomma; è tanto necessario il dolore nella Confessione che se uno credesse di averlo e in realtà non l’avesse, ricevendo la santa assoluzione sarebbe scusato dal sacrilegio per la sua buona fede, ma se ne ritornerebbe a casa con i suoi peccati. Il dolore deve essere il primo fra tutti gli atti del penitente. Chi, perciò, non ha dolore per le colpe commesse, non può averne il perdono. Gesù vuole essere cercato con dolore: «dolentes quaerebamus te» .

Il dolore, poi, deve essere soprannaturale nel suo principio e nel suo motivo: nel suo principio, in quanto dobbiamo domandarlo a Dio, e nel suo motivo in quanto non dobbiamo pentirci del peccato per le temporali disavventure che esso può averci recato, ma solo per l’offesa che si è fatta a Dio, per la perdita del bene del Paradiso e per la pena che si è meritata nell’inferno.

Il dolore, quando è vero, deve produrre tre effetti nell’anima: 1) Dolore, odio e disprezzo per la colpa commessa; 2) dispiacere e disgusto per l’ingiuria recata a Dio; 3) volontà risoluta di osservare la sua legge in avvenire. Con ciò l’anima si distacca dalle creature, ritorna in grazia e si unisce nuovamente con Dio.

Mie dilettissime, possiamo noi dire di aver sempre cercato in tale modo lo smarrito Gesù? Abbiamo noi avuto sempre un vero e soprannaturale dolore nell’accostarci al divino tribunale? Se così è, lodiamo pure il Dio delle misericordie, ma se così non fosse, che dovremmo fare? Imparare da Maria e Giuseppe a cercare Gesù con dolore sincero: «dolentes quaerebamus te». Allora troveremo anche noi Gesù e ne godremo la dolce compagnia in questo mondo, come la godette, dopo tre giorni, la Santa Vergine Maria.

Come la madre del giovanetto Tobia si lamentava con il marito perché il figlio ritardava a far ritorno da Rages dove l’aveva mandato suo padre per i propri affari, così immagino che Maria si sia lamentata dolcemente con Giuseppe perché aveva permesso che Gesù si allontanasse da lui e che Giuseppe, a sua volta, si sia lamentato con Maria perché non l’aveva tenuto sempre con sé, mentre andava ripetendo le parole di Gesù stesso sulla croce al Padre: «Perché mi hai abbandonato, Figlio mio caro, amabilissimo Bene?».

«Penso che voi non vogliate certo sospettare – dice il Ven.le Beda – che Maria e Giuseppe avessero in questa perdita, che fecero di Gesù, la benché minima colpa, perché è indubitato che ne ebbero tutta la cura e che compirono tutti i loro doveri di buoni genitori». Se lasciarono passare un intero giorno prima di farne ricerca, questo fu «rispondono gli interpreti – perché Maria credeva che Egli fosse con Giuseppe e Giuseppe, viceversa, credeva che fosse con Maria o con qualche altro della loro comitiva. Questa loro speranza era un motivo assai ragionevole per tranquillizzarsi, perché era abitudine, presso gli ebrei, che i figli stessero nel tempio con i genitori e scegliessero di andare indifferentemente con il padre o con la madre, essendo prescritto che gli uomini fossero separati dalle donne.

Inoltre, essendo Maria di cuore molto tenero e tutta carità, godeva che altri ancora avessero in loro compagnia Gesù e potessero godere della sua amabile presenza, che anch’essi se lo stringessero dolcemente al cuore e potessero loro pure fargli carezze e stampargli baci in volto. Questo è il motivo per cui Maria si persuase che Gesù fosse, come dice il sacro testo, in compagnia dei suoi parenti e amici che, da Gerusalemme, tornavano alle loro case. Giunti però che furono alla sera all’albergo dove solevano pernottare, accorgendosi che Gesù non c’era, da quale crudo dolore fu allora oppresso il loro cuore! Non ebbero più pace e, senza riguardo né per il bisogno che sentivano di ristorarsi, né per la stanchezza del viaggio fatto, si misero subito a ricercarlo con ogni sollecitudine tra i congiunti e gli amici e, non riuscendo la dolentissima Madre a ritrovarlo, avrebbe voluto subito riprendere il cammino e tornare a Gerusalemme a cercarlo, se Giuseppe, con molte buone ragioni, non l’avesse convinta a riposare lì durante la notte. Al mattino, appena fatto giorno, Maria si rimise tosto in viaggio col suo fedele Compagno piena di affanno e non si quietò finché non trovò Gesù nel tempio in mezzo ai dottori: «Dolentes quaerebamus te».

Mie dilettissime, Gesù lo perdiamo ogni qualvolta cadiamo in peccato mortale, perché volontariamente perdiamo la sua grazia. Ora, con quale dolore cerchiamo poi di ritrovarlo? Con quale amore e santo timore custodiamo la grazia di Dio per avere sempre Gesù con noi e goderne la dolce compagnia?

Amen.