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Le circostanze di una vocazione

Se si osserva una carta geografica, si vede a colpo d’occhio che Bargone è un piccolo paese che dista da Genova poco più di cinquanta chilometri. Se oggi un ragazzo di questo villaggio dovesse frequentare l’università nella città della lanterna, è assai probabile che lo faccia da pendolare, magari alla guida di un’utilitaria avuta in dono dai genitori.  In ogni caso l’esperienza di uscire dal paese per gli studi non sarebbe una novità traumatica, certamente già si è mosso per le scuole medie e per le superiori. Ed il clima culturale, respirato soprattutto attraverso i mass media, non sarebbe molto diverso da Bargone a Genova.

Due secoli fa l’esperienza vissuta dallo studente fuori sede Agostino Roscelli è stata ben diversa. A quel tempo affrontare cinquantaquattro chilometri con una carrozza a cavalli era un autentico “viaggio”, probabilmente senza insidie, comunque faticoso. Soprattutto il passaggio da un borgo di collina, popolato da poche famiglie, ad una città avviata in quel periodo a rapide e tumultuose trasformazioni urbanistiche e sociali non deve essere stato facile. Non solo per la lontananza dagli affetti famigliari, dagli amici, dall’orizzonte in cui fino a quel momento era vissuto, ma per l’oggettiva impreparazione ad affrontare un mondo per lui del tutto sconosciuto.

A noi che nel XXI secolo siamo ormai abituati ad un mondo globalizzato, nel quale le distanze geografiche e culturali sono di fatto eliminate, colpisce che un adolescente del XIX secolo abbia lasciato il caldo e rassicurante ambiente del paesello natio per affrontare l’avventura della città senza reti di protezione, potendo confidare solo sul proprio senso di responsabilità e sul forte desiderio di verificare una vocazione manifestatasi attraverso numerose circostanze.

Ha, infatti, solo diciassette anni quando, nell’autunno del 1835, Agostino Roscelli arriva a Genova per completare quegli studi che lo porteranno a diventare sacerdote. In mano ha solo l’indirizzo di una lontana parente che abita in Salita del Prione, un’arteria del centro storico che congiunge Porta Soprana, fra le più antiche della città, con Piazza delle Erbe, a ridosso del Palazzo Ducale, oggi teatro della movida genovese. Il giovane Agostino abita quindi nel cuore della città, poco distante anche dalla casa natale della maggior gloria genovese, Cristoforo Colombo. Agostino ha solo quell’indirizzo e nel cuore la volontà di verificare se quell’ideale intravisto a Bargone può diventare la scelta definitiva della sua vita.

Quasi tutti coloro che si sono occupati della sua biografia hanno indugiato sul senso di smarrimento che lui, ragazzo cresciuto in campagna, deve aver provato a contatto con la grande e frenetica città portuale. Il carattere timido, la corporatura smilza, quell’aria schiva e riservata che traspare da una rara fotografia dei primi anni di sacerdozio, tutto questo ha portato a ritenerlo in affanno nell’impatto con Genova. Senza negare le oggettive difficoltà (anche oggi uno studente fuori sede ha bisogno di un periodo di ambientamento nella città che lo ospita), non si può certo ritenere che Agostino viva nel capoluogo ligure come un pesce fuor d’acqua. Tutta la sua successiva biografia ci documenta che è tutt’altro che un uomo impaurito dalla vita, anche quando questa si presenta gravida di contraddizioni.

Il ragazzo è a Genova per completare quegli studi che potranno aprirgli le porte del corso di teologia in seminario necessario per essere ordinato prete. E certamente questo obiettivo è la bussola che lo guida nell’affrontare le piccole e grandi difficoltà che il trasferimento in città gli ha fatto incontrare.

Il valore delle circostanze

Si può facilmente immaginare che, nei mesi del suo soggiorno nel capoluogo ligure, Agostino vada spesso con la memoria a ripercorrere quei fatti e quelle circostanze che lo hanno portato fin lì. Chi l’avrebbe mai detto che il figlio di Domenico e Maria, il ragazzo che portava al pascolo il gregge paterno, sarebbe finito a Genova per studiare da sacerdote? Quanti – aggiungiamo noi – fra i suoi compaesani avrebbero potuto immaginare che quel ragazzo avrebbe lasciato, attraverso una vita esemplare da testimone della misericordia divina, un segno tanto indelebile a Genova che ha portato la Chiesa a riconoscerne la santità?

Lo stesso Agostino Roscelli, una volta diventato maestro di vita cristiana, avrà occasione di proporre ai suoi ascoltatori questa riflessione sul valore delle circostanze: «Nella vita di ognuno, di ciascun uomo, Iddio vede, come ci insegnano le scuole, innumerevoli concatenazioni e serie di avvenimenti, le quali come tante strade maestre conducono altre direttamente alla gloria ed altre direttamente alla perdizione: vias vitae e vias mortis (geremia).  Ora che l’uomo si incammini piuttosto per una di queste strade che per un’altra, dipenderà talora da cose piccolissime: udire o no una predica, leggere o non leggere un libro, profittare o non fare alcun conto di quella ammonizione che vi viene data o fatta caritatevolmente di quel difetto, il far silenzio o non farlo in quella circostanza, andare o non andare a fare quella visita, può essere quello che ci incammini al cielo o all’inferno. Ho detto che ci incammini, perché vedete non dipenderà la nostra salvezza immediatamente da tali cosette, ma ne dipenderà remotamente».

Un pastorello felice

L’avventura umana di Agostino Roscelli comincia a Bargone, frazione montana di Casarza Ligure, il 27 luglio 1818. È l’ottavo figlio di Domenico e Maria Gianelli, uniti in matrimonio dal 28 agosto 1798. Dei fratelli che lo hanno preceduto, solo tre sono giunti alla vita adulta, Domenico Andrea, Tommasina e Virginia, gli altri, come succedeva spesso a quel tempo, sono morti prematuramente. Il piccolo, forse perché si presenta gracile, viene battezzato il giorno stesso in casa; poco più di un mese dopo, il 30 agosto, nella chiesa di San Martino di Tours il rito viene completato dal parroco don Andrea Garibaldi.

Lo scrittore e critico letterario Umberto Fracchia (1889-1930), innamorato di Bargone, così descrive il paese natale di Roscelli: «Quattro case ammucchiate intorno a una chiesa: una fungaia nata ai piedi di un giglio…un paese sperduto in una conca…abitato esclusivamente da contadini, senz’altra musica tranne quella del vento, della pioggia e delle campane…Una pace assoluta, solitudine e silenzio».

In questo paese la famiglia di Agostino riesce a vivere del proprio lavoro, il padre Domenico coltiva un podere in proprietà e alleva anche gli animali. Da quel che sappiamo è una tipica famiglia contadina dell’epoca: lavoro duro, affetti solidi, fede semplice e genuina che permea ogni aspetto dell’esistenza. I figli maggiori già collaborano all’economia famigliare: Domenico Andrea è un ragazzo di quattordici anni ed è già di valido aiuto al padre, Tommasina e Virginia, rispettivamente di dodici e dieci anni, affiancano la mamma nei lavori femminili. Ed anche per Agostino, una volta cresciuto a sufficienza, arriva il momento di rendersi utile. Domenico gli affida le pecore da portare al pascolo, un compito che Agostino assolve con serietà e senso di responsabilità, orgoglioso di potersi finalmente rendere utile. È un bambino dall’animo sensibile e delicato: quando qualche pecora viene condotta al macello, lui si ritira in qualche angolo nascosto per piangere; oppure quando vede la carne ovina servita a tavola, si rifiuta di mangiarla. Una reazione comprensibile in un bambino che trascorre tutte le sue giornate in compagnia di quegli innocui e docili animali.

È un periodo che Agostino vive a quotidiano contatto con la natura, fra i colori e i profumi dei prati, all’ombra del Treggin, la montagna che sovrasta Bargone. È un’esperienza che incide profondamente sul suo spirito religioso; il contraccolpo della bellezza della natura gli suscita quelle reazioni di stupore e meraviglia che portano l’animo umano al riconoscimento della Presenza da cui dipende tutta la realtà. Un’eco di quelle esperienze infantili si ha in un discorso tenuto più avanti alla comunità di religiose da lui fondata: «Lo splendore del sole, la vaghezza dei pianeti, lo scintillio delle stelle, il grazioso aspetto che ha la terra rivestita di tante erbe e variopinta di tanti fiori; la varietà degli alberi, dei frutti, degli uccelli e dei pesci del mare … ci sentiamo presi da meraviglia e attratti dall’affetto verso di essi». E in un altro passo aggiunge: «Si può realmente essere infelici? Sapete, io non capisco come si possa passare accanto a un albero e non essere felici di vederlo. Parlare con un uomo e non essere felici di amarlo! … ma quante cose stupende si vedono ad ogni passo; anche l’uomo più degradato può trovarne di bellissime! Guardate un bambino, guardate l’aurora di Dio, guardate l’erbetta che cresce, guardate gli occhi che vi fissano e vi amano …». Il pastorello Agostino vive la felicità derivante da una conoscenza affettiva della realtà (“meraviglia”, “affetto”) che è propria del senso religioso.

I genitori si accorgono presto che il loro giovane figlio ha l’inclinazione e le capacità per affrontare anche lo studio e ne parlano con il parroco del paese, don Andrea Garibaldi. Il sacerdote accetta volentieri di impartire lezioni private a quel ragazzo del quale non gli erano sfuggite l’intelligenza, l’attenzione al catechismo e l’assiduità nella frequenza alle funzioni religiose. Il bambino si trova così a vivere l’esperienza di studente lavoratore, a dividersi fra il gregge paterno da accudire e gli studi sotto la direzione di don Garibaldi.

La presenza del ragazzo in canonica per seguire le lezioni offre al sacerdote l’occasione anche per formarlo ad una esperienza di fede più consapevole. Sappiamo così che il 24 novembre 1833 Agostino Roscelli riceve il sacramento della Cresima nella chiesa parrocchiale di Casarza Ligure. Non sappiamo invece quando si sia accostato per la prima volta all’Eucaristia. Le testimonianze dell’epoca parlano semplicemente di un ragazzino che svolge con

piacere il servizio di chierichetto e frequenta con profitto il catechismo.

All’età di quindici anni il più piccolo dei fratelli Roscelli mostra una maturità maggiore della sua età, frutto del suo impegno nello studio e di un’esperienza di fede che lo vede attivo nella comunità parrocchiale ed incline a ritagliarsi frequenti momenti di preghiera. Chi lo osserva – i suoi genitori, il parroco – si chiede se il comportamento del ragazzo non manifesti i segni di una vocazione. Ed è assai probabile che a questo punto del suo percorso umano il discorso sia emerso anche nella quotidiana compagnia, culturale e spirituale, che Agostino vive con don Garibaldi.

Un incontro decisivo

Ad accelerare i tempi delle decisioni definitive arriva nel maggio del 1835 un evento inaspettato e denso di conseguenze. Agostino incontra a Bargone una persona destinata ad avere un’influenza decisiva sulla sua vita: lo incoraggerà senza riserve ad intraprendere la strada del sacerdozio. È una persona che già i contemporanei apprezzano per la profondità e l’ortodossia della cultura teologica e lo stimano per la dirittura morale e la coerenza di vita con gli ideali evangelici. Non a caso la Chiesa lo ha proclamato santo. Quel sacerdote diventerà vescovo di Bobbio, in provincia di Piacenza, e prima ancora era stato insegnante in seminario, aveva fondato una congregazione di religiose, le Figlie di Maria Santissima dell’Orto, ed un gruppo di missionari nel nome di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori. Ed è proprio come guida di un gruppo di sacerdoti votati all’evangelizzazione che nel maggio 1835 arriva a Bargone il canonico Antonio Maria Gianelli, in quel momento arciprete di Chiavari. Non ci sono testimonianze dirette dell’interessato o dei contemporanei che possano documentare l’influenza di Gianelli sulla vita e sulla vocazione di Agostino Roscelli, ma sono i fatti ed il duraturo rapporto avviato in quella circostanza a deporre per questa ricostruzione.

Vediamoli dunque questi fatti. Gianelli, insieme ad altri quattro confratelli liguoriani, è nel paesino natale di Agostino per predicare una missione al popolo incoraggiata dal cardinale Placido Maria Tadini, arcivescovo di Genova. Lo scopo della missione è di sollecitare vocazioni al sacerdozio in ambienti, come è il caso di Bargone, che sono immuni dalle influenze gianseniste e dalle simpatie per le correnti liberali che coinvolgono molti ambienti clericali della città. Sono questi anni di turbolenze, fuori e dentro la Chiesa. Il mondo politico è attraversato dalle correnti culturali (liberalismo, mazzinianesimo) che daranno vita al Risorgimento italiano. Genova, città natale di Mazzini, si trova al centro di questo movimento e non a caso è stata definita il gran vulcano della libertà italiana. La Chiesa si trova a fare i conti con la diffusione della mentalità giansenista, che propugna la visione di una umanità dominata dal peccato e di un Dio nascosto che è altro, distante, rispetto al mondo concreto degli uomini. Influenzate dal giansenismo sono quelle correnti di cattolicesimo liberale, che a livello politico si ritroveranno poi a sostenere la causa dell’unità italiana, contro cui si contrappongono duramente i gesuiti, quali alfieri dell’ortodossia. Si comprende quindi la preoccupazione della Chiesa di poter reclutare nelle fila del clero persone immuni dall’influenza di dottrine ritenute pericolose.

I missionari guidati da Gianelli restano in paese per due settimane. Il futuro vescovo di Bobbio ha l’incarico della predicazione, don Davide Massa si occupa della catechesi, don Giuseppe Botti e don Pellegro Raggi si occupano dei dialoghi (un format di queste missioni era appunto l’esposizione in forma teatrale del confronto fra la corretta posizione cattolica e quelle ereticali), mentre don Antonio Patrone si occupa delle confessioni. Nella seconda settimana arriva un altro sacerdote di rinforzo, don Luigi Revello. Una vera e propria task force pastorale di alto livello culturale e spirituale si prende cura per quindici giorni della popolazione di Bargone.

Fra coloro che seguono le diverse attività della missione c’è Agostino, che ormai ha compiuto diciassette anni e che, grazie agli studi condotti sotto la direzione del parroco, è certamente il giovane più attrezzato a recepire i messaggi che l’équipe di Gianelli cerca di trasmettere. È quindi facile immaginare cosa sia successo: Agostino intuendo la statura morale dell’uomo che ha di fronte gli apre il suo cuore e gli chiede consiglio, o magari è lo stesso Gianelli che buttando l’occhio su quel giovane così attento e partecipe si è fatto avanti con una proposta trovando un terreno già da tempo predisposto e coltivato.

I fatti sono che, dopo la missione predicata dai sacerdoti liguoriani, Agostino rompe ogni indugio e decide di continuare a studiare per raggiungere la meta del sacerdozio.

A Genova per studiare

I mesi estivi sono stati dedicati ai preparativi per l’importante salto esistenziale programmato per l’imminente autunno. Il primo problema da risolvere è trovare alloggio a Genova. Al padre viene in mente di chiedere ad una parente, la madrina di battesimo di Domenico Andrea. La donna si dichiara disponibile e chiede per fornirgli una camera e il vitto 80 centesimi al giorno. La famiglia aggiunge altri 20 centesimi per le altre

spese, fra cui anche quelle scolastiche per libri e quaderni, che il ragazzo deve sostenere. Queste trenta lire mensili sono il massimo che i coniugi Roscelli possono garantire a prezzo di tanti sacrifici, ed è comunque una vita grama anche per il figlio che deve fare economia su tutto pur di raggiungere il suo obiettivo.

Un anno dopo il trasferimento a Genova arriva il primo traguardo: il 12 giugno 1836 nella cappella del palazzo arcivescovile Agostino diventa ufficialmente un chierico, ricevendo la tonsura e i primi due ordini minori, Ostiariato e Lettorato. Ma c’è anche una novità spiacevole: la parente chiede di aumentare il corrispettivo della pensione, mettendo il giovane in grave imbarazzo verso i genitori che già compiono enormi sacrifici.

Ad aiutarlo arriva ancora una volta l’intervento provvidenziale di monsignor Gianelli, diventato vescovo di Bobbio. Il presule gli trova una sistemazione presso un istituto di suore di clausura, le Figlie di san Giuseppe, in Salita Sam Rocchino. Le religiose gli garantiscono vitto e alloggio, in cambio lui deve fare il sagrestano e il custode della chiesa annessa al convento. Non solo studente fuori sede, ma anche studente lavoratore, per quanto sui generis. È questa una soluzione che il giovane abbraccia con entusiasmo: i lavoretti che deve svolgere non gli pesano ed ha l’animo sgombro da preoccupazioni e dal pensiero di dover essere di peso ai genitori.

Nel suo itinerario verso il sacerdozio Agostino deve però fare i conti con le esigenze dello Stato, quel Regno di Sardegna del quale anche la Liguria era entrata a far parte dopo il Congresso di Vienna. Il giovane viene chiamato a svolgere il servizio militare che, secondo le disposizioni dell’epoca, svolge per quattordici mesi, dal 27 novembre 1838 al 5 gennaio 1840 (il congedo definitivo arriverà qualche anno più tardi).

L’impatto con l’ambiente militare (è notorio come le caserme non siano gli ambienti più edificanti) non lo distoglie dalla sua vocazione, visto che terminata la leva lo ritroviamo a Genova, sempre ospite delle suore giuseppine e più che mai impegnato a proseguire gli studi.

Un altro incontro provvidenziale gli permette di trovare una sistemazione ancora migliore. A frequentare la chiesa di cui Agostino è sacrestano c’è una nobildonna, la marchesa Negrotto Cambiaso, ben conosciuta negli ambienti ecclesiastici genovesi per la sua attività benefica nei confronti di giovani che non hanno le risorse sufficienti per sostenere le rette del seminario. La marchesa posa il suo occhio benevolo anche sul Roscelli e riesce ottenere dai padri gesuiti che sia accolto nel loro collegio in qualità di prefetto e di assistente degli studenti a convitto. L’intervento della marchesa è doppiamente provvidenziale perché in questo modo il giovane chierico avrà la possibilità, a partire dal 1843, di frequentare i corsi di teologia al seminario diocesano di via Porta degli Archi. Agostino arriva al traguardo con un lusinghiero giudizio espresso su di lui dal rettore padre Ilario Carminati: «Il chierico Agostino Roscelli, prefetto di questo regio collegio, è giovane di ottima condotta, assiduo ai sacramenti e di grande edificazione a tutti».

La formazione in seminario

Negli anni in cui Agostino Roscelli lo frequenta, il seminario arcivescovile di Genova vive una delle sue stagioni più felici. Il merito è unanimemente attribuito a don Giovanni Battista Cattaneo, diventato rettore alla giovane età di ventisei anni per volere dell’arcivescovo Vincenzo Airenti. Il seminario aveva bisogno di un profondo rinnovamento morale per tornare ad essere il luogo di una solida formazione culturale e spirituale dei futuri sacerdoti. Il rettore, nonostante la giovane età, riesce nell’obiettivo, tanto che il vescovo Antonio Maria Gianelli, in una lettera a don Giuseppe Frassinetti, all’epoca eminente figura del clero genovese, nel 1843 scrive che «al seminario di Genova basta l’ombra del Cattaneo».

Non è solo la figura del rettore a fare del seminario di Genova un luogo speciale. Nel corpo insegnante spicca monsignor Salvatore Magnasco, docente di teologia speculativa, che diventerà arcivescovo di Genova. Vice rettore è Tommaso Reggio, che prenderà la cattedra di Magnasco e sarà suo successore alla guida della diocesi: uomo di fede e carità, sarà proclamato beato da Giovanni Paolo II. In quegli anni, inoltre, è prefetto in seminario Gaetano Alimonda, futuro arcivescovo e cardinale di Torino.

Oltre che seguire gli insegnamenti teologici impartiti in seminario, Roscelli partecipa attivamente a due sodalizi introdotti dal rettore Cattaneo e da don Giuseppe Frassinetti e don Luigi Sturla, allo scopo di alimentare la vita spirituale e culturale dei futuri sacerdoti. La prima è la congregazione di San Raffaele, che si propone di consolidare la fede e la carità dei suoi membri attraverso la pratica della correzione fraterna. La seconda è la congregazione intitolata al beato Leonardo da Porto Maurizio, che ha l’obiettivo di cementare nei sacerdoti uno spirito di sincero attaccamento alla Chiesa e un accentuato zelo pastorale nei confronti del popolo.

Le tappe della preparazione al sacerdozio di Roscelli sono scandite dagli ordini minori. Il 2 marzo 1845 riceve l’Esorcistato e l’Accolitato e il 20 settembre dello stesso anno il Suddiaconato. Nel triennio 1843-1846 lo troviamo sacrestano nella chiesa della Maddalena, dei Padri Somaschi, questo perché l’arcivescovo Vincenzo Airenti aveva stabilito che «affinché i chierici fossero assiduamente vigilati, ognuno di essi doveva essere ascritto al servizio di una chiesa e dare buon conto di sé e della propria vita».

I giudizi sul chierico Agostino Roscelli conservati nell’archivio del seminario sono assolutamente positivi: in due dichiarazioni, la prima del 22 febbraio 1844, la seconda del 28 aprile 1846, si legge che «si è comportato come si conviene ad un discepolo ben costumato e ha osservato tutte le leggi della pietà e della disciplina».

Un curriculum ineccepibile, confermato anche dal fatto che può ricevere l’ordinazione sacerdotale dopo solo tre anni di studi teologici, quando la regola fissa la durata a quattro. C’è un ultimo ostacolo da superare: il diritto canonico dell’epoca chiede un patrimonio per poter essere accolti nel sacerdozio, ma la povertà di Agostino è tale che in suo aiuto devono intervenire le nipoti Luigia e Maria.

Finalmente sacerdote

E così, dopo aver prima ricevuto il diaconato (18 marzo 1846), il 19 settembre dello stesso anno Agostino Roscelli riesce a coronare l’ideale della giovinezza, diventare sacerdote di Cristo, testimone della sua carità, strumento della sua misericordia. All’età di ventotto anni, dopo un percorso tutto in salita, riceve l’ordinazione nella cappella dell’arcivescovado dal cardinale Placido Maria Tadini.

Quel giorno coincide con un avvenimento che, in una visione provvidenziale e non casuale della storia, assume un preciso significato. Il 19 settembre 1846 sulla montagna di un villaggio francese, La Salette-Fallavaux, due ragazzi, due pastorelli, una di quindici, l’altro di undici anni, vedono apparire una “bella Signora” che annuncia la divina misericordia per coloro che si convertiranno dal male. È la prima delle due importanti apparizioni mariane (la seconda a Lourdes, otto anni dopo) che segnano la Francia di metà Ottocento e che saranno riconosciute dalla Chiesa universale. Una coincidenza che sembra indicare quanto la vocazione del pastorello di Bargone sia accompagnata dalla materna sollecitudine di Maria.

Oltre a questa coincidenza, c’è anche una concomitanza. Tre mesi prima, il 16 giugno, al termine di un conclave breve ma non per questo scevro da contrapposizioni fra quelle che già allora venivano sbrigativamente chiamate l’ala conservatrice e l’ala progressista della Chiesa, il cardinale Giovanni Maria Mastai Ferretti, vescovo di Imola, viene eletto al soglio pontificio assumendo il nome di Pio IX. È l’inizio di un pontificato lungo e ricco di importanti eventi per la vita della Chiesa. E Pio IX, lo vedremo nel proseguimento di questa storia, avrà un ruolo determinante anche per la vita di don Agostino Roscelli, il pastorello di Bargone diventato sacerdote.

L’apostolo della misericordia

Il primo incarico pastorale del novello sacerdote è nella parrocchia di San Martino d’Albaro, a quel tempo una zona rurale, alla periferia di Genova, con poche case, e ricca invece di orti e frutteti. Il parroco è don Giuseppe Chiappe che per due anni, dal 1841 al 1843, aveva guidato la natia parrocchia di Bargone. È quindi immaginabile che si conoscano e che il sacerdote sia stato il tramite fra lui e la sua famiglia durante gli anni del seminario.

A San Martino don Roscelli va con l’incarico di vice parroco e curato, un ministero che svolgerà per otto anni. Non abbiamo molte testimonianze su queste prime esperienze pastorali. La più significativa è di un laico, Tommaso Canepa, che ammette di trovare con facilità i difetti nel prossimo con cui viene a contatto. Eppure di don Roscelli afferma: «Era inappuntabile nel catechizzare i fanciulli e gli adulti; nell’attendere ai battesimi, ai malati, ad ogni servizio di culto con quel raccoglimento esterno ed interiore, il quale dà tanto buon esempio ai fedeli».

Poche battute che però hanno il merito di restituirci un don Agostino pienamente immerso nei compiti del suo ministero con una dedizione ed uno stile che provoca immediatamente un giudizio positivo da parte dei fedeli. È certamente un pastore – per dirla con papa Francesco – che porta su di sé l’odore delle pecore, perché vive in mezzo a loro, in una periferia geografica ed umana della Genova di metà Ottocento,  testimoniando con la propria vita la misericordia del Padre che vuole raggiungere e salvare ogni uomo.

Possiamo immaginare ciò che le testimonianze non dicono alla luce dei successivi comportamenti di Roscelli, che mai ha scelto di mettersi in primo piano e sempre, con umiltà e obbedienza, ha servito la Chiesa nel ruolo che gli è stato affidato. Ha osservato il cardinale Giuseppe Siri in una commemorazione del 1976: «Quando era a San Martino faceva comparire l’arciprete, quando era agli Artigianelli, metteva in mostra don Montebruno, quando era alla Consolazione, in mancanza d’altri metteva avanti i pilastri che gli facevano da pio paravento». Come giudicare questo stile pastorale apparentemente dimesso? Il cardinale fornisce questa risposta: «Non era fuga: era il coraggio di una scelta precisa e netta, quale la maggior parte degli uomini non sa fare, ed era il posto volutamente lasciato soltanto a Dio». Un giudizio netto sul quale ci sarà l’opportunità di tornare.

Il confessore della Consolazione

Abbiamo visto citare dal cardinale Siri la chiesa della Consolazione. È in questa chiesa, situata in una via centrale della città (oggi si chiama XX settembre, nell’Ottocento era via Giulia) che don Agostino comincia nel 1854 il suo ministero di confessore. Vi rimane fedele per quarant’anni anni, fino al 1898 quando le condizioni di salute non gli permetteranno più di uscire da casa.

La chiesa della Consolazione (il nome completo è chiesa di Nostra Signora della Consolazione e san Vincenzo martire) è una chiesa retta dai padri agostiniani che la fondarono nel 1684.  Si vedrà più avanti come il pensiero di Roscelli abbia più di un’influenza agostiniana e come il sacerdote sia un grande innamorato della Madonna. Visti gli sviluppi, verrebbe da dire che non c’era migliore chiesa a cui destinarlo. L’edificio conserva opere artistiche di pregio, fra cui un crocifisso del XIV secolo attribuito ad un allievo ignoto di Pietro Lorenzetti. La chiesa è molto cara alla devozione popolare perché in essa viene praticato anche il culto di Santa Rita, che fu monaca agostiniana.

La presenza in qualità di confessore nella chiesa della Consolazione è da collegare ad alcuni eventi famigliari. Il fratello Domenico Andrea si era trasferito a Genova da tempo con la sua famiglia e, dopo che il 22 maggio 1854 il padre Domenico era deceduto, anche mamma Maria aveva lasciato Bargone ed era andata a vivere con lui. La famiglia aveva trovato casa in un appartamento di Palazzo Sauli in via Colombo. Non si deve credere che il nome altisonante indicasse una sistemazione di lusso, il palazzo aveva origini nobili ma nel 1853 era stato ristrutturato per farne abitazioni per gli operai.

Anche don Agostino nel 1854, probabilmente per essere vicino alla mamma negli ultimi anni della sua vita, va ad abitare con loro nell’appartamento di via Colombo n. 9. Palazzo Sauli si trova nel territorio della parrocchia della Consolazione e quindi don Agostino viene assegnato a quella chiesa. Chi oggi vi entra può ancora vedere il confessionale dove don Roscelli ascoltava le confessioni dei penitenti e dava loro, con l’assoluzione sacramentale, la certezza del perdono divino.

Quei quarant’anni di fedele e infaticabile presenza nel confessionale (tutti i giorni, eccetto il martedì, spesso per cinque sei ore al giorno) costituiscono la cifra esemplare del sacerdozio di don Agostino Roscelli. Quel nascondimento che lui predilige, diventa di fatto, attraverso il confessionale, una presenza in prima linea sul fronte tumultuoso dei drammi che agitano il cuore umano e sconvolgono la vita sociale. Sottolinea con efficacia il cardinal Siri, rispondendo all’eventuale obiezione su un don Agostino che sembra rifuggire i rapporti umani: «Non è misantropo chi, in un confessionale, diventa talmente comunicativo da farne un centro per la vita spirituale di una città intera».

Che un confessionale diventi il punto di partenza di un movimento spirituale che coinvolge una città è un paradosso che chiede di essere approfondito. Ancor più se, come vedremo più avanti, è dai dialoghi intavolati dietro la grata che sono nate le sue opere.

Sempre disponibile

Don Agostino è un sacerdote che ama profondamente il ministero che ha abbracciato e che lo ha fatto diventare, come amava ripetere San Francesco, un altro Cristo, con il potere di rinnovare sull’altare il sacrificio di salvezza per tutti e di perdonare i peccati. È questo amore all’inestimabile dono ricevuto che lo porta ad essere sempre disponibile ad accogliere i tanti figli prodighi che decidono di rivolgersi a lui per tornare alla casa del Padre. Al suo confessionale va ogni genere di persona: uomini, donne, giovani, bambini, benestanti e poveracci. I fedeli dell’epoca assicurano che non c’è bisogno di cercarlo e di pregarlo di ascoltare la loro confessione. Lui è sempre lì, pronto e disponibile. «I penitenti andavano volentieri a confessarsi da lui perché non dovevano andare a cercarlo, erano sicuri di trovarlo vicino al suo confessionale». «Sempre a disposizione di tutti, senza rimandare nessuno, senza essere impaziente, anche se l’ora indicata era già trascorsa».

Non è cosa da poco se, ancora nel 2002, Giovanni Paolo II, nel motu proprio Misericordia Dei, dovrà ammonire: «Inoltre, tutti i sacerdoti che hanno la facoltà di amministrare il sacramento della Penitenza, si mostrino sempre e pienamente disposti ad amministrarlo ogniqualvolta i fedeli ne facciano ragionevolmente richiesta. La mancanza di disponibilità ad accogliere le pecore ferite, anzi, ad andare loro incontro per ricondurle all’ovile, sarebbe un doloroso segno di carenza di senso pastorale in chi, per l’Ordinazione sacerdotale, deve portare in sé l’immagine del Buon Pastore». Ed ancor più recentemente papa Francesco nel motu proprio Misericordia Vultus, con cui ha indetto il Giubileo straordinario dedicato appunto alla misericordia, sottolinea: «Ogni confessore dovrà accogliere i fedeli come il padre nella parabola del figlio prodigo: un padre che corre incontro al figlio nonostante avesse dissipato i suoi beni. I confessori sono chiamati a stringere a sé quel figlio pentito che ritorna a casa e ad esprimere la gioia per averlo ritrovato».

Il “povero prete” don Agostino, il diligente pastore Roscelli non ha bisogno di questi richiami per accogliere le pecorelle desiderose di tornare all’ovile. Nella chiesa della Consolazione, anno dopo anno, conquista la fama di confessore santo, un titolo che gli viene attribuito dal popolo per il suo evidente amore al sacramento e per la sapienza con cui lo amministra, per la sua capacità di essere una guida sicura per chi ha smarrito la strada. Una sua penitente, Teresa Fulle, ricorda: «Egli non mi pareva un uomo di grande intelligenza, ma invece di grande spirito di Dio e quindi guidato dalla mano dell’Onnipotente. I miei figli, se hanno fatto buona riuscita nella vita, lo devono proprio alla sua guida spirituale».

Ciò che accade nella chiesa della Consolazione ci rivela il segreto della vita di don Agostino: il suo continuo rapporto con Cristo. Preziosa è la testimonianza di don Pietro Olcese, sacerdote della diocesi di Genova, che lo ha conosciuto fin da bambino: «Prima di prendere il treno per ritornarmene a casa, entravo nella chiesa della Consolazione e quante volte ho visto il sant’uomo inginocchiato con le mani giunte davanti all’altare. Era così raccolto che non si avvedeva nemmeno di chi gli era vicino e stava lunghissimo tempo a pregare. Facevo anche rumore per farmi sentire ma egli rimaneva fisso ed immobile come nella santa Messa”. Una circostanza che è confermata dalla già citata Teresa Fulle: «Quando non era in confessionale stava in ginocchio, senza appoggiarsi, come un uomo ispirato, alle balaustre di marmo presso l’altare di san Luigi, oggi di santa Rita». Don Agostino sembra seguire la verità di un altro “povero prete” del XX secolo, don Oreste Benzi, che amava ripetere che chi vuole stare in piedi deve mettersi in ginocchio. Roscelli sa che per essere testimone credibile della misericordia divina che tutti accoglie in un abbraccio capace di rinnovare la vita, deve affidare la sua vita alla Presenza da cui tutto dipende, ed il suo sguardo è costantemente rivolto a Cristo che è il volto della misericordia del Padre. È un contemplativo nell’azione, l’esperienza viva e profonda del Mistero che fa tutte le cose è la molla che spinge la sua giornata.

Come confessava

Teresa Fulle nelle sue dichiarazioni su don Agostino e il sacramento della penitenza osserva che «le sue confessioni non erano dotte ma erano molto pratiche e molto fruttuose». Cosa intende dire? Abbiamo una risposta dallo stesso sacerdote in alcune riflessioni che ci ha lasciato: sono tre istruzioni rivolte alle sue religiose a proposito del sacramento della misericordia divina.

Nello spiegare la natura e lo svolgimento di una buona confessione, don Agostino attinge per i suoi insegnamenti al catechismo della Chiesa e lo sbriciola, infarcendolo di esempi concreti, alle sue ascoltatrici. Dai suoi discorsi si comprende bene come egli abbia una concezione oggettiva del sacramento. In primo piano non c’è il sacerdote, la sua cultura, i suoi pregi o i suoi difetti, ma ciò che il sacerdote rappresenta in quel momento, la grazia che le sue parole e i suoi gesti veicolano. Non che le caratteristiche soggettive del confessore non siano importanti, anzi lui raccomanda più volte alle sue suore di trovarsi un buon confessore. I fedeli «non devono scegliere i confessori più faciloni,quelli cioè che conducono per la via larga e che favoriscono la libertà e l’amor proprio, ma scegliere quelli che ci aiutano a combattere le nostre passioni».

Nella concezione di Roscelli, l’incontro fra il sacerdote e chi si vuole confessare deve essere essenziale, molto lontano dai rischi di ridurre il sacramento a una piacevole chiacchierata spirituale o a una seduta psicoanalitica. Insiste sulle disposizioni fondamentali – il dolore e la contrizione del cuore, l’accusa dei peccati, l’impegno a cambiare vita – perché vuole che il sacramento sia per chi lo riceve un’esperienza reale di conversione. E, stando alle testimonianze che abbiamo letto, chi lo ha incontrato nella chiesa della Consolazione di Genova ha vissuto questa esperienza. Sempre Teresa Fulle afferma: «Andavano molti a confessarsi da lui, ed era piuttosto di manica stretta; ricordo che come mio papà, molti uomini erano gente di mare, di buoni sentimenti, ma non erano molto praticanti, eppure avevano molta stima di lui».

Dai suoi scritti emerge come egli abbia ben chiaro qual sia il suo ruolo. «Il confessore, nel tribunale della Penitenza, deve fungere da padre, da dottore e da giudice. Come padre deve accogliere con amorevolezza, ammonire con carità, soffrire con pazienza le nostre debolezze. Come dottore, deve conoscere le nostre infermità spirituali, discernere male da male e applicare gli opportuni rimedi. Come giudice, poi, sentenziare sui nostri peccati, sulle nostre disposizioni, potrà anche negarci la santa assoluzione, secondo che giudicherà più conveniente al bene dell’anima nostra e dovrà imporci una congrua e salutare penitenza».

Alcuni testimoni al processo di beatificazione hanno dichiarato: «Era accogliente e paterno con tutti, si poteva parlare con lui nella massima confidenza». «Insinuava la fede con le sue parole e con i suoi consigli». «Dalle sue confessioni se ne usciva sempre infervorati e in pace».

Le opere di misericordia

Nella Misericodiae Vultus scrive papa Francesco: «L’architrave che sorregge la vita della Chiesa è la misericordia. Tutto della sua azione pastorale dovrebbe essere avvolto dalla tenerezza con cui si indirizza ai credenti; nulla del suo annuncio e della sua testimonianza verso il mondo può essere privo di misericordia. La credibilità della Chiesa passa attraverso la strada dell’amore misericordioso e compassionevole». Il Santo Padre nello stesso motu proprio, oltre a parlare della confessione come sacramento della misericordia, invita il popolo cristiano a riscoprire quelle che il catechismo definisce le opere di misericordia corporale e le opere di misericordia spirituale. «La predicazione di Gesù ci presenta queste opere di misericordia perché possiamo capire se viviamo o no come suoi discepoli. Riscopriamo le opere di misericordia corporale: dare da mangiare agli affamati, dare da bere agli assetati, vestire gli ignudi, accogliere i forestieri, assistere gli ammalati, visitare i carcerati, seppellire i morti. E non dimentichiamo le opere di misericordia spirituale: consigliare i dubbiosi, insegnare agli ignoranti, ammonire i peccatori, consolare gli afflitti, perdonare le offese, sopportare pazientemente le persone moleste, pregare Dio per i vivi e per i morti».

Don Agostino Roscelli è pienamente in sintonia con il messaggio di papa Francesco. Si potrebbe sintetizzare la sua vita dicendo che ha praticato in sommo grado le opere di misericordia corporale (la solidarietà con i più poveri e bisognosi) e le opere di misericordia spirituale (l’evangelizzazione, l’insegnamento, i preziosi consigli a chi è in difficoltà o nel dubbio). Non a caso due delle sue istruzioni alle religiose sono dedicate a questo argomento. «Per salvarci – afferma Roscelli – abbiamo bisogno della misericordia di Dio, e misericordia tanto più abbondante quanto sono più numerosi i nostri peccati; ora questa misericordia di Dio non l’avranno certamente coloro che non hanno usato, potendo, misericordia al loro prossimo bisognoso». Citando la Scrittura e l’insegnamento dei Padri della Chiesa, don Agostino ribadisce con insistenza il comandamento dell’amore al prossimo come cartina di tornasole dell’amore a Dio. E nell’istruzione sulle opere di misericordia spirituale ritroviamo il catechista efficace che con semplicità e precisione spiega in cosa consistano e come le si debbano praticare.

Il direttore spirituale

Molti penitenti che si rivolgono a lui nella grata del confessionale della Consolazione diventano suoi figli spirituali, persone che lo scelgono come guida sicura (probabilmente proprio perché non di manica larga) per la propria esperienza cristiana. È un’attività che ha coinvolto molte persone e della quale abbiamo una preziosa testimonianza in due lettere di don Agostino. Sono scritte a Teresa Stagno, una ragazzina che in quel momento si trova in uno dei collegi delle suore salesiane e che si confessa da lui fin dall’età di sei anni. Poi sposata ed assunto il cognome Fulle del coniuge, è la stessa Teresa che già abbiamo citato in questo capitolo. La sua riconoscenza a Roscelli è totale. Al processo di beatificazione dirà: «Soltanto a vederlo, ci si sentiva trasportare con l’anima a Dio».

La prima lettera è del 15 novembre 1969. Il contenuto fondamentale è l’invito a leggere un libro che il sacerdote le ha inviato e che la ragazzina ha gradito. Vi si narra la storia di una certa Generosa che, grazie all’esperienza vissuta in una grotta, si è accorta di «quanto è ingannevole il mondo e quanto perciò sono infelici quelle meschine che si lasciano illudere dalle sue moine».

Roscelli è ben consapevole di trovarsi di fronte un’adolescente, una ragazza nell’età in cui, fra mille contraddizioni, si cerca la propria identità ed il proprio posto nel mondo. Sa che il cuore di un’adolescente è inquieto e sensibile alle più svariate suggestioni. Lui è preoccupato di metterla all’erta perché non cada nell’errore di quanti «credono realtà ciò che non è che finzione e apparenza». La lotta fra il bene e il male è quindi presentata come lotta fra realtà e apparenza. È tutto fuorché un richiamo moralistico, è l’invito ad andare a fondo nel desiderio, emergente nell’età adolescenziale, di cercare la verità di se stessi. Come scriveva san Paolo ai Colossesi, «La realtà invece è Cristo», così Roscelli ammaestra la giovane mettendola in guardia dal rischio di scambiare la vita per una fiction, diremmo noi oggi.

La lettera contiene pressante l’invito: «Leggete dunque figliuola, leggete con attenzione e vedrete che commozione, che sentimenti, che affetti vi si desteranno nel cuore». Ha giustamente osservato Rosangela Teresa Sala, nel suo saggio Un’opzione per l’uomo nella Genova dell’Ottocento, che lo scopo della lettera è muovere la libertà dell’adolescente. A cosa fare? «Ad aprire la mente e il cuore ed intendere la voce di Dio», come indica l’esempio biblico del giovane Samuele.

Il tono complessivo della lettera è paterno. Nell’esordio Roscelli si concede anche una battuta spiritosa: «Nell’ebbrezza della vostra età, credevo che non vi ricordaste nemmeno che io fossi ancora al mondo». E nel finale la paternità si esprime con un «Coraggio, figliuola, Dio è grande; ed opere grandi vuole pure dalle sue creature», diretto ancora una volta a sollecitare la sua libertà e il suo desiderio di cuore adolescente.

La seconda lettera è del 19 gennaio 1870 e prende spunto dall’anno che è da poco cominciato per una riflessione sul significato del tempo, da accogliere come un dono e da usare per meglio conformare la propria esistenza alla volontà divina.

Dio ha concesso a lui e alla ragazza un nuovo anno da vivere: «E non vi pare questa una mera bontà, anzi uno specialissimo amore che il buon Gesù vuole usare con noi?».  Si tratta allora di corrispondere a tale amore con un rinnovato impegno a cambiare la vita. «Questo è il modo vero, figliuola, per mostrarsi grati a Dio per la misericordia che va usando continuamente con noi, ed impiegare bene il tempo che ci dà di vita».

La lettera è testimonianza di quella tenerezza che in molte, fra le sue figlie spirituali, ritroveranno in Roscelli. A Teresa questa volta insieme alla lettera manda in dono non un libro ma un vasetto di fiori. Lo scopo è duplice: perché la vista di quei fiori gli ricordi di pregare per lui e per sollecitare la ragazza alla pratica della virtù «onde possiate radunarne un mazzetto ancor più grosso da presentare a Gesù quando che sia».

Protagonista della storia

Ha scritto Louis de Whol, autore di numerosi e fortunati romanzi dedicati a uomini che hanno raggiunto il traguardo della santità: «Le vite dei santi appartengono alla storia, perché sono loro stessi a fare la storia e, meglio ancora, la fanno come piace a Dio.  La storia senza i santi si riduce a guerre, battaglie, nazioni soggiogate o liberate, leggi e decreti, paesi che si avvicendano nella supremazia reciproca. Di tanto in tanto, però, Dio mostra la strada, e ogni volta per indicarla si avvale di un santo».

Lo stesso fenomeno accade nella Genova dell’Ottocento, quando vive don Agostino Roscelli. Proviamo a metterci nell’ottica dei suoi contemporanei. Guardando la sua vita, nessuno di loro pensa certo ad un personaggio che sta facendo la storia. È un prete umile, riservato, che trascorre gran parte della sua giornata nel confessionale. Qualcuno si meravigierà pure che sia stato capace di fondare una congregazione religiosa. Come mai potrà incidere sulla storia? Se ci si mette alla ricerca di scritti o testimonianze che ci indichino una qualche sua forma di partecipazione agli eventi della Genova dell’Ottocento, non si trova nemmeno una riga. Sembra che i fatti della storia, quelli che finiscono sui libri da studiare a scuola, non lo sfiorino nemmeno. Nemmeno un giudizio, nemmeno una nota.

E dire che la Genova che ha accolto Roscelli seminarista e quella che poi lo ha visto sacerdote per tutto il secolo, di avvenimenti che l’hanno coinvolta in profondità ce ne sono stati tanti. Basti pensare al movimento che porterà all’unificazione della penisola sotto casa Savoia, passato alla storia come Risorgimento italiano. Genova è una culla del pensiero e dei moti rivoluzionari. E sono fatti che arrivano a lambire e condizionare la vita ecclesiale, provocandovi laceranti divisioni fra quanti sono favorevoli ai venti del liberalesimo e quanti invece affrontano le sfide della modernità trincerandosi dietro la fedeltà assoluta al Papa e alla Chiesa.

Nel 1847, mentre Roscelli è curato a San Martino, muore l’arcivescovo di Genova, il cardinale Placido Maria Tadini. Per la difficoltà di trovare un accordo sul nome del successore fra Regno di Sardegna e Santa Sede, la cattedra arcivescovile resta vacante per quasi cinque anni e la diocesi è affidata alle cure di monsignor Giuseppe Ferrari, assegnato a tale incarico dal Capitolo Metropolitano.  Monsignor Ferrari è stato descritto come un uomo buono ma di scarsa energia, incapace di destreggiarsi con il vigore necessario fra le opposte fazioni del clero.  Ferrari in quegli anni tumultuosi tiene una sorta di diario dove annota le sue considerazioni sugli avvenimenti correnti e in quelle pagine sono citati i nomi di molti sacerdoti che vi sono coinvolti. In prima linea, nelle polemiche culturali e politiche e nell’animosità degli avversari, vi sono soprattutto i cosiddetti preti “gesuitanti”, cioè quelli schierati per la dottrina tradizionale della Chiesa. Fra questi vi troviamo molti sacerdoti che pure hanno concorso alla formazione teologica e spirituale di Roscelli: il rettore del seminario, Giovanni Battista Cattaneo, il vice rettore Giuseppe Alimonda, il docente di teologia Salvatore Magnasco, futuro arcivescovo, don Giuseppe Frassinetti, rettore della chiesa di Santa Sabina, solo per citarne alcuni.  Fra le carte di monsignor Ferrari non vi si trova mai il nome di Roscelli.  E così, se molti dei nomi citati sono costretti anche a prendere la via dell’esilio dalla città, don Agostino lo troviamo stabile prima a San Martino e poi nella chiesa della Consolazione a svolgere il suo ministero, a battezzare, predicare, confessare.

Dobbiamo quindi credere che il povero e santo prete don Roscelli sia uno spiritualista che vive la propria fede in modo disincarnato dalla realtà storica e sociale? Arrivare a queste conclusioni semplicemente perché non lo troviamo sulle barricate, sarebbe quanto mai frettoloso e superficiale. Nel silenzio e nel bisbiglio sommesso del suo confessionale arrivano, prepotenti e dure, le contraddizioni reali che vive la popolazione di Genova di metà Ottocento. Persone meno preoccupate dalla decisione di dover dar ragione al re o al papa, ed invece assillate dai drammi della loro vita quotidiana.

Roscelli sceglie un’altra via per essere presente nelle vicende della storia.  La sua strada può essere paragonata a quella dei monaci benedettini che nello scenario di un impero romano in decadenza e aggredito dai barbari, si dedicarono alla vita in comune sotto la regola della preghiera e del lavoro. Così facendo – lo possiamo ben giudicare noi oggi – hanno posto le fondamenta di una nuova civiltà che intorno a quei monasteri è sorta e sviluppata. Nella Genova dell’Ottocento don Agostino ha contribuito a costruire una civiltà nuova non con le battaglie dialettiche o l’impegno politico ma con la prossimità quotidiana a quelle che papa Francesco chiama le periferie esistenziali del genere umano. Altri preti legittimamente hanno seguito le vie dell’impegno civile, ma lui ha avvertito che la vocazione a cui rispondere era diversa, che il suo sacerdozio era chiamato ad esprimersi nella compagnia e nella vicinanza a quell’umanità bisognosa che Dio gli faceva incontrare. Egli si sentiva chiamato ad immettere nelle ferite personali e sociali incontrate ogni giorno un punto di vista nuovo, quello dell’amore misericordioso del Padre che dona nuova forza e nuova identità all’io indebolito e lacerato.

Con il linguaggio ecclesiale dell’Ottocento si può dire che egli si sia innanzitutto dedicato a salvare le anime. Ha acutamente osservato uno dei suoi primi biografi, Davide Ardito, che Roscelli dominò gli avvenimenti sociali, politici e religiosi dell’Ottocento ligure. «Non già nel senso che si sia ad essi imposto con una possente ed autorevole personalità, ma in quanto non si lasciò da essi fuorviare, travolgere, scoraggiare, come era tanto facile allora, ed anche perché nel nascondimento e nell’umiltà compì un preziosissimo apostolato sacerdotale, inteso a difendere, a preservare e a salvare le anime».

Nella Genova che si potrebbe definire il laboratorio dell’Italia laica e secolarizzata che con il tempo si sarebbe definitivamente affermata, lui è innanzitutto un sacerdote di Cristo chiamato ad evangelizzare, battezzare, confortare, educare. Tutte azioni che non si misurano con il metro dell’efficacia immediata ma che comunque agiscono in profondità e contribuiscono a formar tante persone e quindi a creare un popolo nuovo.

L’educatore degli Artigianelli

Tutto nella vita di don Agostino Roscelli appare come una risposta, piena ed appassionata, alle diverse circostanze che si trova a vivere e agli incontri che compie lungo il suo cammino. Se l’incontro con il santo vescovo Antonio Maria Gianelli gli chiarisce la vocazione, l’incontro con don Francesco Montebruno gli apre un nuovo ed inaspettato campo di apostolato.

Don Montebruno è un sacerdote della diocesi di Genova più giovane di Roscelli, ordinato ad appena 23 anni, nel 1854, quando don Agostino comincia il suo ministero di confessore alla Consolazione.

Don Montebruno è di buona famiglia, di agiate condizioni economiche, ed è un ragazzo che da subito si sente chiamato a vivere la fede in opere di carità sociale. Ancor prima dell’ordinazione, lo si vede impegnato nella visita ai carcerati, come membro della congregazione di carità dell’ospedale di Pammatone. Nel 1852 fonda anche l’Opera della Santa Infanzia, per l’aiuto ai bambini delle terre di missione. Cominciando a vivere il sacerdozio nella Genova di metà Ottocento, la sua attenzione viene attirata dalla presenza, nei vicoli e nelle piazze della città, di quelli che oggi chiameremmo ragazzi di strada. Bambini e adolescenti che non frequentano le scuole, che non hanno alle spalle una famiglia solida, che vivono di espedienti, di furti, senza arte né parte e, quel che è peggio, senza alcuna prospettiva positiva per il loro futuro. L’esperienza della visita nelle carceri già ha fatto toccare con mano a don Francesco come l’assenza di una educazione e di un mestiere si risolvano ben presto, quasi inevitabilmente, in una vita sregolata, esposta ad ogni sorta di pericolo.

La vista dei ragazzi di strada gli suscita l’idea di realizzare un’opera per loro, di radunarli in un ambiente sano e positivo, dove supplire all’educazione mancata e dove anche insegnare loro un mestiere per renderli autonomi nel futuro. Si muove pertanto alla ricerca dei fondi necessari interpellando una ad una tutte le famiglie facoltose di Genova. Con gli aiuti raccolti e con alcuni mezzi economici assicuratigli anche dai genitori, riesce a prendere in affitto un appartamento in vico Caprettari, oggi vico Stampa. Al civico n.5 esiste ancora il palazzo che nel marzo 1857 ospita il nucleo originario dell’opera di don Montebruno. Don Francesco raccoglie i primi due ospiti nella notte: un ragazzo che ha scelto il cassettone di una diligenza come rifugio ed un altro che dorme sopra un carretto di rifiuti. Il problema dei ragazzi di strada è talmente diffuso che un anno dopo gli ospiti sono già una ventina. Don Montebruno decide di intitolare la sua opera a San Giuseppe artigiano e ben presto i suoi ragazzi diventano per tutti gli “artigianelli”.

L’istituto cresce in fretta e presto si pone l’esigenza di trovare una sede più ampia per ospitare i ragazzi da salvare dai pericoli della strada. L’occasione si presenta: è posta in vendita una villa padronale nelle vicinanze delle colline di Carignano, un ampio edificio con annesso un esteso podere. È di proprietà di una associazione di protestanti che ne ha fatto il proprio quartier generale per poter scardinare la fede cattolica dei genovesi. Finiti i finanziamenti, i protestanti si trovano costretti a vendere l’immobile e il 12 febbraio 1859 don Francesco Montebruno è in grado di firmare il contratto di acquisto. In quella che era la cittadella dei protestanti, si sviluppa ora un’opera di carità che risponde ad uno dei drammi più urgenti del momento. L’ampiezza dei locali permette di installare nell’edificio anche i laboratori artigiani (per falegnami, intagliatori, fabbri, tipografi, legatori, calzolai) per la formazione professionale dei ragazzi che in precedenza erano invece costretti ad andare “a bottega” dagli artigiani della città.

L’incontro con don Montebruno

L’incontro fra don Francesco e don Agostino avviene nell’ambito della chiesa della Consolazione, frequentata da entrambi. Non sappiamo cosa si siano detti e in cosa abbiano trovato corrispondenza reciproca. Conosciamo i fatti: don Montebruno chiede a don Roscelli di diventare il suo coadiutore, il suo braccio destro nell’opera degli Artigianelli. E dalla primavera del 1860 don Agostino, che negli anni precedenti ha iniziato a collaborare saltuariamente, trasferisce la sua residenza nella casa di Carignano. La cara mamma Maria è morta nell’anno precedente e pertanto la sua presenza in famiglia non è più indispensabile. La collaborazione fra i due preti, vista con occhi umani, risulta sorprendente. Sono due caratteri e due temperamenti molto diversi. Se Roscelli appare timido, riservato, prudente, silenzioso, Montebruno si presenta come il classico prete dinamico, brillante, votato all’azione. Ad accomunarli ci sono la fede e la carità che, per dirla con San Paolo, urge e spinge a trovare risposte sempre nuove ai bisogni degli uomini. Certo è che don Montebruno vede nel confessore della Consolazione il sacerdote di cui ha bisogno per governare quella comunità di ragazzi che sbrigativamente ma efficacemente, il popolo chiama discoli. Discoli da far crescere e far diventare uomini responsabili e maturi. Un compito – avrà pensato don Francesco – per il quale serve non tanto un pretino simpatico e con la stoffa del leader carismatico quanto un uomo solido e innamorato di Cristo. Ed ai suoi occhi don Agostino presenta queste caratteristiche. Lo conferma nella sua testimonianza suor Maria Luisa Macciò: «Don Montebruno stava cercando un santo prete che lo aiutasse nel suo ministero di carità presso gli Artigianelli, e pose lo sguardo sul curato di San Martino e lo volle presso di sé». Secondo un’altra testimonianza, non è estranea alla decisione di don Montebruno la segnalazione di un altro autorevole sacerdote di Genova, don Giuseppe Frassinetti, amico pure di Roscelli.

Di don Agostino educatore degli Artigianelli ha tracciato un ritratto efficace don Giuseppe Pittaluga che, entrato da ragazzo nell’Istituto, è poi diventato sacerdote. «Era asciutto nella persona. La faccia aveva da asceta; gli occhi, piuttosto vivaci, teneva sempre in atto di esemplare riserbo. Pulito negli abiti, compassato nella parola, rappresentava l’uomo d’ordine e prudente. Non ho mai in visto in testa a questo prete la berretta del ministero, meno che nei doverosi atti di culto; del resto la testa aveva abitualmente coperta da un berrettino che noi diremmo da notte, con la differenza che, invece di essere bianco, era nero. Miope dalla nascita, portava abitualmente gli occhiali. Ai momenti delle ricreazioni e delle funzioni feriali e festive nella cappella, egli era sempre presente. Carattere austero». Il ritratto si conclude con quell’aggettivo, austero, che ricorre spesso in cui parla di don Agostino.

Pittaluga lo descrive anche come uomo semplice «e per ciò stesso chiaro e vero, senz’ombra d’arte nel suo contegno, nelle sue parole e nelle sue azioni».

I compiti affidati a Roscelli fanno capire quanto totale e incondizionata sia la fiducia nei suoi confronti da parte del direttore Montebruno: l’insegnamento del catechismo, l’amministrazione economica dell’Istituto, la presenza fra i ragazzi nelle ore in cui non sono impegnati nei laboratori artigiani, la cura della liturgia e della cappella.

Nello svolgere gli incarichi ricevuti, don Roscelli è uomo umile che semplicemente aderisce alle direttive del direttore Montebruno. Sa di essere un collaboratore e come tale si comporta: sa che ciò che conta sono le indicazioni di don Francesco e non le sue visioni personali. Non si allarga, si direbbe oggi. Quando una decisione esula dai suoi poteri, si riferisce con naturalezza all’autorità superiore. E, se ci si riflette, questo non è un comportamento scontato e spontaneo, tenendo conto che Montebruno è più giovane di tredici anni. Don Agostino potrebbe legittimamente far valere l’esperienza dettata dalla maggiore età. Ma da quel che riferiscono i testimoni, questa tentazione nemmeno lo lambisce. Don Agostino non ama mettersi in mostra. «Schivo da ogni umana ammirazione», annota il puntuale Pittaluga. E colgono nel segno le parole del cardinale Giuseppe Siri: «Dovunque, egli agì sempre nell’ombra del suo voluto e difeso nascondimento. Per nascondersi fece così: non volle nomine, parlava solo se c’era da fare del bene e a voce bassa, scompariva dovunque non avesse qualcosa da fare e, fuori del confessionale della direzione spirituale era stringatissimo; evitava adunanze inutili a lui e agli altri e voleva l’anonimato in tutto: se ci riusciva, metteva davanti a sé come paravento qualcuno ed egli, regolarmente, scompariva». L’umiltà di don Agostino, praticata fra gli Artigianelli e in molte altre circostanze, è sorretta da una convinzione che un giorno condividerà con le sue religiose: «In Paradiso vi è chi non fu martire né contemplativo né vergine ma non c’è nessuno che non sia stato umile». I santi – a questo punto bisogna dirlo – hanno una stranezza: con semplicità prendono sul serio tutto, soprattutto ciò che può portali alla meta tanto desiderata.

Il catechista

Non deve essere stato facile per Roscelli fare il catechista con quei ragazzi di strada. Don Pittaluga, che ha vissuto da ragazzo nell’ambiente, non esita a definire l’uditorio «primitivo, rozzo, ignorante». Oltretutto il catechismo è fissato ad un’ora poco felice per i ragazzi: nel pomeriggio della domenica e di tutte le feste, prima della passeggiata settimanale, quando gli animi già fremono per l’imminente uscita e la curva dell’attenzione è in picchiata libera. Tuttavia don Agostino assolve al compito affidatogli «con assiduità e molto zelo».

Non è il tipo di prete che mobilita l’istintivo entusiasmo dei ragazzi o CHE è dotato di una personalità che si impone. Alcune testimonianze sottolineano questo suo limite umano. Per esempio questa: «A noi ragazzi pareva una piccola cosa il don Roscelli, perché se ne stava nascosto, piuttosto tutto attorno alle cose di Chiesa. Noi ragazzi non lo credevamo un uomo di grande valore dal lato capacità e magari ridevamo un po’ per la sua voce nasale. Però avevamo per lui stima ed affetto». Un altro autorevole testimone, monsignor Sanguineti, osserva: «Nell’Istituto Artigianelli tra i ragazzi ed anche tra i grandi si aveva di lui il concetto di un santo prete sì, ma di un semplicione, di modesta levatura, per questo si rideva facilmente di lui e intorno a lui».

Il giudizio, che appare ingeneroso, è corretto da don Pittaluga, il quale pur ammettendo che Roscelli «non era un’aquila d’ingegno», riconosce che «era nutrito di buoni studi, era un buon confessore ed era un sacerdote che sapeva, come suol dirsi, il conto suo».

L’ex ospite degli Artigianelli sottolinea, come hanno fatto in tanti, che don Agostino non è uomo da mettersi in mostra; però quando è chiamato ad esprimere un giudizio o un parere su qualche argomento rivela «la sua prudenza, la nettezza delle sue idee, il fondamento di dottrina e di buon criterio» di cui è dotato. In altre pagine don Pittaluga sostiene anzi che è tenace ed anche un po’ testardo: una volta espresso un parere, difficilmente lo cambia, e chi ci prova sempre fallisce nell’intento.

I ragazzi raccolti nei vicoli di Genova da don Montebruno hanno quindi per molti anni un catechista preparato e di sana dottrina. Ciò che imparano sono sicuramente le verità professate dalla Chiesa. Le lezioni seguono uno schema consolidato: all’inizio Roscelli interroga i ragazzi avendo come testo base il catechismo diocesano, poi fornisce alcune spiegazioni. Per farsi capire spesso usa metafore, esempi, che secondo il giudizio di don Pittaluga non sempre sono pertinenti all’argomento sacro. Altre volte il linguaggio e le espressioni del catechista, immediate e singolari, suscitano ilarità e ci vuole tutta la pazienza e la semplicità d’animo del “povero prete” perché la lezione arrivi alla conclusione. Una volta diventati adulti, quei ragazzi ricorderanno però con affetto e gratitudine il catechismo di quel prete di cui a volte si burlavano.

Don Agostino deve anche vigilare sul comportamento dei ragazzi, durante i momenti di ricreazione e di notte nelle camerate, quando non ne vogliono sapere di dormire e si divertono a sfuggirgli. Il sacerdote è severo, richiama alla disciplina, è tenace, insistente, ma capita spesso che lui stesso cerchi di portare allegria fra i ragazzi e si metta a scherzare con spirito di famiglia.

Pittaluga, che l’ha visto in azione, sostiene che amava intrattenersi con i ragazzi, verso i quali «si abbassava, per tratto di bontà propria, fino a loro, senza però degradare la propria dignità e senza discendere in sdolcinature, da cui aborriva il suo carattere di austerità». Era insomma autorevole: «Quando comandava, comandava alla semplice, senza richiamo ai suoi titoli e alla sua autorità».

L’amministratore

«Un uomo che vorrebbe ricavare del grasso perfino dalle zanzare». Il giudizio di don Montebruno sul suo economo ci rivela con quale stile don Roscelli abbia intrapreso il delicato e pesante incarico di far quadrare i conti dell’opera di carità sociale in cui si era coinvolto. Uno stile improntato alla massima parsimonia: «Tutto avrebbe voluto fare con poco o nulla». In tutto questo probabilmente non sono estranee le sue origini contadine, la provenienza da una famiglia dove bisognava stare attenti ad ogni piccolo particolare per mettere insieme il pranzo e la cena. E probabilmente tanta parsimonia deriva anche dall’avvertire la responsabilità per la solidità dell’Istituto: come far continuare l’opera meritoria di strappare i ragazzi dai pericoli della strada se non si presta attenzione ad ogni piccola spesa e non si pratica il più ampio risparmio?

Così vediamo don Agostino mettere da parte ogni cosa possa un giorno tornare utile, senza doverla andare a comprare: «bottoni, chiodini, cordicelle, pezzi di straccio». Tanto che la sua stanza diventa ben presto un piccolo arsenale dove si trova di tutto. Ma chi chiede, prima di ottenere ciò che cerca, deve sottoporsi ad un interrogatorio sul perché e il percome gli servono le cose. Anche negli oggetti di culto, specialmente le candele, osserva la massima parsimonia: niente deve essere sprecato. È immaginabile che tenendo i cordoni della borsa così stretti, non certo per interesse personale, abbia suscitato qualche mugugno o qualche antipatia da parte di chi avrebbe desiderato una manica più larga.

Ma Pittaluga, che ci fornisce questi coloriti particolari sulla sua indole risparmiatrice, non manca di sottolineare il fine di carità che la anima. Il sacerdote ci informa, infatti, che grazie «alle sue particolari astinenze» riesce ogni anno ad accumulare una discreta somma che versa per i bisogni dei bambini in terra di missione. Gustoso il particolare di don Agostino che sovrintende alla cottura della pasta in cucina in modo da recuperare gli involucri di carta in cui sono custoditi spaghetti e maccheroni. Alla fine dell’anno, tutta quella carta che altrimenti sarebbe finita nella spazzatura, è invece recuperata e venduta, fino a ricavarne la discreta somma di cento lire, tutte destinate all’infanzia missionaria. Don Agostino come precursore della raccolta della carta a fini di beneficenza!

La povertà

Don Roscelli vive nella comunità degli Artigianelli in stato di povertà. Per i ragazzi strappati alla strada appare come un testimone credibile di questa virtù cristiana, che richiede distacco dai beni materiali per poter meglio abbracciare l’unica ricchezza, Gesù Cristo.

La sua camera è quanto di più spartano si possa immaginare: un antico divano senza soffice materasso, un tavolino, una scansia di legno bianco per i pochi libri, un catino per lavarsi, qualche quadro religioso, un grande crocifisso in legno. Di modesto, avverte Pittaluga, c’è anche lo strettissimo ingresso. Nel nuovo edificio dell’Istituto, don Montebruno realizza alloggi più degni di un sacerdote, ma lui non ne ha mai chiesto uno, ritenendo più che sufficiente la sua povera e semplice cameretta. Anche lo stile di vita personale è improntato alla più severa sobrietà. A tavola si concede solo il necessario e non accetta inviti a pranzo o a cena. Per la colazione si accontenta di un caffè fatto in camera con una rozza caffettiera, salvo accettare qualcosa di meglio dalle suore quando esce per celebrare Messa nei monasteri. Non chiede di riscaldare la stanza anche quando il freddo pungente lo richiederebbe. Non si concede gite di piacere, neppure mai si è regalato un viaggio a Roma, che pure nessuno avrebbe certo criticato come eccessivo, anzi opportuno per un sacerdote.

Per la cura del proprio abbigliamento, si affida al fratello che ogni settimana passa a prendere il fagotto delle sue cose e gliele riporta lavate e stirate. Chi, e anche in quel tempo sono in tanti, critica il clero per troppe concessioni alla vita comoda, rimane a secco di argomenti di fronte al rigore ascetico di don Agostino.

Egli si troverà un giorno a descrivere alla comunità religiosa, da lui fondata, la condizione dell’uomo moderno, che già è tale nella Genova dei suoi tempi: «Osservate la grande moltitudine degli uomini che ogni giorno si aggira sulla terra: chi va, chi viene, chi corre, chi viaggia, chi litiga, chi suda, chi, in qualunque modo, si affatica, e vedete che tutto questo gran movimento è sempre indirizzato ad avere qualcosa di più e costerebbe certo fatica trovare un uomo solo che farebbe un passo in meno per averne di meno. Non è forse evidente che le ricchezze non si acquistano senza mille sollecitudini, le quali soffocano, a guisa di spine, ogni buon seme della divina parola nei nostri cuori?».

Don Agostino abbraccia la povertà perché vuole che la sua vita sia un terreno fertile per la Parola di Dio.

L’uomo di fede

La testimonianza di Pittaluga sulla presenza di don Agostino fra gli Artigianelli è preziosa anche perché ci fornisce “in presa diretta” molti particolari sulla personalità di Roscelli che troveremo confermate e potenziate negli anni successivi.

Pittaluga descrive don Agostino come un uomo di grande fede. La sua totale adesione a Gesù Cristo è documentata soprattutto da una intensa vita di preghiera e dall’amore per l’Eucaristia. Apprendiamo così che celebra la Messa con grande devozione e – sottolineatura interessante a fronte di tanti preti dai gesti sgraziati – «con dignità della persona e dei movimenti». Roscelli ogni volta che si accosta all’altare per celebrare il Sacrificio, da cui è sgorgata la salvezza per tutti gli uomini, appare come un sacerdote che è pienamente compreso e coinvolto dal Mistero che le sue mani rendono presente. Molte delle più belle pagine delle sue Istruzioni sono quelle dedicate all’inestimabile dono che Gesù Cristo ha fatto agli uomini con l’Eucaristia. Parla di «amore eccessivo» da parte di Dio; con San Francesco di Sales ripete che «Il Redentore in nessun’altra occasione può manifestarsi più tenero e più amoroso che in questa: nell’Eucaristia in cui si annichila, per così dire e si riduce in cibo, per poter penetrare le anime nostre ed unirsi intimamente al cuore di ciascuno di noi». Lo si sente infiammato quando spiega che Dio non ama gli uomini da lontano: «Egli ama la personale presenza, e perciò si rende presente nel divino sacramento, sostanzialmente e realmente, con la sua divinità e umanità sacrosanta». Chi ritiene ancora oggi che il cristianesimo sia uno spiritualismo disincarnato, dovrebbe meditare la forza con cui don Agostino commenta questa volontà di Dio di essere fisicamente presente. Volontà che si documenta in quel “Accipite”, “prendete”, detto da Gesù durante l’ultima cena: «Accipite, prendete, qui rinchiusi sotto le apparenze del pane gli arcani più reconditi della mia infinita sapienza, gli sforzi più poderosi della mia onnipotenza, le amabili finezze della mia carità. Prendete la mia clemenza, la mia misericordia, la mia immensità, il mio essere eterno, tutti i miei divini attributi».

Quella Presenza è custodita nel tabernacolo e don Agostino ama starvi di fronte nella cappella dell’Istituto così come fa quando è nella chiesa della Consolazione in attesa delle persone che devono confessarsi. Nell’Istituto vengono conservate le ostie consacrate solo la domenica, per la benedizione serale, e don Agostino ne approfitta per intrattenersi a colloquio con la Presenza. Vale per lui la risposta che quel contadino diede al santo curato d’Ars quando questi gli chiese cosa facesse sempre in chiesa: «Io lo guardo, Lui mi guarda». Di questo scambio di sguardi si è nutrita con assiduità la fede di Roscelli che alle sue suore ricorderà con insistenza di ricercare «la dolce compagnia di Gesù» e le inviterà a considerare «l’amore di Gesù verso di noi nel farsi nostro compagno». In una Istruzione don Agostino sembra rimpiangere che si sia persa l’abitudine dei primi cristiani di portarsi a casa l’Eucaristia per avere sempre davanti agli occhi la divina presenza.

Pittaluga racconta che in Istituto è facile trovarlo in chiesa a pregare davanti al Santissimo Sacramento: in quei momenti sembra dimenticare tutto ciò che ha intorno. «Era come estasiato, una statua. Ritto sul genuflessorio, non l’ho mai visto appoggiarvisi per stanchezza». Quando nell’Istituto ci sono feste o spettacoli teatrali per concedere ai ragazzi qualche momento ricreativo, lui non vi partecipa e preferisce andare davanti al Tabernacolo. Pittaluga rivela di averlo trovato nell’oscurità, chino in atteggiamento di riverenza, oppure intento, alla luce di una lampada ad olio, a leggere libri di preghiera e di meditazione. Alle sue suore dirà un giorno: «Mente noi dormiamo il Suo cuore veglia e prega per noi il Suo divino Padre; veglia e difende da tanti pericoli la sua vita e fa da guardia alle nostre case. Se noi non siamo commosse da un amore così tenero, così costante, così benefico, diciamo pure che non abbiamo affatto fede, o che abbiamo un cuore indegno di vivere».

Don Agostino parla delle veglie solitarie di Gesù Cristo nel tabernacolo e in qualche modo descrive, senza rendersene conto, anche se stesso. L’apostolo della misericordia, il santo confessore della Consolazione, è anche il cantore appassionato della tenerezza di Dio manifestasi nel dono dell’Eucaristia.

Opere di carità in una città che cambia

Si racconta che una volta don Agostino Roscelli abbia sostenuto che lui non ha mai avuto l’intenzione di fondare una nuova comunità religiosa. Non lo diceva per omaggio all’umiltà, virtù che il sacerdote ligure ha sempre cercato di praticare al massimo livello. È semplicemente la verità. Roscelli condivide il destino e l’esperienza di molti altri fondatori: le loro opere non sono mai nate da una decisione presa a tavolino o da un progetto o interesse personale; sono piuttosto state il frutto dell’obbedienza ad alcune circostanze che si sono trovati a vivere. L’attenzione alla realtà e ai segni che Dio ha posto sul loro cammino, li ha portati ad essere, loro malgrado, verrebbe da dire, gli iniziatori di qualcosa di nuovo e di duraturo.

La conferma di questo metodo viene dall’esame delle circostanze in cui è maturata, fra mille difficoltà ed incertezze, la nascita delle congregazione delle Suore dell’Immacolata.

All’origine di tutto vi è la grande circostanza che ha segnato la missione sacerdotale di Roscelli per qualche decennio: la sua attività di confessore (“santo”, si diceva fra il popolo) nella chiesa della Consolazione. Ed è al suo confessionale che bisogna guardare per capire come un sacerdote che sembrava non avere alcun spirito di iniziativa, alcuna qualità organizzativa, si sia trovato (con grande meraviglia per chi lo conosceva) a dover fondare e dirigere una nuova comunità.

Le scuole-laboratorio per le ragazze

Il punto di partenza è dunque il confessionale, al quale don Agostino è rimasto sempre fedele anche quando ai suoi impegni si sono aggiunte le impegnative responsabilità educative ed amministrative all’Istituto degli Artigianelli. Nella chiesa della Consolazione, il sacerdote diventa il direttore spirituale di alcune giovani che si rivolgono a lui per avere indicazioni autorevoli circa il proprio cammino di fede. Fra queste ce ne sono tre che avranno un ruolo determinate in questa storia. Rispondono ai nomi di Orsola Beni, Teresa Gaggero e Caterina Sommariva. Tutte e tre appartengono alla congregazione delle Figlie di Maria sotto la protezione di sant’Angela Merici e sant’Orsola.  Si tratta di un sodalizio per l’educazione cristiana della gioventù femminile dove le ragazze approfondiscono il loro personale cammino di fede e la vocazione alla quale sono chiamate.

A don Agostino le tre giovani presentano una realtà della Genova della seconda metà dell’Ottocento che il sacerdote conosce anche direttamente, per via dei frequenti racconti che ascolta in confessionale.  Genova vive anni di rapide trasformazioni: nascono nuove industrie e verso la città converge un’immigrazione dai vicini paesi dell’entroterra. Persone che sono indotte a lasciare la campagna per cercare nella città una nuova opportunità di lavoro, che si spera più sicuro e meglio retribuito. Ma quando a trasferirsi sono i giovani, sia ragazzi che ragazze, è facile che nella ricerca di un lavoro in un ambiente sociale così diverso dal paese d’origine, incontrino situazioni pericolose che costituiscono una minaccia per la loro integrità morale. Lontani dalla famiglia, senza riferimenti educativi quotidiani, immersi in una realtà sconosciuta, questi giovani diventano strumento di facile guadagno di imprenditori senza scrupoli e rischiano facilmente di perdersi e di essere contagiati da uno stile di vita poco raccomandabile. Se questo è vero per i ragazzi, e al loro problema aveva cercato di rispondere don Francesco Montebruno con gli Artigianelli, lo è altrettanto per le ragazze, che rischiano oltretutto di diventare vittime di uomini che abusano della loro ingenuità.

Si manifesta l’esigenza che anche per loro ci sia l’opportunità di un ambito educativo, di un luogo dove imparare un mestiere che le renda autonome ed economicamente autosufficienti e dove anche completare l’istruzione ricevuta e soprattutto avere un’autorevole compagnia morale. Ascoltando certi racconti nel confessionale, don Agostino ha ben chiaro quale sia il problema e pertanto quando le tre giovani gli manifestano il desiderio di mettere al servizio le loro competenze per un’opera di carità sociale in favore di queste ragazze, gli si allarga il cuore e comprende che è arrivato il momento di rispondere ad una chiamata che da tempo avverte. «Il povero prete nascosto – ha sottolineato il cardinale Giuseppe Siri –  agì come se fosse stato un Padre della Chiesa. Individuò che le vittime si mietevano dove la mancanza di un lavoro autonomo e non di massa, dignitoso e retribuito, esponeva per lucro innocenti creature al pericolo».

Nel 1864 nasce la prima scuola-laboratorio in alcuni locali reperiti in via Colombo n.5, nella zona della chiesa della Consolazione, dove pure lui ha abitato per qualche tempo insieme ai famigliari. A disposizione della scuola-laboratorio ci sono due piani del palazzo. Nel primo trovano posto i laboratori di taglio, cucito e ricamo, attrezzati in modo spartano ma comunque con l’indispensabile per poter funzionare. Accanto ai laboratori anche una sala per gli incontri di carattere religioso e morale: alle giovani si vuole insegnare un mestiere ma anche fornire loro le indicazioni per una vita degna di essere vissuta.  È in questa sala per le conferenze che don Agostino incontra ogni settimana le ragazze che frequentano la scuola-laboratorio e le sue giovani collaboratrici. Il secondo piano è invece riservato ad abitazione delle maestre che hanno deciso di coinvolgersi nell’opera anche facendo vita comune, assumendosi tutte le responsabilità.

L’esperienza della scuola di via Colombo n.5 si rivela immediatamente un successo; nel giro di poco tempo le richieste di iscrizione superano di gran lunga il numero dei posti disponibili. Quella scuola è salutata come una favorevole opportunità anche dalle famiglie del ceto medio di Genova che vi vedono un ambiente sano dove mandare le proprie figlie a maturare una buona formazione professionale.

Dopo qualche anno don Agostino decide quindi di aprire una seconda scuola-laboratorio al n.71 di Borgo Lanaioli, fra l’attuale piazza Dante e via Ciccardi. La zona scelta è densa di popolazione, vivace nei traffici e nel commerci, e quindi anche questa seconda scuola si riempie facilmente di allieve.  Per il nuovo istituto si rende necessario ampliare il numero delle maestre e così alle tre pioniere si aggiungono le sorelle Rachele e Serafina Bailo, Antonia Pozzuolo e Teresa Poggi. L’ingresso delle nuove maestre, brave e preparate, consente di corrispondere alle richieste dei genitori che desiderano affiancare al ricamo e al cucito anche qualche ora di studio sulle materie prettamente scolastiche.

La giornata del “povero prete” don Agostino Roscelli diventa quindi sempre più densa di impegni: al mattino la celebrazione della Messa nei monasteri della zona di Carignano, quindi la presenza come braccio destro di don Montebruno all’Istituto degli Artigianelli, le ore di confessione e direzione spirituale nella chiesa della Consolazione, ed ora anche le visite periodiche alle due scuole.  Suor Matilde dell’Amore, una delle biografe del santo, immagina con felici espressioni la frenetica giornata di don Agostino: «Ci sembra quasi di vederlo, l’instancabile sacerdote, passare con la sua esile e dimessa persona, frettoloso ed assorto, tra carri e cavalli, intersecando i vicoli densi di case pavesate di biancheria stesa da una finestra all’altra, fra l’animazione dei negozi e le bancarelle dei verdurai, tra il cicaleccio delle comari, l’allegro vociare dei ragazzi e l’ammassarsi dei passanti attorno al vecchio barchile di piazza Ponticello, sempre generoso d’acqua fresca e zampillante».

In via Colombo e a Borgo Lanaioli il sacerdote non va solo per le conferenze di contenuto religioso per le allieve, ma anche per incontrare le giovani che si sono assunte la responsabilità di portare avanti quell’opera giorno per giorno. È lui che le guida, le sostiene, le incoraggia, le corregge quando se ne ravvisa la necessità. Loro per prime sanno bene che l’opera non è cominciata solo grazie alla loro intuizione e alla loro generosità ma anche e soprattutto grazie alla fede di quel sacerdote al quale hanno affidato la direzione della loro vita. E da questa origine non intendono staccarsi.

Una nuova comunità religiosa?

Con la nascita delle due scuole-laboratorio, le sette giovani maestre capiscono di aver trovato la loro vocazione.  Avvertono con chiarezza che la loro vita può essere utilmente spesa nell’occuparsi dell’educazione delle giovani genovesi bisognose di un valido ambiente dove crescere ed imparare un mestiere. Ma tutto ciò non è nato da un pur nobile sentimento di generosità e da un’apprezzabile volontà di spendersi per gli altri in un’azione – diremmo oggi – di volontariato. La vocazione di maestre è nata in loro dal desiderio di vivere in pienezza un’esperienza di fede e di esprimerla conseguentemente in un’opera. Ben presto si manifesta in loro un nuovo desiderio: completare il cammino intrapreso con una consacrazione totale a Dio, attraverso i voti di verginità, povertà e obbedienza. Già vivono insieme, ora vogliono diventare una comunità religiosa a pieno titolo. E ne cominciano a parlare con don Agostino.

La reazione del sacerdote è facilmente immaginabile. A lui il progetto sembra troppo ambizioso e soprattutto irrealizzabile. Fondare una congregazione religiosa gli sembra un’impresa da santi e lui si sente inadeguato. Già gli sembra di aver rischiato molto dando vita alle due scuole, pensare di fondare una congregazione religiosa gli sembra un progetto azzardato, voler fare il passo più lungo della gamba, quasi un atto di superba ambizione. Al desiderio delle sue giovani discepole si oppone fermamente con una infinità di argomenti: servono risorse finanziarie, autorizzazioni, appoggi, amicizie influenti, tutte cose che lui, il “povero prete”, non ha a disposizione. E poi ci sono le leggi dello Stato, le famose leggi Siccardi,  che hanno stabilito lo scioglimento degli ordini religiosi, figurarsi se con i tempi che corrono, con l’anticlericalismo galoppante e la questione romana ancora insoluta, si possa ragionevolmente pensare di imbarcasi in un’avventura di questo genere. Non se ne parla proprio. Oltretutto lui conserva l’impegno agli Artigianelli: cosa fa, pianta in asso don Montebruno e si mette a fare una congregazione di suore? No, non se ne discute. Se per don Agostino, tenace e risoluto dopo aver maturato un giudizio, il discorso è chiuso per sempre, non così per le giovani maestre che di tanto in tanto tornano sull’argomento e provano a far breccia nel suo cuore sottolineando, fra gli altri argomenti, che si tratta solo di dare veste formale a ciò che loro già vivono. Lui resta fermo nelle sue disposizioni, anche se, osservando quanto accadrà in seguito, possiamo intuire che all’idea ci abbia pensato e ripensato e fatta oggetto di conversazione diretta con il Signore nelle sue ore di preghiera e adorazione di fronte all’Eucaristia.

Il 1 marzo 1870 i fatti sembrano precipitare. Don Agostino si ammala gravemente e la sua vita appare in pericolo. Non sappiamo da quale malattia sia stato colpito, ma la gravità deve essere evidente e preoccupante. Tanto che le sue discepole, allarmate al pensiero di perdere la loro guida spirituale, si uniscono più volte in preghiera per chiedere, attraverso una novena a san Giuseppe (al quale è dedicato il mese di marzo) la grazia della guarigione del sacerdote. Le preghiere sono presto esaudite: già il 14 marzo le maestre e le allieve di Borgo Lanaioli vedono arrivare don Agostino, completamente ristabilito e pronto a riprendere le sue consuete attività. Dal quel giorno la devozione a San Giuseppe, già coltivata e promossa dal sacerdote, diventa una pratica seguita anche dalle sue figlie spirituali. San Giuseppe sarà indicato come uno dei protettori del nascente istituto. Due delle Istruzioni arrivate fino a noi sono dedicate a San Giuseppe: come uomo giusto, nell’accezione biblica, e come custode fedele di Maria e Giuseppe («Maria gli affidò la sua purezza ed egli gliela custodì con amore; Gesù gli affidò la propria vita ed egli gliela conservò con scrupolosità»). Ed entrambi gli interventi si concludono con l’invito ad invocarlo nelle necessità perché se tutti i santi chiedono le grazie – osserva Roscelli – San Giuseppe è l’unico che può comandare a Gesù.

Uomo da sempre attento a riconoscere nelle circostanze i segni della volontà di Dio, don Agostino ritiene che se il Signore lo ha strappato ad una morte che sembrava certa, significa che lo chiama a realizzare un’opera che non è frutto delle sue mani ma è voluta direttamente da Dio. Confortato da questa certezza, si mette al lavoro per verificare se ci sono le condizioni per dar vita alla congregazione religiosa tanto desiderata dalle sue  figlie spirituali.

Una ulteriore conferma gli viene dall’evolversi della situazione politica: nel settembre dello stesso anno, con la breccia di Porta Pia, si dissolve completamente ciò che restava dello Stato della Chiesa. Il papa adesso, come affermano polemisti cattolici, è “prigioniero in Vaticano”, però il nuovo governo unitario vara con le leggi delle Guarentigie una normativa meno oppressiva per gli ordini religiosi. Quindi non è più ardito pensare di fondarne uno.

Roscelli scopre Borgo Pila

Una comunità religiosa deve avere una casa, un convento, una sede idonea, e si deve quindi individuare un edificio adatto a questo scopo. Don Agostino pensa di costruirne uno nuovo e come prima attività si mette dunque alla ricerca di un terreno. La sua attenzione viene attirata dalla zona di Borgo Pila, tra il torrente Bisagno e le colline di Albaro, nella zona orientale della città. Quando Roscelli vi pone l’occhio, è una zona prevalentemente agricola, con orti, campi coltivati e giardini, poche case di contadini e qualche rara villa signorile. È da quella zona ancora rurale, popolata dai “bisagnini”, che Genova aveva sempre avuto il rifornimento di ortaggi, frutta, pollame, uova, formaggi. L’altra caratteristica che rende Borgo Pila una zona pittoresca e vivace, nonostante in quel momento sia ancora campagna, è la presenza di numerose locande dove alloggiano viaggiatori e forestieri diretti verso la città.

L’area, a causa della costruzione della linea ferroviaria per Brignole, subisce a partire dal 1867 una lenta ma inesorabile trasformazione.  Comincia una fase di urbanizzazione e, in mezzo agli orti e ai frutteti, vengono tracciate strade perpendicolari a via della Libertà, intorno alle quale poco a poco sorgono nuove costruzioni. Don Agostino, evidentemente attento alla città in trasformazione, a dispetto di chi lo dipinge come spiritualista e rintanato nel confessionale, individua in una di queste nuove strade una porzione di terreno che sembra proprio corrispondere alle esigenze della prospettata nuova comunità.  Il terreno individuato è nei pressi dell’Oratorio di Santa Zita, una piccola chiesa eretta dai lucchesi nel tredicesimo secolo.

Quando don Roscelli individua l’area, è l’inizio del 1872, e lui si avvia a  festeggiare il cinquantaquattresimo compleanno.  Nella primavera di quell’anno partecipa ad un corso di esercizi spirituali a Fassolo, sulle colline genovesi, nella casa dei Missionari di San Vincenzo, un luogo ameno con vista sul mare. Agli esercizi spirituali è presente anche l’arcivescovo di Genova, monsignor Salvatore Magnasco, che a suo tempo è stato anche docente di teologia dogmatica del seminarista Roscelli. Il timido sacerdote di Bargone coglie l’occasione per esporre al suo superiore l’idea che sta accarezzando, ed il presule reagisce positivamente. Osserva che un nuovo istituto in quella zona della città in rapida crescita e trasformazione sarebbe stata un’ottima iniziativa, considerando soprattutto che lo scopo è l’educazione femminile. Quindi monsignor Magnasco lo incoraggia senza riserve, solo gli raccomanda di tenere nel debito conto le esigenze finanziarie.

L’arcivescovo batte la lingua proprio sul dente dolente. Roscelli, povero prete per definizione, non ha certo gruzzoli nascosti da impiegare. Dispone solo di quando ha potuto trarre dalla liquidazione del suo patrimonio ecclesiastico e della dote di alcune delle ragazze impegnate come maestre nelle due scuole-laboratorio. In tutto fanno sessantamila lire, una somma non irrilevante, ma insufficiente per pagare il proprietario del terreno.

Bisogna quindi darsi da fare e trovare altri soldi. Ed ecco che il sacerdote, sempre descritto come timido e taciturno, trova la forza e il coraggio di andare a bussare alla porta di chi può aiutarlo. Roscelli non ha conoscenze altolocate, non è uomo di pubbliche relazioni, ma intuisce che le famiglie del ceto borghese di Borgo Pila, con il pensiero rivolto all’educazione delle loro figlie  possono essere interessate alla sua opera.   Così, bussando casa per casa, riesce a racimolare quasi l’intera somma necessaria. In verità mancherebbero ancora quindicimila lire ma il sacerdote fa affidamento sulla promessa di donazione di una signora facoltosa.

Questa attività assorbe le energie di don Agostino per quasi un anno. All’inizio del 1873 tutto sembra essere pronto per stipulare il contratto di acquisto. Le maestre delle due scuole-laboratorio sprizzano gioia e già pregustano la prossima fondazione della loro congregazione religiosa.

Ma le vie del Signore spesso non coincidono con quelle tracciate dagli uomini, anche quando agiscono su sua ispirazione.  Alcune circostanze mettono ancora una volta alla prova la fede di don Agostino e delle sue discepole.  La signora facoltosa, dopo aver tanto promesso, fa sapere di non poter più fornire alcun aiuto. Ma la tegola più grossa che si abbatte sulla testa del povero prete è un’altra: in quei giorni fallisce l’istituto di credito, la Banca Casareto, in cui il sacerdote aveva depositato la somma fino a quel momento raccolta.  Don Agostino rimane come coloro che nel 2008 avevano i loro risparmi nella tristemente famosa Lehman & Brothers: senza il becco di un quattrino.

Una debacle finanziaria di queste proporzioni avrebbe frenato qualsiasi progetto umano o qualsiasi persona. Ma non un uomo della tempra e della statura religiosa di don Agostino che, dopo aver tanto resistito al desiderio delle sue discepole, si è persuaso che è il Signore a chiamarlo a dare vita ad una nuova comunità religiosa. E pertanto, senza restare a compiangersi o a leccarsi le ferite, un attimo dopo è di nuovo all’opera. Una delle sue discepole della prima ora, Vittoria Tassara, ricorda che queste sono le sue parole in quel momento che non è esagerato definire drammatico: «Ma sì che si farà la fabbrica della Casa…e col suo cortile ed anche col suo terrazzo. È proprio ora che bisogna confidare in Dio, appunto perché non abbiamo più niente…sicuro, bisogna sperare contro ogni speranza! Siate voi fedeli al buon Dio e vedrete che Egli si lascerà vincere in generosità».

La carità chiama a nuovi impegni

Mentre don Agostino è alle prese con l’esigenza di dare una risposta alla pressante richiesta delle sue discepole circa la fondazione di una nuova comunità religiosa, altri campi di apostolato si aggiungono a quelli in cui è già coinvolto. Charitas Christi urget nos, scriveva San Paolo, e Roscelli sembra fare proprio il motto dell’apostolo delle genti.

Accanto ai carcerati

Il sacerdote, che alle sue suore ricorderà l’importanza delle opere di misericordia, corporali e spirituali, per primo si muove per dare testimonianza. All’inizio del 1872, l11 gennaio entra a fare parte della Compagnia della Misericordia di San Giovanni Decollato. È questo un sodalizio di origini antiche, formatosi dalla fusione della Compagnia delle Misericordia, confraternita che risale al quattordicesimo secolo, con la Confraternita di San Giovanni Decollato. Lo scopo della nuova associazione è di portare conforto spirituale e materiale a quanti sono rinchiusi nelle carceri cittadine. Altro compito storico è quello di assistere i condannati a morte nelle loro ultime ore prima di salire al patibolo. Sappiamo però che a Genova l’ultima condanna a morte, di un uomo accusato di omicidio, è stata eseguita nel 1855, quando don Agostino ancora non faceva parte della confraternita.  Il sacerdote ha quindi vissuto la sua adesione alla confraternita portando conforto e assistenza spirituale ai prigionieri.

Le carceri sono un luogo spesso invivibile e disumano anche ai nostri giorni, figurarsi nelle Genova della seconda metà dell’Ottocento. Già allora le cronache giornalistiche si occupano delle proteste di sociologi e filantropi che sostengono che dalle carceri di Sant’Andrea (antico convento fra Porta Soprana e piazza San Domenico) i detenuti escono peggio di quando sono entrati, tanto sono disumane le condizioni in cui sono costretti a vivere. Non abbiamo documenti o testimonianze dirette su come don Agostino si sia mosso in tale ambiente. Possiamo solo immaginarlo e possiamo ragionevolmente pensare che sia stato innanzitutto l’apostolo della misericordia. Il massimo confronto che lui, povero prete di Cristo, può portare a uomini abbruttiti dal proprio male e da una vita trascorsa fra violenze, odii e immoralità di ogni genere, è quello del perdono di Dio, che rigenera a nuova vita, che ridona dignità e speranza a chi si è perduto. Come nel confessionale della Consolazione, anche nelle carceri Sant’Andrea pratica il tipo di apostolato che gli è più congeniale, quello da uno a uno, da persona a persona, puntando a risvegliare nel cuore di ciascuno quel seme della presenza di Dio che nemmeno la più degradata e sregolata delle condotte di vita può definitivamente estirpare.

Cappellano al bretotrofio

Quando la carità di Cristo lo chiama, don Agostino risponde sempre. Nel 1874 assume un altro incarico che manterrà per ventidue anni, fino al 1896, e che lo porterà a contatto diretto con una delle piaghe sociali più diffuse nella Genova di metà Ottocento e anche in tutte le altre grandi città italiane.

La Deputazione Provinciale lo nomina cappellano dell’Ospizio dell’Infanzia Abbandonata, ovvero del brefotrofio dove sono accolti i minori senza genitori o subito abbandonati dopo la nascita. In quel periodo l’amministrazione decide di acquistare, come sede dell’Ospizio, una parte dell’edificio di proprietà delle suore Brignoline, in Salita delle Fieschine, scelto “sia per capacità, sia per la posizione abbastanza centrale e, nel medesimo tempo, abbastanza riservata”.

Capienza, centralità e riservatezza sono necessarie perché quell’ospizio possa assolvere al meglio il compito assegnatogli: quello di poter accogliere, senza dare troppo nell’occhio, i minori abbandonati. Il sistema in vigore fino a quel momento a Genova è quello antico della ruota degli esposti, introdotto per la prima volta a Roma da papa Innocenzo III. I neonati, avvolti spesso solo in qualche panno, vengono adagiati su una ruota che, al suono di una campana, viene girata senza che nessuno dall’interno veda chi ha deposto la cesta con all’interno un neonato. Dall’interno c’è sempre qualcuno che accoglie chi lì viene lasciato. È un sistema che oggi suscita enormi perplessità ma a ben riflettere è un sistema discutibile ma è quanto di meglio sia stato escogitato in quell’epoca per salvare la vita di un minore e garantire la privacy alla sventurata madre. Oggi l’alternativa alla ruota è purtroppo diventato il cassonetto, e non si può dire sia stato un gran progresso.

L’Ospizio dell’Infanzia Abbandonata in quegli anni è molto attivo e popolato. Le trasformazioni sociali, l’immigrazione dalle zone rurali, i cambiamenti culturali e morali, portano molte ragazze arrivate in città in cerca di un lavoro ad essere sedotte da uomini senza scrupoli che, dopo averle usate per il loro piacere, le lasciano alla loro solitudine e con una nuova vita in grembo.  Sono sempre storie di miseria materiale e morale quella che portano molte giovani madri a suonare il campanello della ruota degli esposti come l’unica soluzione per garantire un futuro ai loro figli.

In qualità di cappellano, uno dei compiti di don Agostino è di amministrare il battesimo a queste creature innocenti che a quel tempo la fredda burocrazia chiama “figli di N.N.”. Il “povero prete” sa invece che anche loro sono destinati ad appartenere ad una figliolanza che non ha origine dalla carne e dal sangue ma dallo Spirito Santo. Leggendo una sua esortazione “sulla dignità e i doveri del cristiano”, tutta centrata sull’immensità della grazia battesimale, possiamo immaginare con quale profondità di coscienza don Agostino si appresti ogni volta a versare l’acqua sul capo di quei bimbi pronunciando le parole indicate da Cristo: ego te baptizo in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. È la coscienza di chi sa di restituire, con quel gesto, a quelle creature, l’inestimabile dignità dei Figli di Dio, di chi li avvia nel cammino verso un destino buono ed eterno. Nel testo richiamato, Roscelli si sofferma sul «fortunato momento in cui si versa, nel fonte battesimale, l’acqua salutare», sottolineando che con quel gesto «l’anima morta per il peccato ha ricevuto una nuova vita». Grazie al battesimo, l’anima dell’uomo riacquista la primitiva bellezza, l’originaria somiglianza con Dio.  In questo sacramento, l’uomo contrae un’alleanza particolare con la Santa Trinità: diventa figlio di Dio, fratello di Gesù Cristo e tempio dello Spirito Santo.  Don Agostino cerca ed usa tutte le parole che conosce («dignità», «eccellenza», «gloria», «onore») per far capire quale avvenimento fondamentale sia per la vita di un uomo il battesimo. Non è certo un rito, un’abitudine, una consuetudine sociale, ma è una natura nuova e definitiva che viene donata alla persona.

I registri dell’Ospizio dell’Infanzia abbandonata ci informano che il sacerdote don Agostino Roscelli, in ventidue anni, ha amministrato in quella cappella qualcosa come 8.484 battesimi. Il numero così elevato induce subito a calcolare una media: più di un battesimo al giorno, per ventidue anni. La conferma di quanto la piaga sociale dell’abbandono dei minori in tenera età sia a quel tempo diffusa. Per ben 8.484 volte, don Agostino ha vissuto la gioia, e perché no anche l’emozione e la commozione, di far nascere alla vita nuova in Cristo quei bimbi che la sorte aveva fatto venire al mondo senza essere riconosciuti da un padre e da una madre.

Il ministero all’Ospizio dell’Infanzia abbandonata non si limita ad amministrare il battesimo ai bimbi, ma riguarda direttamente le madri di quei neonati. Molte mamme, pur avendo dovuto lasciare il figlio al brefotrofio, continuano ad interessarsi di lui, si presentano per chiedere notizie, per conservare un rapporto.  Le nuove leggi approvate in quel periodo hanno sancito l’abolizione della ruota escogitato un mezzo per mantenere l’anonimato della madre e la possibilità di un rapporto con il figlio. Veniva dato alla giovane donna un sacchetto di juta, numerato, contenente la metà di una medaglia. L’altra metà è conservata dall’Ospizio e il sistema permette così di accertare che la donna che si presenta sia effettivamente la mamma. Ciò permette a don Agostino di entrare a contatto con queste sfortunate giovani che il perbenismo dell’epoca si limita a giudicare in malo modo. Ad esse offre al conforto spirituale e materiale, offre il dono più prezioso di cui egli, sacerdote, può disporre: il perdono di Cristo. L’apostolo della misericordia, il “santo” confessore della Consolazione, è pienamente attivo anche a Salita delle Fieschine. Fondamentale è, questo proposito, la testimonianza di una religiosa, suor Vincenza Spada, delle Suore di Carità, che presta servizio nel brefotrofio: «Don Agostino si tratteneva per ore e ore nel confessionale, ed era sempre buono, paziente, infervorato con tutte, dalla prima all’ultima che si presentasse ai suoi piedi; tutte desiderava condurre al Signore…chi si avvicinava al suo confessionale, ne partiva sempre confortato, infervorato e sicuro del perdono di Dio».

La benedizione di Pio IX

Rimettendosi all’opera per verificare se ci sono le condizioni per fondare la nuova comunità, Roscelli vuole essere confermato se quanto sta cercando di realizzare corrisponde alla volontà di Dio. E chi, meglio del Santo Padre, del capo supremo della Chiesa, del vicario di Cristo in terra, come ha ribadito nel 1870 il Concilio Vaticano I interrotto dai bersaglieri piemontesi, può esprimere tale giudizio? Il sacerdote pertanto nel giugno del 1875, tre anni dopo l’interruzione forzata del percorso, prende carta e penna (un altro sarebbe andato direttamente a Roma, ma non don Agostino) e scrive una lettera a Pio IX esponendogli il suo progetto. E da Roma arrivano la conferma e l’incoraggiamento tanto desiderato. Il Papa gli risponde con quel «Deus benedicat te e opera tua bona» (Dio benedica te e le tue opere buone), che da quel momento è giustamente considerato dalle Suore dell’Immacolata una sorta di carta di fondazione del loro istituto. Il pontefice come ulteriore segno di incoraggiamento invia a don Agostino la somma di cento lire, poca cosa rispetto alle esigenze, ma il segno tangibile che quell’opera è voluta anche dalla carità del Santo Padre.

Con rinnovato entusiasmo e ardore, il sacerdote si rimette a cercare i finanziamenti. Questa volta può contare anche su una lettera di presentazione dell’arcivescovo che gli apre molte porte e molti portafogli. In poco più di un mese con i soldi raccolti e con qualche prestito ottenuto, don Agostino Roscelli può finalmente stipulare il contratto d’acquisto del terreno di Borgo Pila.

Nascono le Suore dell’Immacolata

Nell’estate del 1875 si apre finalmente il cantiere in via Volturno, così si chiama la nuova strada di Borgo Pila lungo la quale don Agostino ha acquistato il terreno.  Il sacerdote segue direttamente l’andamento dei lavori, senza però rinunciare a nessuno degli impegni pastorali che nel tempo ha assunto: le confessioni nella chiesa della Consolazione, la messa e la predicazione nei monasteri, i battesimi dei bimbi e la confessione delle madri nell’Ospizio dell’Infanzia Abbandonata, la presenza fra gli Artigianelli di don Montebruno e quella nelle carceri.

Il tempo passa e fatti nuovi si aggiungono. L’8 dicembre 1875, nel secondo altare della navata destra della chiesa della Consolazione, viene collocata la statua in legno, opera dello scultore Stefano Della Valle, che rappresenta  la Vergine Immacolata.  Con la statua si vuole ricordare la proclamazione del dogma dell’Immacolata, effettuata da papa Pio IX nello stesso giorno di ventuno anni prima. Un dogma che aveva avuto una inaspettata e clamorosa conferma nelle apparizioni della Vergine a Lourdes, nel 1858. Ad una contadinella ignorante delle più elementari verità del catechismo, Bernardette Soubirous, si presenta una bella signora che afferma di essere l’Immacolata Concezione. Un’espressione che la ragazzina non aveva mai udito e della quale neppure conosceva il significato. Sappiamo cosa da quelle apparizioni è stato generato – un flusso di grazia che continua ancora oggi – , e sappiamo anche l’eco che la proclamazione del dogma (accolta in Italia con grande entusiasmo)  e i successivi fatti di Lourdes hanno provocato nell’animo di don Agostino. Lo sappiamo perché per il nascente istituto religioso pensa proprio all’Immacolata e ad essa lo vuole dedicare. Quelle ragazze che passo dopo passo, assecondando la volontà di Dio, lo hanno portato a fondare una congregazione religiosa, si chiameranno Suore dell’Immacolata.

Gran movimento, in quegli anni, anche agli Artigianelli, dove nel 1872 l’arcivescovo Salvatore Magnasco inaugura la nuova Cappella, frutto di un ampliamento di quella originaria. La struttura viene ingrandita anche per fare posto ad una moderna ed efficiente tipografia, che contribuisce notevolmente al sostentamento economico dell’istituto. Il fiorente sviluppo dell’opera di don Montebruno rende meno problematico il distacco di Roscelli che da lì a poco si sarebbe realizzato.

Il cantiere di via Volturno

L’edificio che dall’estate 1875 si va costruendo in via Volturno non solo non è un capolavoro di architettura ma è quanto di più alieno da qualsiasi criterio estetico ed armonico si possa immaginare. I lavori sono fatti in assoluta economia, secondo lo stile di don Roscelli che nulla butta via e tutto riutilizza. Vicino alla nascente casa delle future Suore dell’Immacolata, è in corso la demolizione di alcuni vecchi palazzi. Tutto ciò che può finire al macero – tegole, travi, mattoni, mattonelle, porte, finestre – viene recuperato dal sacerdote per il proprio cantiere. Si capisce allora perché un edificio costruito in prevalenza con materiali di scarto, molto diversi fra loro, assuma giorno dopo giorno un aspetto non proprio armonico.  «La distribuzione dei locali – ci informa suor Matilde dell’Amore – era asimmetrica, i pavimenti erano un insieme disarmonico di mattoni e di ardesia, come pure le scale: eterogenee erano le imposte delle finestre, le porte e gli infissi». La costruzione non ha dunque nessun aspetto estetico e fanno difetto anche le più elementari comodità, accettabili anche in una comunità religiosa che ha fatto voto di povertà.  Tutto è improntato allo stile austero e povero di don Agostino. L’edificio, a tre piani, ha però il cortile che le maestre hanno tanto desiderato come spazio all’aperto in cui far giocare un giorno le bambine affidate alle loro cure. La parte meglio riuscita, con il soffitto decorato a stucchi e le inferriate in ferro battuto, è la cappella che si presenta intima e raccolta.

Ma le considerazioni estetiche non interessano più di tanto le future ospiti della casa, per le quali l’edificio in qualche modo rappresenta la realizzazione concreta di un ideale di vita abbracciato da tempo.

I lavori terminano all’inizio dell’autunno del 1876 ed il 15 ottobre le maestre cominciano ad abitare nella nuova casa. Nelle Costituzioni da lui scritte nel 1891 don Agostino così descriverà quanto accaduto in quel giorno: «Il pio Istituto delle Suore dell’Immacolata ebbe la sua origine in Genova, Borgo Pila, il giorno 15 del mese di ottobre 1876, quando alcune povere figlie, coadiuvate dal povero sacerdote don Agostino Roscelli , si radunarono a vivere insieme, allo scopo di meglio attendere alla loro santificazione, e meglio cooperare alla santificazione dei loro prossimi». Era nata una nuova realtà: infatti le scuole-laboratorio erano sorte per rispondere ad un acuto bisogno sociale della Genova del tempo, ma lo scopo ultimo dell’opera, e della nascente congregazione religiosa, è individuato nel comune cammino verso la santità. Non si può certo dire che il “povero prete” non guardasse in alto.  In un altro passo del testo fondativo precisa: «La norma del loro vivere, per nulla severa ma semplice e benigna, dovrà essenzialmente ridursi ad amare Iddio sommamente, amare il possiamo in Dio, amare insomma e servire, faticare e pregare, ed in tutto sempre obbedire ad imitazione di Gesù Cristo, obbediente fino alla morte di croce. Da questa norma non si devono mai allontanare». Don Agostino sorprendentemente dice che è una via semplice: intende dire che lo scopo non è realizzare immani iniziative. No, semplicemente si tratta di amare Dio e il prossimo. Viene in mente Paul Claudel nel suo “Annuncio a Maria”: «Perché affannarsi tanto quando è così semplice obbedire?».

Le prime suore dell’Immacolata

Nella cappella di via Volturno, il 22 ottobre 1876, avviene la cerimonia che sancisce la nascita della nuova congregazione religiosa. Le prime suore dell’Immacolata sono Rachele Bailo, Teresa Poggi, Antonia Pozzuolo, Vittoria Tassara, Celeste Raggio e Maddalena Noli. Altre due maestre, Clarice Beggi e Serafina Bailo, pur facendo vita comune e continuando l’apostolato nella scuola, chiedono un ulteriore periodo di preparazione prima di fare anch’esse la professione religiosa.

In quel giorno memorabile per la storia dell’Istituto, le sei nuove suore professano solennemente i voti di povertà, castità e obbedienza, e dichiarano di accettare la regola che don Agostino Roscelli ha scritto per loro e che l’arcivescovo monsignor Salvatore Magnasco ha approvato. In quel giorno, inoltre, le novelle religiose indossano anche l’abito (azzurro, con il velo bianco) che pubblicamente sancisce il loro nuovo stato di vita.

Se, come abbiamo visto, lo scopo ultimo è il cammino verso la santità, le modalità concrete in cui il cammino si esplica sono l’aiuto alle ragazze povere ed orfane attraverso istituti di educazione (scuole, formazione professionale, asili infantili). Nelle Costituzioni del 1891 don Agostino precisa con queste parole: «L’Istituto delle Suore dell’Immacolata abbraccia principalmente la istruzione ed educazione delle fanciulle, sì povere che civili, accetta scuole anche nelle borgate; presta pure l’opera sua a quelle pie istituzioni cui fosse richiesto, come ospedali, case di Provvidenza, ricoveri di mendicità, collegi, asili infantili, ed anche assistenza infermi a domicilio». Sono subito assegnati i nuovi incarichi: a suor Clarice Beggi viene affidata la scuola, suor Maria Celeste Raggio ha la responsabilità dell’asilo, suor Maria Vittoria Tassara e suor Maria Maddalena Noli si occupano dell’insegnamento del cucito. Ben presto viene anche convocato il primo capitolo generale che elegge come superiora suor Maria Giovanna Bailo.

È arrivato il momento, per don Agostino, di lasciare il suo incarico agli Artigianelli. Va quindi ad abitare nella nuova casa di via Volturno, dove ha a disposizione, secondo il suo stile, una piccola, povera e disadorna stanzetta, che le suore chiamano con il nome impegnativo di “direzione”. È piccola e povera ma situata in un punto strategico della casa, permettendo così al sacerdote di aver sempre sott’occhio l’andamento della comunità e di intervenire puntualmente quando le circostanze lo richiedono.

Sulla via della Croce

La nuova congregazione religiosa incontra subito le prime difficoltà. E, circostanza ancora più amara, a volte provengono da uomini di Chiesa. Don Agostino si adopera perché nella cappella dell’Istituto possa essere celebrata la messa, così da non costringere le suore ad uscire ogni giorno. Il vicino oratorio di Santa Zita è diventato parrocchia ed il parroco non vede di buon occhio l’eventualità che nel suo territorio possa sorgere un altro punto di riferimento religioso. Il suo parere è vincolante e alle pressanti richieste di Roscelli risponde sempre in modo vago, se non reticente. Le suore devono quindi andare a messa a Santa Zita, in verità poco distante, ma per raggiungere la chiesa le religiose devono attraversare piazza Paolo da Novi dove stazionano giovani che le prendono di mira con parole insolenti e offensive, soprattutto in ragione del loro appariscente abito di colore azzurro.  Don Agostino le indirizza quindi verso un’altra chiesa, San Pietro della Foce, raggiungibile attraverso stradine secondarie in modo da evitare gli insulti dei giovani maleducati.  Quando le suore gli chiedono ragione di tante difficoltà per avere la loro cappella, lui risponde: «Che volete! Bisogna pregare, ormai hanno gettato la pietra nel pozzo».  Allude al fatto che qualcuno si è messo di traverso e non è facile smuoverlo. Il problema è finalmente risolto nel 1877 quando l’arcivescovo monsignor Magnasco incarica per dirimere la questione un altro sacerdote, don Domenico Ghigliazza, e così si può procedere alla benedizione della cappella che diventa la chiesa dell’Istituto.

Risolto un problema, se ne presenta subito un altro per la giovane comunità. Nel 1878 suor Clarice Beggi, l’insegnante della scuola, amata e stimata perché bravissima nel suo incarico, si ammala gravemente e nel novembre di quell’anno torna alla casa del Padre. Per don Agostino e le religiose non è solo un grave lutto ma è anche un vuoto che si crea nell’organizzazione della scuola.  Nell’immediato il suo posto è coperto da una maestra laica, ma subito altre giovani suore sono preparate per poter affrontare l’esame per il diploma magistrale che superano brillantemente presso la Scuola Normale Raffaello Lambruschini.

Ma altre prove, ancora più dolorose, segnano il cammino del “povero prete”. Non gli sono risparmiate le false accuse, le calunnie, le dicerie infondate, che prendono di mira anche la sua onestà e la sua dignità sacerdotale. È il destino che molti altri fondatori di opere nate dalla fede hanno condiviso prima di lui: il bene suscita nei cuori aperti il desiderio di imitazione ma in altri, cedevoli alle subdole suggestioni del male, induce a comportamenti moralmente riprovevoli.

Una giovane suora, che pure aveva dato fino a quel momento buona prova di sé, dopo un periodo di malattia di probabile origine isterica, torna a casa della madre e da quel momento comincia a dar vita ad una campagna di denigrazione. Le voci maligne sono talmente insistenti da provocare un’ispezione delle autorità comunali che si recano in via Volturno per verificare come siano trattate, quanto a vitto e alloggio, le ospiti di via Volturno.  L’ispezione si conclude con un giudizio positivo e con l’incoraggiamento a proseguire nella buona opera. Ma è immaginabile lo scompiglio e lo sconforto che possa aver provocato. Anche perché le calunnie corrono veloci ed un padre, uditele, si presenta al convento per ritirare la propria figlia.  Che però insiste ed è risoluta nella decisione: a suo tempo anche il padre arriverà ad approvare la sua scelta. Questi fatti, con la presentazione di un don Agostino che vuol far entrare le ragazze in convento contro la loro volontà, appaiono anche su giornali a larga diffusione, con le conseguenze che si possono immaginare.

Quando questi episodi accadono, don Agostino è già un anziano sacerdote, che oltre alla responsabilità per la nuova comunità religiosa (agli inizi, senza una tradizione alle spalle cui fare riferimento), si divide fra gli impegni di confessore, di cappellano fra i bimbi senza genitori, di apostolo fra i carcerati. Alle fatiche quotidiane si aggiungono il peso e l’amarezza provocati dalle false accuse.  Addirittura una ragazza, uscita dalla comunità e incontratolo per strada, lo schiaffeggia. Come reagisce? Le testimonianze che sono giunte a noi concordano nell’affermare che tutto questo diventa per lui motivo di preghiera, di offerta al Signore, di maggiore conversione personale.

«Nelle avversità e nelle amarezze che l’affliggevano – ha detto suor Maria Vittoria Tassara – faceva coraggio anche a noi e diceva “bisogna sperare anche contro la speranza”». Un’altra religiosa, suor Maria Serafina Vassallo, afferma con risolutezza: «Ha sempre perdonato ai suoi nemici e a tutti quelli che gli arrecarono o gli fecero del male».

Padre e maestro

Don Agostino non aveva, per  così dire, “studiato” per diventare fondatore e direttore di una congregazione religiosa. Le circostanze e l’obbedienza alla volontà di Dio che attraverso di esse si manifesta, lo hanno portato a vivere, nella seconda metà della sua esistenza, questo delicato e impegnativo ministero. Egli avverte tutta la responsabilità del compito che gli è stato affidato, tanto che nelle Costituzioni del 1891 scrive «che sopra di lui specialmente posa tutta la buona e cattiva riuscita dell’Istituto, la pace e lo scompiglio, l’ordine o il disordine e che dovrà rendere conto strettissimo a Dio delle anime che furono alle sue cure affidate».

Per le sue figlie spirituali, diventare le Suore dell’Immacolata, egli è soprattutto un padre. Certamente ruvido e a volte burbero, come è nel suo carattere, ma capace anche di grandi slanci di dolcezza e tenerezza, come hanno testimoniato le prime che lo hanno seguito. Il cardinale Dionigi Tettamanzi, che è stato arcivescovo di Genova e autore di una biografia di Roscelli, ha scritto che il suo metodo per guidare le figlie è fortiter et suaviter, ispirato cioè a fortezza e soavità.

Mostra una sollecitudine paterna nel seguire diligentemente tutto ciò che riguarda la vita della casa, fino a farsi egli stesso elettricista o falegname quanto la necessità lo richiede. Quando le suore partono per la fondazione di una nuova comunità, si preoccupa che abbiano tutto il necessario, controlla i bauli, si informa di ogni particolare. E dopo che sono partite, va a trovarle per vedere di persona come procede la nuova comunità e rende presente in mezzo a loro la sua figura paterna. Come un padre premuroso, così le suore percepiscono il loro direttore.

Lui è un padre cosciente che l’amore per le sue figlie può spesso essere esigente, perché per loro desidera il massimo. Ed il massimo, per don Agostino, è niente di meno che la santità.

Si coglie in pieno questo atteggiamento paterno in una delle sue Istruzioni, pronunciata probabilmente verso la fine della sua esistenza, perché all’inizio del discorso accenna al fatto che riteneva di non dover più prendere la parola davanti a loro. «Ve lo confesso al cospetto di Dio, in faccia la cielo e alla terra, che non parlerò mai se non per il vostro bene; anche se dovessi a volte toccare cose spiacevoli al vostro amor proprio, lo farò sempre con affetto di padre, il quale ammonisce i suoi cari figli perché li vorrebbe tutti buoni, tutti santi e vorrebbe che mai nessuno cadesse in alcun difetto».  Un padre che le desidera tutte sante ma che pure è cosciente che questo traguardo non dipende da lui ma solo dalla loro accoglienza della parola di Dio da ascoltare «con riverenza, con attenzione, con semplicità, con fede, e mi saprete poi dire i meravigliosi effetti che produrrà nei vostri cuori».

La regola principale che il sacerdote indica è «sempre imitare Gesù Crocifisso, cioè pensare come pensava Gesù, operare come operava Gesù, trattare con Dio e con il prossimo come trattava Gesù; e tutto dobbiamo fare con l’aiuto e la protezione di Maria, nostra amorosissima Madre, a costo di qualunque sacrificio».

La vera religiosa, secondo Roscelli, in quanto consacrata a Dio non deve che occuparsi di Dio e del servizio a Lui. Ciò ha evidentemente delle conseguenze. La prima è il distacco dal mondo: «La religiosa deve guardarsi dall’avere stima delle cose della terra, anzi deve tenerle in conto di spine, come le chiama il Vangelo, spine che angustiano e tormentano chi le possiede. (…) Non deve mai aspirare a conseguire beni terreni, ma piuttosto qualora ne avesse, cercherà di usarli sempre in bene, a gloria di Dio, a sollievo dei poveri».