AMORE DI GESÙ VERSO GLI UOMINI
(nell’essere loro ricompensa in eterno)
La carità non dice mai basta: essa è immensa come è immenso Dio da cui ha origine; quanto più si ama, tanto più si cerca di amare.
La carità è come il fuoco che è sempre in moto, né mai si posa, finché non abbia convertito tutto nella propria sostanza. Voi non vedete mai il fuoco ozioso; qualunque cosa gli mettete vicino, esso tutto distrugge e consuma. Ove si appicca, si distende con le sue fiamme, s’innalza con le sue vampe e sempre più si infuria e si accresce. Divora i boschi, incenerisce le selve, atterra i palazzi, distrugge le città. Seppellito, si dissotterra con grande impeto; rinchiuso, si apre l’uscita con grande violenza; trattenuto, vince ogni ostacolo con forza insopprimibile. Mai si stanca, mai si posa, mai si sazia.
Così e non altrimenti opera la carità: quando essa investe davvero un’anima, non è possibile che questa viva indolente e neghittosa, ma sempre la spinge ad opere sante e virtuose a favore dell’oggetto amato, ripetendole sempre al cuore: «Anima amante, dammi frutti di amore, dammi stenti, fatiche, sudori, dammi insomma prove di carità».
Di questa carità così operosa era acceso per gli uomini l’amantissimo cuore del nostro divino Maestro. Egli non ci amò di un amore sterile ed inoperoso,
O con semplici parole, ma ci amò con amore efficace, benefico e generoso, affrontando volentieri per noi fatiche, stenti, pericoli, ignominie, morte e morte di croce.
E come se tutto questo fosse poco, noi abbiamo già visto come Egli, per eccesso di ardentissimo amore per noi, volle farsi nostro compagno e seguirci in tutti
i momenti della nostra vita; nell’ultima Cena volle rendersi cibo delle anime nostre; morendo sopra una croce volle farsi prezzo del nostro riscatto, pagando con il suo Sangue i nostri debiti con la divina Giustizia. L’amante Suo cuore però non fu ancora pago di tutto questo.
Egli volle di più donare Se stesso, in Cielo, come eterna ricompensa ai suoi eletti, come considereremo insieme brevemente questa sera.
I grandi della terra danno in premio, a chi li abbia serviti meglio, una parte di quegli stessi beni che ad essi sopravanzano; certamente nessuno è mai giunto al punto di dare se stesso, anche al più fedele dei suoi servi.
Voi solo, o Re della gloria e Sposo delle nostre anime Cristo Gesù, date realmente ad ogni Vostro servo fedele, quanto di bene Voi avete. Voi promettete generosamente a chi vinca le battaglie della vita, che lo farete sedere con Voi sullo stesso Vostro trono.
E come se ciò fosse poco, aggiungete di volergli dare perfino Voi stesso, in modo che egli divenga beato e gioisca di quel medesimo gaudio di cui gioite Voi eternamente. Dove mai tra gli uomini si vide un simile esempio di amore? Ora comprendo, o mio dolce Gesù, perché Voi, nelle divine Scritture, così sovente ripetete di venire presto: perché al Vostro amatissimo cuore un’ora di attesa sembra mille anni, tanto desiderate di possedere totalmente noi, oggetti carissimi del Vostro amore.
Comprendo ancora perché aggiungete che siete Voi la nostra stessa mercede, perché Voi temete di non ricompensare abbastanza la nostra fedeltà, se non ci assegnate come ricompensa quanto Voi siete, cioè Voi stesso.
Frattanto, Sorelle mie, mentre Gesù, per nostro bene, differisce questo Suo desiderio di averci con Lui in Cielo per largamente ricompensarci, consoliamoci nell’attesa con il ricordo affettuoso delle promesse che Egli tante volte ci ha fatto. «Io vado – diceva agli Apostoli – io vado a prepararvi un posto nella Casa del mio Padre Celeste; e dopo avervelo preparato, verrò di nuovo a voi e vi prenderò con me, affinché siate anche voi dove sono Io». Soavissime parole che devono confortarci, poiché furono proferite anche per noi.
Ma a Gesù sembra di non essersi spiegato abbastanza. Quindi si volge, con estasi divina, al celeste Suo Padre e Gli dice: «Padre, io voglio che dove sono io siano, insieme con me, anche quelli che Voi mi avete dato. Io ho fatto loro conoscere il nome nostro, e lo farò ancora, affinché sia in essi la stessa predilezione con cui Voi prediligete me».
O gioia, che tutto inebria il mio spirito! Gesù in me, ed io in Gesù; Gesù sempre con me, io sempre con Gesù. È mai possibile che io meriti un tanto bene? Io dunque, peccatore miserabile e reo di tanta ingratitudine, devo andare con Gesù, vedere Gesù, vivere eternamente con Gesù. Eppure Gesù vuole che io sia dove Egli è. «Padre, io voglio». Io credo dunque alla Vostra parola, o mio Gesù: i cieli e la terra passeranno, ma le Vostre parole non passeranno mai. Io so che Voi, mio Redentore, siete vivo; so che un giorno, risorgendo anch’io dalla terra, vivrò nuovamente rivestito della mia carne, e in questa carne vedrò Voi, mio Dio; Vi vedrò con questi stessi miei occhi; così Voi m’insegnaste per bocca di Giobbe, e tale speranza io nutro nel più intimo del mio cuore.
E voi che dite, Sorelle mie? Non sono questi gli stessi vostri sentimenti che nutrite nell’intimo del vostro cuore? Notate, però, che io non solo spero di essere un giorno con il Signore e di vedere il mio Dio faccia a faccia, così com’è, ma io lo desidero ancora ardentemente. Per me lo desiderano con ansia vivissima gli spiriti già beati; anche la Chiesa, Sposa di Gesù Cristo, lo sta pregando continuamente perché venga; ed io che ascolto Gli dico: «Vieni». Lo Spirito e la Sposa dicono: «Vieni Signore Gesù», e quelli che ascoltano ripetono: «Sì, vieni». Così l’Apocalisse.
«Venite, venite presto, o Diletto dell’anima mia, venite e saziatemi eternamente di Voi. Venite e toglietemi per sempre dal pericolo di offendervi. Il vivere lontano da Voi, per chi ama, è una specie di morte e di inferno.
Questa lontananza si è protratta già troppo per me: troppo ho già soggiornato in questo misero mondo.
Quando dunque verrò, o Signore, e comparirò innanzi a Voi? Fino a quando mi sarà differito il desiderio ardente che ho di essere con Voi per sempre?».
Gesù, Sorelle mie, ha pietà delle mie e delle vostre pene ed ancora una volta ci assicura che presto verrà. Aggiunge, però, che verrà di notte, che verrà come un ladro, che verrà in quell’ora in cui meno Lo aspetteremo. Noi dunque, quali vergini prudenti dobbiamo sempre vegliare con la lampada accesa, affinché, in qualunque ora Egli venga, le anime nostre siano pronte ad uscirGli incontro e siano trovate degne delle nozze con l’Agnello immacolato.
Qui, Sorelle mie, mi accorgo che mi volete fare una domanda e cioè: «Che cosa significa l’espressione evangelica sopraccennata: vegliate con la lampada accesa per essere pronte ad andare incontro allo Sposo?» Avete ragione, ed eccovi la spiegazione.
Vegliare con la lampada accesa, dice S. Gregorio, vuol dire fare opere buone animate da spirito di carità, la quale virtù deve splendere come lampada ardente in tutte le nostre azioni, i nostri pensieri e le nostre parole, essendo solo la carità che rende accette, presso Dio, le nostre opere e le rende degne di eterna ricompensa. Dice bene S. Giovanni: «Chi non ama, è morto», cioè non può fare alcunché di meritorio per la vita eterna.
Per imitare dunque la carità operosa di Gesù Cristo verso gli uomini, dobbiamo applicarci con serio impegno, mediante il divino aiuto senza del quale nulla possiamo, in primo luogo ad avvicinare tutti con grande affabilità, facendo buon viso soprattutto a coloro, verso i quali sentissimo un po’ di avversione; e facendo nessuna distinzione fra poveri e ricchi. Gesù infatti, non fece distinzione alcuna: accolse con grande amore i fanciulli che venivano a Lui; con grande benevolenza accoglieva pure i peccatori, tanto che i farisei giunsero a fargliene un capo d’accusa.
In secondo luogo dobbiamo prestarci volentieri a tutte quelle opere di carità spirituali e corporali, che possono giovare al nostro prossimo, e che non disdicono, però, alla nostra consacrazione religiosa. Non dobbiamo star molto a sofisticare se siamo o no tenuti per giustizia: questo tipo di giustizia è troppe volte la peggior nemica della carità. Gesù Cristo andò a Betania a consolare le sorelle di Lazzaro; sfamò più volte le turbe nel deserto con cibo miracoloso, e per convertire le anime: quanti passi, quanti sudori, quanto sangue, eppure non era affatto obbligato.
In terzo luogo, senza essere richieste, dobbiamo spontaneamente offrire noi stesse a queste opere di carità, cercando, per quanto è possibile, di scoprire l’altrui bisogno, che tante volte il nostro prossimo non osa manifestare.
Così fece Gesù, il quale s’invitò da solo nella casa di Zaccheo per santificarla; attese la Samaritana al pozzo per convertirla; andò ad incontrare il paralitico presso la piscina probatica per risanarlo nel corpo e nell’anima; e non è forse sempre Lui il primo, con la Sua santa grazia, a prevenire perfino chi non Lo cerca, anzi Lo fugge?
I Santi, proprio perché animati dal vero spirito di Dio, non facevano consistere la santità in sole pratiche di pietà esteriori, ma, come deve essere propriamente, nell’imitazione di Gesù Cristo e si distinsero talmente nella carità verso il prossimo che ci lasciarono esempi meravigliosi.
S. Margherita M. Alacoque, impiegata nell’educazione delle giovani convittrici che erano nel suo Monastero, sebbene sentisse tanta ripugnanza per tale ufficio, tuttavia usò con esse squisita gentilezza, per amore di Gesù Cristo. Altrettanto fece verso le novizie dopo che fu eletta maestra.
Si legge pure che era industriosissima nell’aiuta-re il prossimo con l’opera sua. Preveniva le altrui necessità e, sia da semplice religiosa che da Superiora, si offriva sempre amabilmente ad aiutare le Consorelle nei loro lavori.
Tale generosa carità la esercitava, soprattutto, a favore delle anime. Un giorno Gesù S.N., le mostrò l’anima di una religiosa tiepida e le disse: «Ecco una religiosa solo di nome, che io presto rigetterò dal mio cuore per abbandonarla a se stessa». Subito la fervorosa discepola di Gesù Cristo supplicò in favore di lei e si offrì a patire qualunque supplizio per quella poveretta, purché non volesse abbandonarla.
S. Teresa poi si distinse moltissimo nell’esercizio della carità. Non è da meravigliarsi, che chi fu una Serafina di accesissima carità verso Dio, non lo fosse pure verso il prossimo. Accennerò solo qualche cosa della grande carità della Santa verso gli infermi, poiché mi è impossibile dilungarmi, data la ristrettezza del tempo e la vastità della materia.
La cura degli infermi fu il campo, in cui Teresa
si distinse per un amore perfetto ed operoso. Quando non poteva soccorrerli con le opere, vi suppliva con vivissimi desideri e pregava per loro tanto fervorosamente, da ottenere talvolta anche guarigioni prodigiose.
Non si può dire quanta cura usasse, perché le sue religiose fossero bene assistite nelle loro infermità. Quando le era possibile, teneva loro compagnia, le accarezzava e le consolava.
Anche se la malattia fosse contagiosa, si accostava a loro con indicibile amorevolezza, le baciava, e mangiava perfino nel loro stesso piatto. Era lei la prima a rifare i loro letti, a pulire le loro camere, a condire il cibo e a porgerlo loro di propria mano. Procurava loro anche più del necessario e soleva dire che deve piuttosto mancare il necessario alle sane, che il soprappiù alle ammalate.
Lo stesso Gesù approvò questi suoi caritatevoli atti e, apparendole una volta, le impose Lui stesso che nei suoi monasteri si avesse particolare cura delle inferme; e che quella Superiora che non provvedesse e non curasse caritatevolmente le inferme, sarebbe come gli amici di Giobbe.
Aggiungeva che Egli, per il bene delle anime loro, le provava con le infermità, e le Superiore, con la loro noncuranza, davano motivo alle povere inferme di mancare di pazienza. Da ciò Teresa imparò a non tralasciare nessuna diligenza, né a risparmiare nessuna spesa per risanare le sue inferme, e si mostrò sempre pronta a qualunque sacrificio per loro.
Scrivendo alla Madre Priora di un monastero, tra le altre cose, le diceva così: «Le raccomando codeste inferme, e mi creda Madre mia, che quel giorno in cui venissero meno le inferme, le verrà a mancare un grande bene».
Però Teresa, pur esercitando tanta carità verso le Consorelle inferme, voleva che esse si mostrassero molto pazienti nelle loro infermità.
Se talvolta avveniva che il Signore permetteva che mancasse loro qualche cosa, voleva che sopportassero lietamente la loro penuria e non uscissero in lamentele, perché il lamentarsi per non avere le cose come si vorrebbero, è segno di grande amor proprio e superbia. L’umiltà infatti, conoscendosi meritevole di nulla, riceve tutto come una grande carità che le viene fatta, e di niente si lamenta.
La Santa ricordava loro la povertà che avevano professato per seguire il loro Sposo Gesù. Diceva loro che erano come delle romite, e perciò dovevano essere generose e valorose imitatrici dei penitenti e austeri Padri dell’eremo. Così animava tutte alla sofferenza.
La Santa ha poi severamente biasimato nel «Cammino di perfezione», coloro che per ogni piccolo male vorrebbero una dispensa, e sono così premurose nel curare la loro salute, che talvolta, ingannate dall’apprensione, si credono malate e si ritengono dispensate dall’esercitare le penitenze e i digiuni prescritti.
Ecco Sorelle mie come agivano i Santi, che erano veramente forgiati sul divino modello Gesù. Imitiamo anche noi i loro esempi e allora potremo dire con verità di amare Gesù e di aspettare con sicurezza le sue eterne ricompense. Amen.