DISPOSIZIONI PER CONFESSARSI BENE
Per ricevere bene il Sacramento della Penitenza s’incontrano grandi difficoltà: difficoltà che nascono e da parte di Dio, per la grazia grande che ci deve concedere nell’accordarci il perdono dei nostri peccati, la quale grazia, Dio non ci concede così facilmente, se noi non ci disponiamo a riceverla con opere virtuose; e da parte del Confessore, nello sceglierlo adatto a noi, che valga ad allontanarci dal male non solo, ma a spronarci anche sulla via della virtù; e da parte di noi stesse per le disposizioni che dobbiamo avere, per ricevere degnamente la santa assoluzione.
Sapete quali sono queste disposizioni necessarie per una buona confessione? Secondo la dottrina di S. Gregorio papa, abbracciata poi dal Concilio di Trento, le principali sono tre: la contrizione del cuore, la confessione della bocca, la soddisfazione delle opere. In queste disposizioni appare mirabilmente come la divina Giustizia ha voluto che il peccatore le dia qualche piccolo compenso dei suoi peccati, nell’atto stesso che la divina misericordia gliene accorda un ampio e generoso perdono. Queste tre disposizioni sono direttamente opposte a tre disordini che in sé contiene il peccato.
Il primo disordine è quello di recar disgusto a Dio, allontanandoci da Lui per seguire le nostre passioni, questo disordine si compensa con la contrizione del cuore, per cui l’anima peccatrice si rivolge al suo Dio abbandonato, piange e detesta i suoi peccati, comincia di nuovo ad amarlo davvero, risoluta di non disgustarlo mai più.
Il secondo disordine è l’amore disordinato alle creature, o a se stesso; o interiormente col cuore, o esteriormente con le opere; si preferisce il proprio, o l’altrui piacere a Dio stesso, offendendolo per contentare se stessi od altri. Questo disordine viene compensato con la confessione della bocca: accusandosi, il peccatore, e confessando di avere sbagliato, nella stima e nella preferenza che fece d’una vile creatura al sommo ed infinito bene, che è Dio.
Il terzo disordine è la falsa e stolta persuasione di trovare la propria felicità nel godimento delle creature e nel contentare i propri sensi e la propria volontà: questo disordine viene riparato con la soddisfazione delle opere, in virtù della quale l’anima distacca il proprio cuore dalle creature e castiga in se stessa, con opere di penitenze, i disgusti recati a Dio nell’assecon-dare le sue cattive inclinazioni.
Conviene dunque ragionare su queste disposizioni per bene apprenderla, per poterle ben praticare. Questa sera cominciamo dalla contrizione del cuore ed in seguito parleremo della confessione della bocca e della soddisfazione delle opere.
La contrizione del cuore, ch’è la prima disposizione, come dicemmo, necessariamente richiesta e indispensabile per una buona confessione, il Concilio di Trento la definisce un dolore dell’anima, un dispiacere, una detestazione, un aborrimento dei peccati commessi con proponimento di non commetterne mai più. La contrizione del cuore abbraccia anche l’esame di coscienza, perché non si può odiare e detestare una cosa che non si conosce, e non può conoscersi senza seriamente pensarci, tanto più se è già passato del tempo da quando si è detta, fatta, pensata o commessa. L’esame di coscienza, è una particolare inquisizione del nostro interno, una ricerca diligente di tutti i pensieri, parole, opere ed omissioni contrarie alla legge di Dio e alla condizione del nostro stato, al fine di detestarle con cuore contrito e umiliato ai piedi del confessore. Quando noi, dunque, stiamo per confessarci, dopo aver pregato istantemente e fervorosamente il Signore, perché si degni di farci conoscere bene le nostre mancanze, come ce le farà conoscere in punto di morte, e di darcene un vero dolore; prima di tutto, rientrati in noi stessi, dobbiamo richiamare alla mente come ci siamo serviti dei nostri sensi, come abbiamo custoditi i nostri occhi, perché non guardassero oggetti pericolosi; come abbiamo custodita la lingua, perché non si sciogliesse in mormorazioni e in parole offensive e frizzanti contro alcuno del nostro prossimo, o se l’abbiamo usata per fare discorsi inutili o disdicevoli alla nostra condizione; come abbiamo custodite le nostre orecchie, perché non udissero notizie curiose o rapporti sui fatti altrui.
Dobbiamo richiamare alla mente come ci siamo serviti delle potenze dell’anima: se abbiamo occupato l’intelletto in fare sospetti e giudizi temerari, nel palare di questo o di quello, in concepire pensieri di propria stima, di vanità, di alterigia, di grandezza e di che so io, cose tutte contrarie allo spirito religioso; se in formare immaginazioni e fantasie contrarie alla santa purità ed alla carità cristiana; dobbiamo vedere come abbiamo usato della volontà, se l’abbiamo impiegata in nutrire odi e rancori, gelosie e antipatie contro coloro che in qualunque modo ci abbiano contraddetto; se in desiderare vendette e soddisfazione di offese ricevute; se in amare dicerie, disunioni o partiti che questa maledetta parzialità e queste particolari amicizie suscitano fra noi.
Dobbiamo vedere quale uso abbiamo fatto della memoria, se ce ne siamo serviti per ricordarci e tener ben fissi in mente i torti ricevuti, le parole sgarbate che ci furono dette, i trattamenti spiacevoli che ci furono usati, per averli sempre presenti anche nel tempo dell’orazione e per studiare il modo di vendicarci. Dobbiamo richiamare alla mente come ci siamo serviti del tempo, se l’abbiamo lasciato passare inutilmente, o in dissipazioni, anziché impiegarlo tutto a servizio di Dio e a profitto dell’anima. Come abbiamo usato delle cognizioni, dei lumi, delle divine ispirazioni e di tutte le grazie che Dio ci ha fatto e con quale corrispondenza, con quale amore abbiamo noi risposto a tali benefici.
Come abbiamo noi osservati i precetti, seguiti i consigli, imitati gli ammirevoli esempi di questo Dio sì benefico; quale carità abbiamo avuto tra di noi nel sopportarci pazientemente l’un l’altra e compatirci a vicenda nelle proprie debolezze; quale ubbidienza e rispetto usammo verso i Superiori; quale umiltà abbiamo fatto trasparire in tutte le nostre azioni, nel portamento e nelle parole; quale amore portiamo alla santa povertà e quale distacco totale alle cose caduche di questo mondo.
Quale impegno e premura adoperiamo per procurarci i tesori ineffabili dell’amore di Dio: prima di accostarci al tribunale della penitenza dobbiamo passare in rassegna tutti i pensieri, le parole, le opere che facemmo dall’ultima confessione ben fatta fino al presente; le omissioni che facemmo negli obblighi del nostro stato ed accusare tutto con diligenza: trasgressioni, dissipazioni, abusi.
Questa diligente ricerca di tutte le nostre mancanze è necessaria non solo per potercene accusare interamente in confessione, non potendo manifestare ciò che non si conosce, ma anche, come dicevo, per poterci eccitare a quel dolore che è la prima disposizione indispensabile per una buona confessione e senza del quale le nostre confessioni sarebbero mille e forse anche sacrileghe.
Infatti quando è che la Maddalena si risolse a piangere e detestare i suoi peccati? Quando, dice l’Evangelista S. Luca, rientrata in se stessa, conobbe il pessimo stato dell’anima sua e l’enormità delle offese fatte a Dio: fu allora che, abbandonata la sregolata sua vita, andò a gettarsi tutta confusa, ai piedi di Gesù Cristo, in casa di Simone il fariseo e pianse sì largamente da lavare con le sue lacrime quei santissimi piedi, e di lì cominciò quel tenor di vita così rigido e penitenze, che la elevò poi a quella santità che voi sapete. S. Pietro, quando si pentì veramente di cuore del torto che aveva fatto al suo divino Maestro la sera innanzi della sua morte? Quando, per timore d’esser fatto morire anche lui, se avesse detto la verità, giurò alla fantesca, che l’interrogava, di non avere a che fare nulla con Gesù Nazareno, anzi di non conoscerlo nemmeno. Quando, ad un’amorevole occhiata che gli rivolse il suo buon Gesù, conobbe la sua enorme ingratitudine e infedeltà.
E la nostra S. Caterina da Genova, quando esclamò per eccessivo dolore, che le penetrava l’anima sì vivamente da farla quasi morire: Amor mio, mai più, mai più peccati? Quando, andata a confessarsi nella Chiesa di Nostra Signora delle Grazie, mentre inginocchiata al confessionale, stava aspettando il confessore, penetrata da un raggio di luce superna, vide la bruttezza delle minime sue mancanze, benché, come dice ella stessa, avesse solo peccati veniali, a confronto della santità di Dio: fu allora che, risolvendo di lasciar quella vita tiepida e dissipata, che già conduceva da cinque anni, gettò le fondamenta di quella eccelsa perfezione che la collocò tra i serafini del Paradiso.
Se noi, dunque, dopo tante confessioni, siamo sempre gli stessi, vuol dire che non ci pentiamo davvero dei nostri peccati, che non ne concepiamo mai quella viva contrizione di cuore, che è la parte essenziale del sacramento; che non ci eccitiamo mai a questa viva contrizione di cuore, perché mai esaminiamo bene la nostra coscienza. Contenti di dare un’occhiata così di volo alle mancanze più grosse e che più saltano agli occhi, non ci curiamo d’altro: non esaminiamo né il numero né la malizia, non riflettiamo se siano abitudini o malvagie inclinazioni, oppure semplicemente cose in cui si sia mancato qualche volta soltanto e non più; non teniamo conto se abbiamo messo in pratica i mezzi che ci furono suggeriti dal confessore, per emendarci dai difetti; non consideriamo la santità con cui siamo obbligati a vivere nel nostro stato, e che, non notificando le proprie passioni, non conducendo una vita veramente virtuosa, umile, paziente, mortificata, ci rendiamo colpevoli dinanzi a Dio di una enorme mostruosa ingratitudine e di un grande abuso della divina misericordia. Anzi, non facendo bene l’esame, si viene talvolta a cadere nella fatale cecità di credersi persone dabbene, mentre in realtà non lo siamo, e la coscienza non bene esaminata ci parrà pura e monda, mentre invece innanzi a Dio sarà colpevole.
Qual meraviglia poi se noi troviamo difficoltà a procurarci un vero dolore dei nostri peccati? Il motivo è, perché non facciamo un buon esame, non consideriamo l’ingiustizia fatta a Dio, degno di ogni amore; i beni ineffabili e celesti, di cui ci siamo privati col peccato, le pene indicibili che ci siamo meritate col peccato, e perciò si piange poco un male, che è l’unico vero male, perché poco si conosce. Eppure la contrizione del cuore, il pentimento delle proprie colpe è la condizione essenziale per l’efficacia del sacramento della Penitenza; ed è di tale e tanta necessità che senza di essa è impossibile ottenere il perdono delle proprie mancanze, riacquistare la grazia perduta, rimetterci in amicizia con Dio: nisi paenitentiam egeritis , dice Gesù Cristo in S. Luca, omnes similiter peribitis . Questa penitenza, senza cui è impossibile, per chi ha peccato, potersi salvare, non consiste già come insegnano i Santi Padri, i Concili Ecumenici e tutta la Chiesa Cattolica, in macerarsi il corpo con austerità e digiuni, in battersi il petto e versare lagrime, in recitare a fior di labbra la formula dell’atto di contrizione, perché potrebbe rimbombare il petto, ma il cuore restar duro ed inflessibile. Esso consiste principalmente nel dolore del cuore, nel pentimento, nell’odio al peccato, cioè, in un atto della volontà, la quale, conoscendo il gran male che ha fatto offendendo il suo Dio, odia, aborrisce, detesta il suo peccato, risoluta di non farlo più in avvenire a qualunque costo, perché essendo il cuore e la volontà quella con cui si commette ogni sorta di male (come dice Gesù stesso: dal cuore escono ì mali pensieri, gli omicidi, gli adulteri, le false testimonianze, l’invidia, le bestemmie, ecc.) così è anche il cuore e la volontà che deve odiare, detestare, condannare il male che ha fatto e rivolgersi nuovamente al suo Dio.
Ho detto che la contrizione del cuore è la parte essenziale del sacramento della Penitenza perché, quantunque, come accennai da principio, le parti di questo sacramento, secondo l’insegnamento della Chiesa siano tre: contrizione del cuore, confessione della bocca, soddisfazione di opere, la contrizione però è la parte principale. Questa è necessaria di necessità di mezzo, che vuol dire che l’anima peccatrice non può supplire al suo difetto con nessun altro mezzo, per ottenere salute. Invece la confessione della bocca e la soddisfazione delle opere sono necessarie di necessità di precetto, in quanto che sono comandate e, se per caso non si potessero fare, si può supplire in altro modo. Mi spiego con un esempio. Il Battesimo di acqua, per un adulto che sa e conosce quello che fa, è necessario sì, ma solamente di necessità di precetto, perché non potendolo ricevere, può supplirvi e salvarsi lo stesso col battesimo di desiderio; in un bambino invece è necessario di necessità di mezzo, senza questo non potrà mai salvarsi, perché non è capace di avere il Battesimo di desiderio. Così appunto sono le due parti della penitenza, confessione e soddisfazione. Noi siamo tenuti, è vero, ad accusarci di tutti i peccati e ad accettare ed eseguire le penitenze imposte, ma per sola necessità di precetto, perché, per la contrizione, possiamo ottenere il perdono dei nostri peccati e rimetterci in grazia anche se, per mancanza di confessore o per qualche altro legittimo impedimento, come in caso di gravissima malattia, o per svenimento, o per la perdita della parola, non possiamo confessare i nostri peccati, né accettare e fare alcuna penitenza. Perciò se nella confessione manca il dolore, tutto il resto serve a niente; senza dolore la confessione è invalida, ed è anche sacrilega se conosciamo di non aver dolore e tuttavia riceviamo la santa assoluzione.
Prima dunque, di presentarci al confessore, prostriamoci al trono della divina misericordia, formuliamo con umiltà di spirito e sincerità di cuore, un atto di vero dolore e, col suo aiuto, procuriamo di eccitarlo in noi più che sia possibile, riflettendo ai motivi che la fede a questo fine ci presenta, quali sono, come sapete, la bontà di Dio offeso, il Paradiso perduto, l’inferno meritato e la bruttezza del male che si è commesso.
Fino a che non sentirete il vostro cuore spezzato da questo pentimento interno, dall’aborrimento così necessario della colpa, dal dispiacere d’aver fatto tanta ingiuria a Dio che non si meritava d’esser offeso e disgustato da noi, state lontane dal confessionale, perché non fareste una confessione, ma una confusione, non ricevereste un sacramento, ma fareste un sacrilegio. Dove non è pentimento non è salute e vita, ma dannazione e morte.
Io non voglio però dire con questo che prima di presentarvi al Confessore a ricevere la santa assoluzione debba il vostro dolore essere così sensibile da farvi piangere a dirotto i vostri peccati: no. So bene che questo dolore sensibile e queste lagrime, quantunque siano buone e desiderabili, specialmente quando sono accompagnate da un sincero pentimento interno del cuore, non sono più necessarie. Basta che abbiate un dolore che sia ragionevole, un interno dispiacere d’aver offeso Dio con i vostri peccati, e che il cuore pianga internamente, quantunque esternamente non piangano gli occhi. E sapete quando potete giudicare di avere questo dolore, tanto necessario? Quando, dice S. Agostino, il dispiacere d’aver offeso Dio, vi cagionerà tanta amarezza e cordoglio al vostro spirito, quanto infame piacere vi procurò il peccato; quando, riprende S. Gregorio, concepirete tanto odio contro il vizio, quanto prima gli portavate amore; quando, soggiunge S. Bernardo, considerando il peccato come il maggiore d’ogni male che vi potesse accadere, proverete contro lo stesso quell’aborrimento e orrore che provereste contro un basilisco, un serpente che vi volessero avvelenare. Se un basilisco, un serpente vi si avvolgessero intorno, ditemi, che orrore ne concepireste mai? Che dispiacere, che spavento! Non cerchereste di scuoter-veli da dosso con tutta prontezza? Non li fuggireste con ogni premura? Orbene, questo stesso è l’aborrimento, l’orrore con cui si deve riguardare il peccato che avvelenò le anime nostre, e questa stessa la premura con cui dobbiamo scacciarlo dal nostro cuore e starne sempre lontani.
Quando finalmente alla vostra confessione, vedrete seguire l’emendazione della vita, non tornerete sì facilmente a cadere in quel difetto che avete accusato, né in qualunque altro, allora potrete giudicare che il vostro dolore è sincero, perché accompagnato da fermo, universale ed efficace proponimento di non più offendere Dio, in nessun modo ed a qualunque costo, se vogliamo che la nostra confessione sia ben fatta.
Se poi, mi chiederete come dovete fare a procurarvi questo dolore, vi dirò che prima di tutto dobbiamo domandarlo a Dio, senza il cui aiuto da noi stessi non siamo capaci di fare neppure un buon pensiero; dopo ciò considerare che si è offeso un Dio che poteva subito fulminarci con la sua giustizia; sprofondarci negli eterni abissi e non l’ha fatto. Ha protratto il castigo perché facessimo penitenza, ci aspettò tanto tempo: ci invitò, ci pregò, perché abbandonando ogni disordine, ci rivolgessimo interamente a Lui.
E il dolore d’aver offeso un Dio sì munifico con noi, sì benigno, sì dolce, sì amoroso non basta a spezzarci il cuore? Di più. Noi peccando abbiamo oltraggiato un Dio che non ci ha fatto che bene. Senza alcun nostro merito Egli ci ha amati da tutta l’eternità, ci ha creati dal nulla e perché ce ne servissimo, ha formato tante belle creature, e ci ha ricolmati di tanti benefici che non potremmo bramare di più. Non basta. Egli stesso è sceso dal Cielo in terra, facendosi uomo; ha patito pene e tormenti di ogni genere; ha versato tutto il suo purissimo sangue ed è morto in croce, perché noi non andassimo eternamente perduti. Di più, noi sappiamo, per testimonianza di S. Paolo, che coi nostri peccati, peggiori dei Giudei, torniamo a crocifiggere questo amabilissimo Figlio di Dio, a ricalcare questi chiodi, a rinnovar queste piaghe: si potrà non piangere un sì crudele eccesso? Inoltre, se tutto questo non basta a risvegliarvi nel cuore un sincero dolore delle vostre colpe, aprite sotto i vostri occhi quel bel Paradiso, pieno di tante delizie che Dio ha procurato ai suoi servi fedeli. Spalancatevi dinanzi quell’Inferno di tormenti e di pene che Dio ha destinato ai suoi nemici e ribelli; e la durezza del nostro cuore finalmente si spezzerà e darà lacrime di penitenza. Che se ancor resistesse, allora con tutta l’umiltà e la confidenza a voi possibile, gettatevi ai piedi di un Crocifisso e supplicatelo istantemente che, per la sua infinita misericordia e per i meriti della sua santissima passione e morte, e per il sangue, che versò per l’anima nostra, vi infranga il cuore e vi dia Egli quel dolore a cui non potete in nessun modo eccitarvi.
Interponetevi ancora il patrocinio della Beatissima Vergine, degli Angeli vostri Custodi, dei santi vostri protettori e vedrete che il buon Signore farà Lui quello che non potete fare voi e vi concederà il necessario dolore ed una buona confessione: che io vi desidero. Amen,