Che cos’è il Regno di Dio?

Dal Vangelo secondo Luca
Lc 17,20-25
In quel tempo, i farisei domandarono a Gesù: «Quando verrà il regno di Dio?». Egli rispose loro: «Il regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione, e nessuno dirà: “Eccolo qui”, oppure: “Eccolo là”. Perché, ecco, il regno di Dio è in mezzo a voi!».
Disse poi ai discepoli: «Verranno giorni in cui desidererete vedere anche uno solo dei giorni del Figlio dell’uomo, ma non lo vedrete.
Vi diranno: “Eccolo là”, oppure: “Eccolo qui”; non andateci, non seguiteli. Perché come la folgore, guizzando, brilla da un capo all’altro del cielo, così sarà il Figlio dell’uomo nel suo giorno. Ma prima è necessario che egli soffra molto e venga rifiutato da questa generazione».

Ma cos’è, davvero, il Regno di Dio? Non è un luogo lontano, non è un’idea astratta: è qui, proprio adesso, nel nostro presente. È un cammino che nasce nei nostri gesti quotidiani, nelle scelte di ogni giorno. Perché, sai, il Regno di Dio lo costruisci anche tu. Come? Lascia che ti racconti…

Commento a:
Il regno di Dio è in mezzo a voi (Luca 17,20-25)

Immagina una storia, di quelle che rivelano quanto le azioni possano parlare più forte delle parole. Nei miei libri, spesso, mi piace chiamarle le “Pagine viventi di Vangelo”. E la cosa incredibile è che quelle pagine siamo proprio noi. Sì, noi persone comuni, che, nel piccolo di ogni giorno, ci lasciamo guidare dal cuore e dalla coscienza. Gesù non cerca eroi: vuole persone autentiche, uomini e donne normali, che, con l’esempio, illuminano il mondo. Che tu sia uno studente, un fornaio, un medico, o un operaio, puoi essere una “pagina vivente” di quel Vangelo, ogni volta che scegli di incarnare quei valori.

Dio ci ha fatto un dono unico, speciale, per ognuno di noi. Qualcuno sa donare saggezza, altri portano conforto o coraggio, c’è chi ascolta e chi fa sorridere. E tu, ti sei mai chiesto quale dono speciale ti è stato affidato? Qual è quel talento che Dio ha piantato in te per portare luce agli altri?

Ecco la risposta: qualunque esso sia, il tuo compito è coltivarlo. Fare in modo che cresca e fiorisca. Anche oggi, proprio come duemila anni fa, Dio manda persone come te e me a portare la Buona Novella, ma non con parole vuote. No, non bastano le parole. Ci vogliono azioni, azioni che tocchino davvero il cuore di chi è in cerca di Dio.

Un sacerdote che conosco, un missionario che porto nel cuore, ama raccontare questa storia: «Un giorno, san Francesco incontrò frate Ginepro, un frate semplice e buono, e gli disse: “Frate Ginepro, vieni, andiamo a predicare.” “Ma padre mio,” rispose Ginepro, “Sai bene che non so parlare alla gente.” Ma san Francesco insistette, e insieme girarono per la città. Pregarono in silenzio, pregando per i lavoratori, sorridendo ai bambini, aiutando chi aveva bisogno. Dopo un’intera giornata, san Francesco disse: “Frate Ginepro, è ora di tornare.” “Ma… e la predica?” chiese Ginepro. “L’abbiamo fatta,” rispose Francesco con un sorriso». A volte, sono proprio le azioni a predicare meglio di qualsiasi parola.

Questo è il Regno di Dio: è qui, oggi, nelle tue mani, nel tuo cuore, in ogni gesto d’amore che nasce in te. È il seme che Dio ha piantato nella tua anima, pronto a germogliare. E allo stesso tempo è nel domani, nel giorno in cui saremo finalmente uniti a Lui, in una gioia senza fine #Santanotte

Alessandro Ginotta

.

IL SILENZIO UMILE DEL PANE

Domenica 18 agosto 2024

Testo del Vangelo (Gv 6,51-58): In quel tempo, Gesù disse alla folla: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo». Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».

       Il vangelo continua il racconto del durissimo conflitto di  Cafarnao, quando, di fronte alla crisi, il Rabbi alza la posta e scopre le carte, con una pretesa che gli fa dire: solo io so chi è Dio.
Non lo sanno i profeti, non lo sanno i rabbini.
“Io solo, perché io e Dio siamo una cosa sola”.
E ce ne rovescia l’immagine:
Ti avvicini a lui diventando umano, toccando piaghe e dolori e non riempendo la vita di riti, preghiere e pensieri devoti.
Ma facendoti a tua volta pane, un pezzo di pane buono spezzato per la fame e la pace del mondo.
Poi, in otto versetti, ripete altrettante volte: chi mangia la mia carne vivrà in eterno.
L’eternità è qualcosa che interessa sempre meno i credenti di oggi, forse perché vista come durata e non come intensità.
La vita eterna non è quella misurata su una lunghezza indefinita e che può apparire un po’ noiosa, la vita eterna è la vita stessa “dell’Eterno”.
E allora tu capisci che nella vita dell’Eterno ritrovi il pulsare delle stelle, gli abissi dei mari, l’esultanza degli amanti, il grido vittorioso del bambino che nasce, i tamburelli di Miriam mentre il popolo attraversa il mar Rosso.
E c’è il volto stupefatto di tua madre quando ti ha preso in braccio la prima volta, e il sorriso del povero che tu hai soccorso.
Gesù ha scelto il pane come suo simbolo perché se c’è una cosa che sa di vita, è proprio il pane.
E perché allora ci deve supplicare per otto volte: prendete e mangiate?
Perché abbiamo mangiato male prima!
Perché la vita ci ha regalato traumi da togliere il fiato, e sotto sotto pensiamo che nessuno dia niente per niente, che l’amore vada meritato.
Cosa dovrò dare in cambio a Dio?
Che prezzo devo pagare, in fatiche, sacrifici, impegni?
Non c’è nessun prezzo da pagare, niente da dargli in cambio, niente!
Dio non si compra e non si merita, si accoglie.
E’ vederlo mentre sorridente mi viene incontro, felice che io sia lì!
Non mi chiede in cambio nulla, se non un cuore largo e il mio fiorire in pienezza, e magari un piccolo grazie per la danza fatta insieme.
E poi di nutrirmi di lui, di carne e sangue, due termini che racchiudono la sua umanità e le sue mani di carpentiere profumate di legno, le sue lacrime, le sue passioni, gli abbracci dati e ricevuti.
E mi dice: prendete il mio modo di abitare la terra, di entrare nelle case, di chiedere acqua alla samaritana e di far scendere Zaccheo dall’albero, di toccare gli intoccabili, di non mandare mai via nessuno.
Mi ha cercato, mi ha atteso. Si dona. ​
Io posso solo accoglierlo, stupito e confuso, perché prima che io gli dica “ho fame”, sento lui dirmi: prendi! Mangia! Nutriti di me, come un bimbo che nel grembo della madre si nutre del suo sangue.
Egli entra in me come pane, si trasforma in me e mi trasforma in lui, e diventiamo una cosa sola.
Noi ci attendiamo segni grandiosi e Gesù ce ne rovescia l’idea: Dio viene e non si impone, scompare nel silenzio, si dissolve nell’umiltà del pane.
Quel suo pane che sa di vita, perché la nostra vita sappia di pane.
Il nostro compito è non andarcene da questo mondo senza essere prima diventati un pezzo di pane buono, spezzato per la fame di qualcuno, per la pace di tutti.

Per gentile concessione di p. Ermes, fonte.



Messaggero di pace e di speranza

Ma se Dio ha fatto della Maddalena un messaggero di pace e di speranza, non di meno ha in serbo per te, che leggi queste righe, incredibili sorprese. Egli è qui, accanto a te e ti dice…
Commento a:
Ho visto il Signore e mi ha detto queste cose (Giovanni 20,1-2.11-18)
Era terminato da poco il riposo del sabato, sacro per gli israeliti. Nel giorno della Passione non c’era stato tempo per completare i riti funebri; per questo, in quell’alba, gli occhi ancora umidi di lacrime, le donne si recano alla tomba di Gesù con gli unguenti profumati. La prima ad arrivare è lei: Maria Maddalena, una delle discepole che avevano accompagnato Gesù fin dalla Galilea, mettendosi a servizio della Chiesa nascente.
Perfino gli apostoli più fidati, dopo la cattura di Gesù, ad uno ad uno, se ne erano allontanati. Giuda lo tradì, san Pietro lo rinnegò, molti erano fuggiti verso le campagne, altri si erano rifugiati lungo le sponde del lago di Tiberiade. Sotto la Croce, insieme alla Vergine Maria, incontriamo lei, Maria Maddalena, con l’apostolo Giovanni.
Ed ecco che, la donna “chiacchierata”, prima nei Vangeli, poi dalla letteratura, è la prima persona a testimoniare al mondo la Risurrezione di Cristo! Di lei San Luca scriverà: “C’erano con Gesù i Dodici e alcune donne… Maria, chiamata Maddalena, dalla quale erano usciti sette demoni” (Luca 8,1-2). L’accostamento di Maria Maddalena, che asciugherà con i suoi capelli il corpo di Cristo profumato di unguenti, con la peccatrice di cui San Luca, senza per altro citarne il nome, ci parla nel capitolo precedente (Luca 7,36-50), colei che irromperà durante la cena offerta da Simone il fariseo per inginocchiarsi a piangere sui piedi di Gesù, per poi asciugarli con i suoi capelli, ha fatto sì che alcuni la identificassero con la stessa persona, ma non c’è alcuna evidenza che lo fosse. Anzi, è molto probabile che si tratti di due personaggi dalla storia completamente diversa.
È bello, intimo e personale, il dialogo tra Cristo e la Maddalena. Mentre lei sta lì, triste vicino alla tomba, Dio la sorprende nella maniera più inaspettata chiamandola per nome. L’evangelista san Giovanni ci racconta che Maria non si accorge della presenza di due angeli che la interrogano, e nemmeno s’insospettisce vedendo l’uomo alle sue spalle, che lei pensa sia il custode del giardino. Invece scoprirà di essere la prima testimone dell’avvenimento più sconvolgente della storia dell’umanità: la Risurrezione di Cristo!
Com’è bello pensare che la prima apparizione del Risorto sia avvenuta in un modo così personale! Che c’è qualcuno che ci conosce, che vede la nostra sofferenza e delusione, e che si commuove per noi, e ci chiama per nome. È una legge che troviamo scolpita in molte pagine del Vangelo. Intorno a Gesù ci sono tante persone che cercano Dio; ma la realtà più prodigiosa è che, molto prima, c’è anzitutto Dio che si preoccupa per la nostra vita, che la vuole risollevare, e per fare questo ci chiama per nome, riconoscendo il volto personale di ciascuno. Ogni uomo è una storia di amore che Dio scrive su questa terra. Ognuno di noi è una storia di amore di Dio. Ognuno di noi Dio chiama con il proprio nome: ci conosce per nome, ci guarda, ci aspetta, ci perdona, ha pazienza con noi.
Prova a chiudere gli occhi per un istante e ad immaginare Gesù che ti chiama per nome e ti dice: “Rialzati, smetti di piangere, perché sono venuto a liberarti!”. Sì, non ti meravigliare, perché Gesù sta chiamando proprio te in questo istante. Chiama te che stai cercando Dio attraverso le parole di questa pagina di Vangelo. il tuo stesso leggere queste righe implica che tu, in qualche maniera, stai cercando Dio, proprio come la Maddalena cercava Gesù dentro al sepolcro.
Ma se Dio ha fatto della Maddalena un messaggero di pace e di speranza, non di meno ha in serbo per te, che leggi queste righe, incredibili sorprese. Egli è qui, accanto a te e ti dice: “Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura” (Marco 16,15). Anche noi possiamo correre per le strade del mondo ad annunciare: “Ho visto il Signore!” (v. 18). Ho cambiato vita perché ho visto il Signore! Adesso sono diverso da prima, sono un’altra persona, perché ho incontrato Gesù!
Perché è questo che accade ogni volta che lo incontriamo: ci salva, ci purifica, ci perdona, ma soprattutto ci ama. Così, con il nostro bagaglio di peccati ed errori, anche noi, proprio come la Maddalena, poter diventare suoi apostoli. Cambiare ed evangelizzare.
#Santanotte amici Dio tiri fuori la parte migliore di ciascuno di noi!
Alessandro Ginotta

SULLA SPALLA DI DIO

Vangelo di domenica 21 luglio –  (Mc 6,30-34): In quel tempo, gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato. Ed egli disse loro: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’». Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare.
Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte. Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero.
Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose.
Da quel pellegrinaggio fatto a due a due, i dodici sono tornati.
E il successo è evidente: così tanta gente che non avevano neppure il tempo di mangiare.
E Gesù li vede stanchi.
Annunciare stanca. Farlo con cuore e senza mezzi stanca anche di più.
Abbiamo una malattia tutta cattolica che è quella di essere eroici, di non mostrare mai cedimenti, mai crepe, di essere sempre sul pezzo.
Il vangelo di oggi dice altro: c’è tanto da fare in Israele, malati, lebbrosi, vedove, ciechi, eppure Gesù, invece di buttare i discepoli dentro il vortice del dolore cosa fa? Li porta via con sè, per insegnar loro qualcosa.
Questo meraviglioso vangelo rivela la prima delle tre cose che Dio vuole per noi: lui vuole persone felici, non cerca eroi!
Andiamo a riposarci un po’.
Non dice ai dodici: andiamo a pregare o a ripassare la lezione. No, andiamo in vacanza! Andiamo a fare semplicemente le creature, senza uno scopo, e la vita si prenderà cura di noi.
Sbarcano e subito sono circondati da più gente di prima. Addio silenzio, finita la pace, tutti i programmi saltati.
Il progetto era sacrosanto. Andiamo a tirare il fiato, e Dio non glielo lascia fare. C’è di che innervosirsi.
Ed ecco che Gesù anziché dare la priorità al programma dà la priorità alle persone: sappi che tu vali più dei programmi, perfino di quelli di Dio.
Il motivo è detto in queste due parole: Gesù prova compassione.
Il termine indica un morso, un crampo, uno spasmo dentro, un male allo stomaco.
La prima sua reazione è provare dolore per il dolore del mondo, e tutto quello che segue deriva da questo.
Gesù chiama i dodici e affida loro questo suo sentimento che dovranno preservare, custodire, salvare.
Devono imparare le viscere di Dio, ed è la seconda cosa che Lui vuole per noi. Se c’è, fra noi, gente che sa ancora provare compassione davanti al dolore dell’uomo e della donna, allora c’è ancora speranza per il mondo.
Terzo atto della sinfonia della vita. Gesù vede, prova compassione e parla: si mise a insegnare molte cose.
Forse abbiamo dimenticato che c’è una vita profonda in noi, e Gesù la raggiunge, e allora è come una manciata di luce gettata nel cuore di ciascuno, a illuminare la via.
La risposta di Gesù alla folla dolente che lo assedia non sono miracoli o guarigioni, ma sono gli apostoli, inviati a prendersi cura; sono io, siamo noi, se abbiamo imparato il cuore di Dio.
Dio vide ciò che aveva fatto: bello! Lo amò, e poté riposarsi.
Amare riposa!
Andiamo in vacanza con Dio! Proviamo a riposare con lui: una preghiera al mattino, un piccolo brano, un silenzio breve ma intensamente cercato.
Cerchiamo un luogo in cui posare la testa sulla spalla di Dio.
È il grande insegnamento di quel giorno: impariamo uno sguardo che abbia commozione e tenerezza, e poi le parole di cura nasceranno.

Per gentile concessione di p. Ermes.

Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria. Perchè?

Vangelo di domenica 7 luglio  – Vangelo secondo Marco (Mc 6, 1-6)

In quel tempo, venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono. Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità. Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando.

Commento: – Chi parla è l’invidia. Non la tua, la sua. Chi stronca il tuo lavoro spesso sa bene quanto vale, ma ti teme. È talmente codardo che, invece di confrontarsi con te ad armi pari, preferisce lanciare frecce avvelenate, senza capire che così avvelena solo la sua anima, non la tua.

Vediamo l’etimologia di due parole: benedire e maledire. Benedire deriva dal latino “benedicere”, composto da “bene” (bene) e “dicere” (dire), che significa “dire bene” o “augurare il bene”. Questo termine descrive l’atto di invocare protezione, grazia o favore divino su qualcuno o qualcosa. Al contrario, maledire deriva dal latino “maledicere”, composto da “male” (male) e “dicere” (dire), che significa “dire male” o “augurare il male”. Indica l’atto di invocare una maledizione o un danno.

Attenzione: nessuno dovrebbe mai maledire qualcun altro. Chi lo fa diventa strumento del demonio. Il verbo del cristiano è “amare”, e chi ama desidera sempre il bene dell’altro, applicando il comandamento dell’amore.

Maledire sporca l’anima di chi lo fa e causa un progressivo allontanamento da Dio. Bisogna stare attenti perché la maledizione colpisce soprattutto chi la pronuncia. Il Siracide scrive: “Chi maneggia la pece si sporca, chi frequenta il superbo diviene simile a lui” (Siracide 13,1). Il denigratore, parlando male del tuo lavoro, non solo ti mette in cattiva luce, ma, contravvenendo al comandamento dell’amore, si sporca di uno dei peggiori peccati: uccidere l’entusiasmo e la speranza. E questo, come puoi immaginare, a Dio non piace per nulla!
Ippocrate, 400 anni prima di Cristo, diceva che riporre fiducia nelle capacità di un’altra persona è come aprire le finestre per far entrare il sole, permettendo alla luce e al calore di rendere tutto più luminoso. Con la nostra fiducia contribuiamo al successo dell’altro. Al contrario, danneggiamo chi ci rifiutiamo di riconoscere, impedendogli talvolta perfino di agire.

«Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?» (vv. 2-3). Chi ci conosce da tempo, chi ci ha visti crescere, non sempre sa essere obiettivo nel valutare le nostre capacità. Probabilmente perché ha visto tutti i nostri fallimenti. Occorre non guardare chi ci sta intorno attraverso la lente opaca dell’abitudine, ma essere pronti ad accogliere le sorprese che possono coinvolgere ciascuno di noi: sì, possiamo cambiare, anche se sembra improbabile! Guarda ZaccheoSan Paolo, e San Disma: l’incontro con Cristo ha operato un profondo cambiamento in loro. Non rimanere ancorato alle tue convinzioni, ma apriti sempre al possibile.

Oltre a mantenere la nostra anima luminosa, abbiamo il dovere di usare uno spirito critico quando ascoltiamo commenti negativi sugli altri. Così evitiamo di prestare orecchio alle maldicenze e di diventare complici nel diffondere informazioni non verificate.

«Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità (vv. 5-6). Vedi com’è potente la maldicenza? Può perfino impedire a Gesù di operare miracoli. I miracoli di Cristo non sono una esibizione di potenza, ma segni dell’amore di Dio, che si attua dove incontra la fede dell’uomo. Maledire, parlare male di qualcuno, può paralizzare il bene. E noi non vogliamo che accada questo, vero?

Di Alessandro Ginotta da: “La buona Parola”

Vangelo di domenica 23 giugno 

Un granello di quiete

Testo del Vangelo (Mc 4,35-41): In quel giorno, venuta la sera, Gesù disse ai suoi discepoli: «Passiamo all’altra riva». E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui. Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?». Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?». E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?».

Commento –

La nostra vita è come il mare di Galilea, a volte calmo e a volte in tempesta, ma le nostre instabili e piccole barche sono state costruite non per restare ancorate in porto, ma per prendere il largo.
Siamo tutti naviganti, non possiamo fare a meno di attraversare il lago.
“Passiamo all’altra riva” dice Gesù, e i discepoli accolgono il suo invito e si mettono in barca: e lo presero con sé, così com’era.
Gesù è talmente stanco che nella traversata si addormenta.
Improvvisa sul lago si scatena la tempesta. E Gesù dorme:, affidandosi ai suoi ragazzi, loro sì esperti di lago.
“Non ti importa che moriamo?”
La risposta, senza parole, è raccontata dai gesti “minacciò il vento, parlò al mare, che assicurano a ciascuno: mi importa di te, mi importa la tua vita, tu sei importante. Mi importano i passeri del cielo e tu vali più di molti passeri, mi importano i gigli del campo e tu sei più bello di loro. Tu mi importi al punto che ti ho contato i capelli in capo e tutta la paura che porti nel cuore.
E sono qui.
A farmi argine e confine alla tua paura. Sono qui nel riflesso più profondo delle tue lacrime.
La fede non è una assicurazione contro le burrasche della vita; le tempeste non si evitano e non si fuggono, si attraversano.
Perché avete così tanta paura?
Dio non è altrove e non dorme. È già qui, sta nelle braccia degli uomini, forti sui remi; sta nella presa sicura del timoniere; è nelle mani che svuotano l’acqua che allaga la barca; negli occhi che scrutano la riva, nell’ansia che anticipa la luce dell’aurora.
Il Signore salva attraverso persone (R. Guardini).
Dio è presente, ma a modo suo; vuole salvarmi, ma lo fa chiedendomi di mettere in campo tutte le mie capacità, tutta la forza del cuore e dell’intelligenza.
I discepoli vogliono un Dio che spazzi via le tempeste, e subito!
E invece Dio si fida di loro e li accompagna nel mezzo della burrasca. Non agisce al posto mio, ma insieme a me; non mi esenta dalla traversata, ma mi accompagna nell’oscurità. Non mi custodisce dalla paura, ma nella paura. Così come non ha salvato Gesù dalla croce, ma nella croce.
Perché avete paura? Non avete ancora fede?
I discepoli hanno fede sì, ma nel Dio che risolve i problemi, che tappa i buchi della nostra fragilità, lui invece scava pozzi di coraggio e dignità.
Non avete fede? Credere nel miracolo non è vera fede; troppo facile, troppo comodo. Quanta gente ha più fede nei miracoli che in Dio! “No, credere a Pasqua non è vera fede. Troppo bello sei a Pasqua. Fede vera è al venerdì santo….” (D. M. Turoldo).
Fede è perseverare nella burrasca.
E dopo che ha fatto tutto ciò che poteva al cristiano si apre lo spazio di un di più, un qualcosa che Lui solo ha, una pace sul mare, il miracolo imprevisto, il vento che tace, lo scintillio della fiducia negli altri.
Il di più di Dio, che non sta in riva al lago ad osservare, ma è presente nel buio, come granello di luce nella notte, granello di quiete, di fiducia, di bonaccia.
Che inonda di pace perfino le nostre tempeste.

Per gentile concessione di p. Ermes Ronchi