Introduzione
La Quaresima non è un tempo per consacrati/cristiani tristi, non è lo spazio in cui esporre la propria resistenza in digiuni e penitenze. Non è il momento per canti tristi e “in minore”. Il titolo che questa mattina dà il tono al nostro ritrovarci, apre l’orizzonte per consegnarci il vero significato della Quaresima in una delle sue molteplici prospettive. Essa è tempo per riscoprirci figli!
Uno scrittore nordamericano, Cormac McCarthy, nel suo romanzo “La strada”, racconta di un padre e un figlio (entrambi senza nome) che in un’America sopravvissuta a una non meglio descritta catastrofe che ha spazzato via ogni essere vivente, tranne gli uomini, percorrono una lunga strada asfaltata verso sud, spingendo un carrello, per sfuggire ai rigori invernali. Le giornate dei due personaggi sono caratterizzate da una costante lotta per procurarsi del cibo, per ripararsi dalle rigidità del clima, nel continuo terrore di imbattersi in altri loro simili, divenuti – in questo contesto – pericolosi. Il romanzo sottolinea l’orrore di un’umanità abbandonata a sé stessa, dove non esiste più Qualcuno capace di impedire la lotta omicida dell’uomo con l’uomo, di impedire il famoso homo homini lupus, di impedire cioè che l’uomo sia lupo per l’altro uomo.
In questo panorama desolante e catastrofico, però, c’è un dettaglio che non può passare inosservato. Emerge, infatti, sempre più il peculiare comportamento del bambino nei confronti di quell’ambiente ostile, come se mantenesse un costante filo di speranza. Nel romanzo torna spesso, quasi come ritornello, il dialogo tra padre e figlio: «Ce la caveremo, vero, papà? Sì. Ce la caveremo. E non ci succederà niente di male. Esatto. Perché noi portiamo il fuoco. Sì. Perché noi portiamo il fuoco».
Ciò che caratterizza la vita di un consacrato non sono le sue capacità, i traguardi che raggiunge, le opere che può amministrare ma è questo fuoco che ha dentro. È il fuoco che Gesù è venuto a portare, è il fuoco dello Spirito santo per mezzo del quale noi gridiamo: “Abbà Padre!”, riconoscendoci figli! È il fuoco della nostra consacrazione!
In un mondo simile per certi aspetti a quell’America descritta nel romanzo, lasciata a sé stessa, perché così ha scelto e sembra continuare a scegliere, il consacrato non può adeguarsi o rimanere in silenzio ma è chiamato a custodire e alimentare, e quindi diffondere, il fuoco che ha dentro. Allora è tempo di ardere, è tempo di riconoscerci figli perché sia il fuoco della paternità di Dio a infiammare ogni nostro gesto, ogni nostra parola. Benedetto XVI parlando della paternità di Dio sottolinea due espressioni davvero molto belle e profonde:
Vorrei fermarmi un momento sulla paternità di Dio, perché possiamo lasciarci scaldare il cuore da questa profonda realtà che Gesù ci ha fatto conoscere pienamente e perché ne sia nutrita la nostra preghiera. Potremmo quindi dire che in Dio l’essere Padre ha due dimensioni. Anzitutto, Dio è nostro Padre, perché è nostro Creatore. Ognuno di noi, ogni uomo e ogni donna è un miracolo di Dio, è voluto da Lui ed è conosciuto personalmente da Lui.
E una parola nei Salmi mi tocca sempre quando la prego: «Le tue mani mi hanno plasmato», dice il salmista (Sal 119,73). Ognuno di noi può dire, in questa bella immagine, la relazione personale con Dio: «Le tue mani mi hanno plasmato. Tu mi hai pensato e creato e voluto». Ma questo non basta ancora. Lo Spirito di Cristo ci apre ad una seconda dimensione della paternità di Dio, oltre la creazione, poiché Gesù è il «Figlio» in senso pieno, «della stessa sostanza del Padre», come professiamo nel Credo. Diventando un essere umano come noi, con l’Incarnazione, la Morte e la Risurrezione, Gesù a sua volta ci accoglie nella sua umanità e nel suo stesso essere Figlio, così anche noi possiamo entrare nella sua specifica appartenenza a Dio. Certo il nostro essere figli di Dio non ha la pienezza di Gesù: noi dobbiamo diventarlo sempre di più, lungo il cammino di tutta la nostra esistenza cristiana, crescendo nella sequela di Cristo, nella comunione con Lui per entrare sempre più intimamente nella relazione di amore con Dio Padre, che sostiene la nostra vita. È questa realtà fondamentale che ci viene dischiusa quando ci apriamo allo Spirito Santo ed Egli ci fa rivolgere a Dio dicendogli «Abbà!», Padre! Siamo realmente entrati oltre la creazione nella adozione con Gesù; uniti siamo realmente in Dio e figli in un nuovo modo, in una dimensione nuova.
È importante mantenere vivo il fuoco che abbiamo dentro. Il fuoco si mantiene vivo a certe condizioni. Se non lo custodisci o controlli può spegnersi. Così il fuoco della figliolanza o della paternità (a seconda della prospettiva da cui lo si guarda). Lo si mantiene vivo se si trova almeno un motivo per cui ardere. Spesso, c’è il rischio di cercare questo motivo nel mondo, rimanendone delusi.
È la presenza di Dio, il motivo, o meglio, Colui per cui valga la pena ardere anche quando attorno o dentro di noi ci sono venti contrari che mirano a spegnere il fuoco che abbiamo dentro. Ogni tanto al termine della giornata, quando faccio l’esame di coscienza, mi faccio provocare da questa domanda biblica: “che fai qui?” È la domanda che Dio rivolge ad Elia. Mi piacerebbe poter rispondere proprio come il Profeta: «Sono pieno di zelo (ardo di zelo) per il Signore degli eserciti». È un interrogativo che mi mette davanti alla realtà della giornata: mi sono lasciato ardere dal fuoco della paternità o della figliolanza? Sento bruciare in me l’amore con cui Dio mi ha chiamato a lasciare tutto e seguirlo? Questo è l’unico fuoco che salva…facciamo attenzione a non cercare il “fuoco del fiammifero”: fa subito fiamma ma poi ci lascia spenti, in pochi secondi.
I miti
Credo che la Quaresima sia il tempo favorevole per riscoprici figli amati. Ho immaginato tre vie possibili (tra le tante) attraverso le quali ravvivare questo fuoco interiore: la via dell’ascolto, la via dello sguardo e la via della realtà o quotidianità. Un figlio ascolta e riconosce la voce del padre (e sarebbe cosa buona e giusta che seguisse quanto il padre dice), un figlio guarda il padre ed è guardato da lui (gioco di sguardi), il padre accompagna il figlio “alla prova” del quotidiano.
Ho pensato di percorrere queste vie con una modalità un po’ originale, lasciandomi aiutare dai miti. Qualcuno potrebbe domandarsi: Perché i miti? Non sono qualcosa di pagano? Cos’hanno a che vedere con i discepoli di Cristo? Domande apparentemente legittime, in verità poco sensate.
Il mito mi piace definirlo come il tentativo umano per spiegare tante cose, tante realtà: l’origine del male, come agire nei confronti del male, comprendere il mistero della vita e della morte… Il mito non possiamo pensarlo solo come una realtà arcaica, lontana, perché, se facciamo attenzione, parla al nostro presente e al cuore di ogni uomo.
Ovvio che noi non ci fermeremo al mito, non ci fermeremo al tentativo umano. Sarà solo un punto di partenza. Lasceremo “entrare” Cristo, venuto a salvare l’uomo e portare a compimento e a pienezza tutto l’uomo. Gaudium et spes, 22: «Cristo […], rivelando il mistero del Padre e del suo amore, svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione».
Uno dei più grandi autori del secolo scorso, Tolkien, in un suo saggio ardiva affermare che: «il Vangelo non ha abrogato le leggende; le ha santificate… Dio è il Signore, degli angeli, degli uomini e – degli elfi. Leggenda e Storia si sono fuse in Gesù Cristo». Si può essere d’accordo o meno su questa affermazione ma siamo tutti d’accordo che il Verbo fatto carne ha preso su di sé tutto ciò che noi siamo portandolo alla pienezza della Verità. Essendo figli di Dio nel Figlio, siamo chiamati a non fermarci alla grande verità che i miti ci narrano, ma alla sequela di Cristo, giungere a quella pienezza di Vita che solo Lui può donarci.
Il mito di Icaro
Prima via, l’ascolto: ci accompagna il mito di Icaro.
Nell’isola di Creta il re Minosse aveva chiesto a Dedalo di costruire il labirinto per il Minotauro.
Avendolo costruito, e quindi conoscendone la struttura, a Dedalo e suo figlio fu preclusa ogni via di fuga da Creta da parte di Minosse, poiché temeva che ne fossero svelati i segreti e per questo motivo vennero rinchiusi nel labirinto. Per scappare, Dedalo costruì delle ali con delle penne e le attaccò con la cera al suo corpo e a quello del figlio. Malgrado gli avvertimenti del padre di non volare troppo alto, Icaro si fece prendere dall’ebbrezza del volo e si avvicinò troppo al sole. Il calore fuse la cera, facendolo cadere nel mare dove morì.
È un tentativo umano finito male. Cerco di evidenziare gli aspetti più importanti.
1) Innanzitutto tra le righe di questo racconto e della vicenda di Icaro, emerge una delle grandi tentazioni che abitano il cuore dell’uomo e della donna di ogni epoca, ovvero l’autosufficienza: quel crearsi ali “fai da te” che permettano un volo lontano da Dio alla ricerca di chissà quale libertà; è un tipo di volo che attira, affascina, inganna. Attenzione: la ricerca della libertà in sé non è sbagliata, lo diventa nel momento in cui si cerca l’autonomia da Dio. Una ricerca puramente illusoria perché così facendo si resta intrappolati nel labirinto del proprio io.
L’autosufficienza si presenta come il sole che illumina e scalda ma in realtà, più ci avviciniamo ad esso (più facciamo nostro questo atteggiamento interiore, proprio come Icaro) e più alto è il rischio di cadere a terra.
Questa tentazione, però, va ancora più in profondità. Fa percepire Dio come colui che “tarpa le ali”. Tarpare le ali è l’azione di tagliare la punta delle ali ad un volatile per impedirgli, appunto, di volare. Questo farebbe Dio, secondo la tentazione. In realtà, ci ricorda la Scrittura, è Lui stesso a donarci le ali per «volare e trovare riposo», nel Suo amore e nella Sua Presenza.
Il volo dell’autosufficienza da Dio è un volo che, se non prestiamo attenzione, può attirare anche noi consacrati. Per cui saremo sempre alla ricerca di “ali fai da te” per spiccare il volo. Magari motiveremo anche questa decisione rivestendola di buoni propositi… Ma sarà sempre e comunque un volo che ha come destino il mare della solitudine e della morte (come Icaro).
2) Declinazione dell’autosufficienza è il famoso ritornello: “basto a me stesso”. Icaro ragiona così. Non ha bisogno di consigli da altri, presume di sapere quale sia la rotta migliore per il volo intrapreso. Apparentemente è una cosa buona. Prendere l’iniziativa non è peccato. Ma anche qui, lo diventa, quando ci si vuole sostituire a Dio. Se basto a me stesso, Dio non è poi così necessario.
Siamo creati per la relazione. Abbiamo bisogno degli altri, abbiamo bisogno di Dio che è Creatore. Il bastare a noi stessi può toccare anche il rapporto con Dio. Ed è più facile di quanto pensiamo. Sì esiste, ne ho fatto anche l’esperienza ma tant’è che mi illudo di “saperne una più di Dio” … La Quaresima cci provoca con una domanda che attraversa i 40 giorni da cui è formata: davvero credi di poter bastare a te stesso?
3) A questo stile che centra tutto sulla propria capacità di volare, come cristiani e consacrati abbiamo da vivere e proporre al mondo un altro stile ben più vitale: il “lasciarsi istruire da Dio”. È uno stile che ci permette di volare (non cambia la metafora, ma la modalità e la qualità) non più con ali di cera ma con “ali ai piedi”.
Il cristiano, il consacrato vola ma non alla ricerca di una libertà cieca e vuota ma dentro la grande libertà dei figli di Dio che si riconoscono amati da Lui, che riconoscono Lui come Padre.
Lasciarsi istruire da Dio significa permettere allo Spirito santo di agire e metterci le ali ai piedi, per attraversare le difficoltà senza esserne travolti. Ci aiuta a vivere in questo mondo indicando presente Dio all’opera. Ci incoraggia a mantenere viva la Parola di Dio che come lampada illumina anche i tratti più bui del cammino.
Lasciarsi istruire da Dio è il segreto per volare e trovare riposo. Non più il volo dell’autosufficienza ma il volo della buona dipendenza da Dio. Con “buona dipendenza” intendo il legame che c’è e ci deve essere tra Creatore e creatura, tra Padre e figlio. Senza il Creatore, la creatura non può comprendersi né amarsi in tutta la sua pienezza. Senza il Padre, il figlio si smarrisce. L’itinerario quaresimale facendoci ripercorrere idealmente il cammino di esodo del popolo di Israele ha lo scopo di lasciarci istruire da Dio. Ne siamo consapevoli?
4) Arriviamo all’aspetto, forse, più interessante. A quel dettaglio che può passare inosservato ma che in realtà è decisivo: la presenza del padre, Dedalo. Abbiamo letto: «Malgrado gli avvertimenti del padre di non volare troppo in alto, Icaro si fece prendere dall’ebbrezza del volo…».
Dedalo c’è, non abbandona il figlio. Desidera la salvezza del figlio. Desidera che il figlio spicchi il volo, (è lui che costruisce le ali). Ma, allo stesso tempo, desidera che il figlio presti attenzione alla sua voce, ai suoi consigli frutto di una esperienza maturata “sul campo”.
Questo dettaglio del padre è importante perché rimanda alla presenza di Dio come Padre. Illumina il legame con Lui. Ci ha creati, desidera che spicchiamo il volo, che ci realizziamo, che siamo felici. È suo desiderio vederci gioiosi e grati. Ma chiede che la Sua parola sia ascoltata.
È una presenza, quella del Padre, che nel nostro cammino di consacrati ci aiuta a prendere coscienza della nostra unicità e preziosità.
È una presenza, quella del Padre, che a noi consacrati dice di non focalizzarci sulla nostra fragilità o sulla nostra debolezza. Queste vanno consegnate a Lui perché le redima, le trasformi… Icaro fa una “brutta fine”. Noi no, non la faremo mai perché sempre ci viene data la possibilità di ricominciare.
È una presenza, quella del Padre, che profuma di gratuità. E sapete perché è così importante la gratuità nella nostra consacrazione? Perché ci libera da una parolaccia: prestazione! Siamo eternamente in ansia e preoccupati di essere all’altezza della situazione che viviamo. Perché il mondo ci dice così: “o sei all’altezza o non vali nulla”. Ma con Dio non funziona così. Non ci ama se siamo all’altezza. Chi può dirsi degno e meritevole dell’amore di Dio? Nell’amore non c’è mai il merito. C’è la gratuità: “non voi avete scelto me ma io ho scelto voi!”. “Non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori. Non sono i sani che hanno bisogno del medico”. Grazie Signore per queste parole che profumano di gratuità. Fanno bene al cuore.
In un’altra versione del mito il padre Dedalo, che vede il figlio morire nel mare, va alla ricerca del corpo per dargli una degna sepoltura.
Anche questo aspetto della ricerca è essenziale. Dio viene a cercarci nonostante la nostra decisione di allontanarci da Lui. Non ci abbandona al nostro destino. Si mette alla nostra ricerca. E abbiamo numerosi esempi nel vangelo di questa cura da parte del Padre. La parabola del padre misericordioso, il pastore che cerca la pecora smarrita, la donna con la moneta perduta… Dio viene a cercarci perché ci riconosciamo figli amati. Riscopriamo la bellezza di essere figli!
Riferimenti biblici:
Mt 6,1-6.16-18 “il Padre tuo che vede nel segreto”.
Genesi 3 “dove sei?”. Non è la domanda di un controllore ma di un Salvatore.
Il mito di Narciso
La seconda via che pratichiamo per ravvivare il fuoco che portiamo dentro è quella dello sguardo. Il racconto che ci aiuta ad andare in profondità è il mito di Narciso.
Narciso è il figlio di Cefiso, una divinità fluviale, e di Liriope, una ninfa. La madre era però molto preoccupata perché aveva dato alla luce questo bambino bellissimo. Si recò così dall’oracolo Tiresia, che le consigliò di non fargli mai conoscere sé stesso. Il bambino crebbe e divenne un adolescente bellissimo, del quale tutti si innamoravano. Narciso, però, respingeva tutti, forse per orgoglio o per forte personalità.
Arrivò a rifiutare Eco, una ninfa che non poteva parlare per prima perché punita da Giunone. Ella non poteva dichiararsi in quanto con la sua voce poteva soltanto fare eco a quella di Narciso, che la rifiutò bruscamente. La dea della vendetta, Nemesi, decise di punire il giovane Narciso per il suo rifiuto alla ninfa. Lo condannò così a specchiarsi in un laghetto per bere. Quando lui si calò per bere l’acqua, vide il suo riflesso e se ne innamorò perdutamente. Dopo poco, capì di essere lui stesso il bellissimo ragazzo e realizzò che il suo era un amore impossibile.
Così si gettò nel fiume, nell’estremo tentativo di raggiungere l’amore. Quando le ninfe accorsero per seppellire il suo corpo, al suo posto trovarono dei fiori bellissimi. Si trattava di fiori bianchi e gialli, quelli conosciuti oggi come fiori di narciso. Questo termine deriva proprio dalla parola greca “narke”, che significa stupore (lo stupore di Narciso che vide per la prima volta la propria immagine).
Abitiamo un mondo che, spesso, non permette o non vuole dare la possibilità di essere sé stessi. Se vuoi valere qualcosa, se vuoi essere qualcuno devi apparire diverso da ciò che sei veramente. Perché, nel mondo, non c’è posto per l’imperfezione, per la sconfitta. Sono viste come situazioni da evitare, da non attraversare. Ma nel percorso esistenziale ci deve essere necessariamente lo spazio per l’incontro con la propria fragilità e la propria debolezza. Non per chiudersi in sé stessi ma per aprirsi a Chi la vita te l’ha donata.
L’esperienza che salva è la conoscenza di sé. Il mito che abbiamo letto in un passaggio non secondario riporta il suggerimento che l’oracolo dà alla madre di Narciso: “non deve mai conoscere sé stesso”. Consiglio drammatico…ma è quello che avviene oggi. Se non si sta attenti tutta questa ricerca dell’attenzione degli altri, porta troppo fuori di sé, diventa una fuga per non conoscere veramente noi stessi.
Il nostro mondo, nonostante abbia alcuni punti di luce, assomiglia a Tiresia: incoraggia una conoscenza di sé esteriore e limitata, superficiale. Sembra che sia più importante essere belli fuori perché è ciò che appare agli occhi degli altri.
Da buon carmelitano non posso tacere l’esperienza di Santa Teresa d’Ávila. L’itinerario di preghiera che lei per primo attraversa e poi indica come possibile per tutti, va esattamente nella direzione opposta. Quando ti poni di fronte al Signore, quando ti accorgi di essere davanti ad una Presenza decisiva per te, intuisci chi sei veramente e desideri conoscere sempre più veramente te stesso. E questa intuizione teresiana, pur vantando secoli di vita, è drammaticamente attuale e provoca chi fatica a dare spazio all’interiorità.
Nel Castello Interiore Teresa scrive:
«Possiamo considerare (la nostra anima) come un castello fatto di un sol diamante o di un tersissimo cristallo, nel quale vi siano molte mansioni [stanze], come molte ve ne sono in cielo.
Del resto, sorelle, se ci pensiamo bene, che cos’è l’anima del giusto se non un paradiso, dove il Signore dice di prendere le sue delizie?
E allora come sarà la stanza in cui si diletta un Re così potente, così saggio, così puro, così pieno di ricchezze? No, non vi è nulla che possa paragonarsi alla grande bellezza di un’anima e alla sua immensa capacità!».
«Non sarebbe grande ignoranza, figliuole mie, se uno, interrogato chi fosse, non sapesse rispondere, né dare indicazioni di suo padre, di sua madre, né del suo paese di origine? Se ciò è indizio di grande ottusità, assai più grande è senza dubbio la nostra se non procuriamo di sapere chi siamo, per fermarci solo ai nostri corpi. Sì, sappiamo di avere un’anima, perché l’abbiamo sentito e perché ce l’insegna la fede, ma così all’ingrosso, tanto vero che ben poche volte pensiamo alle ricchezze che sono in lei, alla sua grande eccellenza e a Colui che in essa abita.
E ciò spiega la nostra grande negligenza nel procurare di conservarne la bellezza. Le nostre preoccupazioni si fermano tutte alla rozzezza del castone, alle mura del castello, ossia a questi nostri corpi. Come ho detto, questo castello risulta di molte stanze, alcune poste in alto, altre in basso ed altre ai lati. Al centro, in mezzo a tutte, vi è la stanza principale, quella dove si svolgono le cose di grande segretezza tra Dio e l’anima».
La conoscenza di sé è un esercizio che coinvolge «il quotidiano» della vita. Non è un qualcosa di limitato e riservato al primo passo del percorso verso la stanza centrale o ad un periodo circoscritto dell’infanzia o dell’adolescenza. Lo si dovrà mantenere costantemente attivo fino all’ultima fase, appunto la fase della settima mansione, quella della comunione piena con Dio.
Teresa dice: «Perfino le stesse anime ammesse da Dio nel suo medesimo appartamento, nonostante siano giunte tanto in alto, non devono mai trascurare la conoscenza di sé».
Ciò che è importante, ciò che sta alla base, ci suggerisce Teresa, ha a che fare con lo sguardo. Infatti, condizione numero uno per conoscere sé stessi è riconoscere la Presenza di Dio e dunque: “sapersi abitati”.
Per tornare a Narciso, lui non arriva a conoscere sé stesso perché si “sente abitato” solo dalla sua immagine, immagine che ricerca fuori di sé, nel riflesso dell’acqua. Non c’è spazio in lui per un Altro (A maiuscola). Quando c’è spazio solo per sé stessi la ricerca e la comprensione di sé o manca completamente o inizia già “malata”. E la conseguenza di questo è entrare dentro un vortice che porta alla morte interiore. Non c’è momento migliore che la Quaresima per fare esperienza di sentirci abitati da un padre che vede nel segreto del nostro cuore, che lo abita e lo “infuoca” con la sua presenza.
In questo discorso, però, c’è un pericolo da non sottovalutare: è possibile accontentarsi e fermarsi ad una conoscenza di sé «bassa» e avvilente, nonché frustrante. Questo perché, dice Teresa, il punto di partenza della nostra preghiera spesso è errato. Lei invita a puntare in alto. Dice: «Puntate lo sguardo al centro [del castello], dove è situato l’appartamento del Re… lavoreremo assai più virtuosamente con l’aiuto di Dio, che col rimanere attaccate alla nostra terra».
Come a dire, la conoscenza di sé stessi è un atto di orazione, un atto di preghiera capace di abbracciare in un solo sguardo il proprio castello e quel Dio che lo abita e gli dà dignità. Sembra paradossale ma puntare lo sguardo al centro di noi stessi non è un chiudersi ma è un alzare lo sguardo. E questo aspetto che può apparire paradossale in realtà si svela “salvifico”: «Non arriveremo mai a conoscerci, se insieme non procureremo di conoscere Dio. Contemplando la sua grandezza, scopriremo la nostra bassezza; e considerando la sua umiltà, vedremo quanto siamo lontani dall’essere umili».
È in questo «gioco di sguardi» che ci salviamo: «Contemplando la sua grandezza, scopriremo la nostra bassezza; e considerando la sua umiltà, vedremo quanto siamo lontani dall’essere umili». Noi, il più delle volte, partiamo dalla prospettiva opposta. Partiamo da noi, pretendendo di arrivare a Dio. Ma non funziona così. Il punto di partenza è Lui. È la paternità, non la figliolanza…Questo è un esercizio che ci aiuta a “sentirci abitati e amati”. E questo è ciò che non ha sperimentato Narciso, è ciò che fa di noi consacrati consapevoli di essere figli di un Dio di amore!
Ma del “povero” Narciso che cosa possiamo comunque “salvare”? Lo stupore. Si stupisce della sua immagine e si diletta nel guardarsi riflesso. Il problema poi subentra nel momento in cui vuole raggiungere sé stesso, un amore impossibile perché troppo umano. E succede che tocca il fondo e muore.
Salviamo e accogliamo lo stupore di vedersi bello. Vogliamo anche noi sentirci belli perché figli. Poi lasciamo pure che il Signore trasfiguri questo stupore per riconoscerlo come dono.
Abbiamo bisogno di tornare a stupirci. Ne va del fuoco che abbiamo dentro e che dobbiamo portare nel mondo. Un consacrato che non si stupisce più di nulla si chiude volontariamente all’azione dello Spirito e il grido “Abbà, Padre”, rimane strozzato in gola…
Riferimenti biblici:
Salmo 138 “tu mi scruti e mi conosci”
Genesi 4 “Caino e Abele”. Caino non si sente guardato da Dio. Pensa che Lui abbia occhi solo per Abele. L’invidia lo acceca e prende possesso del suo cuore con tutte le conseguenze che conosciamo. Mai piegarsi su sé stessi o fare confronti con gli altri.
Giovanni 1 “La chiamata dei primi discepoli si gioca tutto sullo sguardo”.
Mito di Aracne
La terza via l’ho chiamata “del reale” o della quotidianità. Il mito che accompagna questa terza via è quello di Aracne. È un po’ sconosciuto, forse, rispetto ad altri. Ma non per questo meno interessante.
Aracne era una tessitrice originaria della Lidia, figlia del tintore Idmone. Aracne era talmente abile nella tessitura da fare invidia alla dea Atena, dalla quale tutti ritenevano avesse preso la sua arte.
Ma quando si domandava alla ragazza chi le avesse insegnato a tessere, Aracne attribuiva la capacità unicamente a sé stessa, sostenendo che neppure Atena in persona sarebbe stata in grado di eguagliare le sue creazioni. Anzi, in un’occasione la sfidò in una pubblica gara.
Atena, appena saputo della sfida lanciata da Aracne, decise di scendere sulla terra e parlare con lei sotto le spoglie di un’anziana donna. Quando la vide, le chiese di ritirare la sua sfida, accontentandosi di essere la migliore tessitrice fra i mortali. Ma Aracne non si diede per vinta e, con tracotanza, rispose che se la dea non avesse accettato la sua sfida, probabilmente sarebbe stato per paura.
Atena allora si mostrò alla ragazza e accettò la sfida. Una di fronte all’altra, Atena e Aracne iniziarono a tessere, senza sosta, per giorni e notti. Atena rappresentò le proprie imprese, Aracne gli amori e i vizi degli dei. Entrambe le tele mostravano una maestria fuori dal comune, ma le immagini contenute in quella di Aracne sembravano davvero stare per prendere vita.
Presa dall’invidia Atena rovesciò il telaio di Aracne e ridusse la sua tela in mille pezzi. Aracne fuggì nel bosco, spaventata.
La ragazza cercò di togliersi la vita, impiccandosi a un albero, ma Atena glielo impedì. la dea decise allora di infliggerle una punizione ancora peggiore: tessere per tutta la sua vita filando con la bocca sotto forma di ragno, pendendo dallo stesso albero sul quale avrebbe voluto uccidersi.
Aracne
Si pensa autodidatta: “attribuiva la capacità di tessere a sé stessa”. Questo è l’atteggiamento di chi non sa riconoscere i doni che ha ricevuto. Ci si impossessa delle abilità come se venissero da noi. Certo con il tempo io posso/devo migliorare una qualità o una dote che, però, ho ricevuto. Non mi sono dato da solo… Alla lunga l’atteggiamento di impossessarmi (in modo sbagliato) dei doni, mi porta a cercare e desiderare l’autonomia da Dio e, addirittura, anche a sfidarlo: Aracne sosteneva, infatti, “che neppure Atena in persona sarebbe stata in grado di eguagliare le sue creazioni”. Abbastanza presuntuosa!
Oltre alla presunzione notiamo anche la paura per quanto poi, durante la sfida, accade: Atena le rovescia il telaio. Aracne, allora, pensa di togliersi la vita. Vede questa possibilità come l’unica possibile. E questo è tragico… Purtroppo non è qualcosa di circoscritto al mito, ne constatiamo l’attualità. Quante persone, spesso anche giovani, per diversi motivi, arrivano a questa tragica fine. Togliersi la vita è pensata e considerata come soluzione ai problemi della propria vita.
Aracne, tuttavia, non arriva al gesto fatale ma l’averlo anche solo pensato ci aiuta a riflettere. Quante volte decidiamo di non vivere, oppure smettiamo di vivere rassegnandoci e arrendendoci. Le difficoltà, le situazioni complicate diventano il motivo per questo atteggiamento di arresa e rassegnazione. Ma per un consacrato non può essere così. Ci sono situazioni difficili, umanamente faticose da abitare. Però sappiamo che rassegnarsi non è la soluzione. La difficoltà da motivo per smettere di vivere (da motivo per non dire più il nostro “sì” a Dio) deve diventare un’occasione perché quel “sì” pronunciato in modo definitivo e radicale risplenda sempre più in tutta la sua pienezza.
Atena
È immagine di una divinità che vuole entrare in competizione con l’uomo. È quasi divorata dall’invidia, vizio che acceca, che logora, che fa perdere la direzione del cammino, scombussola. Anzi fa di più e peggio: questo vizio ci fa apparire l’altro che ho davanti come un ostacolo e non come un dono. L’invidia sembra sussurrare all’orecchio: “devi entrare in competizione con gli altri altrimenti non vali nulla. Devi dimostrare il tuo valore”. Ecco perché nel mondo, oggi, vengono messi in atto molteplici tentativi per emergere sopra tutti, schiacciandoli. Questo vale anche in un contesto comunitario. Non dobbiamo dimostrare niente a nessuno. Non ci sono consacrati validi e consacrati “poveretti”. Quando si dà ascolto all’invidia le conseguenze non sono mai buone. Se dobbiamo dimostrare qualcosa, dimostriamo il primato di Dio nella nostra vita. E allora sarà l’amore di Dio a sostenere le nostre relazioni e le nostre comunità.
Da un consacrato dovremmo aspettarci piuttosto la furbizia di “leggere dentro” (quindi anche l’intelligenza- intus legere) le persone che incontriamo, le situazioni che abitiamo, l’occasione per dirci: “che bel dono l’altro, che bel dono la vita nonostante i suoi momenti bui”. Non apriamo la porta del cuore all’invidia. Fa solo dei grandi danni. Facciamo invece spazio alla gratuità. La Quaresima è un tempo favorevole e forte per ricentrarci su Dio, per far sì che sia la sua paternità a scaldare i nostri rapporti. È tempo favorevole per mettere in circolo non l’invidia o il “chiacchiericcio” (come ama ripetere Papa Francesco), ma per mettere in circolo la gratuità del nostro essere figli.
Aspetti positivi
Ci sono anche aspetti positivi e utili per il nostro itinerario quaresimale e di consacrazione. Nel mito l’aspetto bello e incoraggiante è il fatto che entrambe, Atena e Aracne, durante la sfida di tessitura, compongono dei capolavori. Questo a ribadire che quando ci si lascia coinvolgere da ciò che accade, tutto è in funzione di una nostra maturazione, anche qualora si dovesse compiere degli sbagli. Siamo umani, non supereroi!
La passione, l’impegno per un consacrato sono davvero gli ingredienti segreti e fondamentali perché la vita quotidiana sia un’occasione di santità. Se vivo con passione ciò che mi viene chiesto sarò nella condizione di ascoltare la presenza di quel Dio che si nasconde volentieri nelle piccole cose feriali.
Aracne in questo è di esempio. Non si accontenta di facili conquiste: “Quando Atena la vide, le chiese di ritirare la sua sfida, accontentandosi di essere la migliore tessitrice fra i mortali. Ma Aracne non si diede per vinta”. Questo è anche l’atteggiamento di un consacrato: non si dà per vinto. Sa che, come dice il proverbio, “finché c’è vita c’è speranza”, ma è ancora più consapevole che la speranza ha un volto e un nome ben preciso: Cristo. Finché c’è Lui, nostra speranza, non abbiamo motivo per darci per vinti. Non accontentiamoci di facili conquiste che il più delle volte non richiedono fatica e sudore. Ma rimbocchiamoci le maniche, mettiamo tutto noi stessi nelle sfide che quotidianamente bussano alla porta della nostra vita. Dio è accanto a noi, non ci lascia soli.
Dio non entra mai in competizione con noi. Non è un Dio che vuole sfidarci ma un Dio che desidera salvarci e lo fa rivelandosi, manifestandosi, incontrandoci e parlandoci. Lo fa perché ci ama.
Un Dio che volesse entrare in competizione con l’uomo non offrirebbe amicizia e alleanza ma occasioni di inciampo.
Se capitano difficoltà o momenti umanamente poco comprensibili, Dio li permette, non per punirci e così uscirne vincitore ma perché ci ancoriamo di più a Lui e così uscirne, noi, vincitori insieme a Lui.
Altro elemento bello, da sottolineare è la sfida tra Aracne e Atena: “Una di fronte all’altra, Atena e Aracne iniziarono a tessere, senza sosta, per giorni e notti. Atena rappresentò le proprie imprese, Aracne gli amori e i vizi degli dei. Entrambe le tele mostravano una maestria fuori dal comune”. Al di là dei contenuti della sfida è affascinante l’idea del “tessere”. Il consacrato è chiamato ogni giorno a “tessere”. È un’arte che egli fa sempre più propria. Ed è Dio a preparare e a consegnarci la tela del quotidiano su cui comporre il nostro capolavoro insieme a Lui. E si tesse giorno e notte. Non c’è un momento in cui si smette. Questo a ribadire che tutti gli attimi che viviamo sono legati tra di loro (anche di notte che dormiamo, un esempio è l’antifona al Nunc dimittis: “nella veglia salvaci Signore nel sonno non ci abbandonare, il cuore vegli con Cristo e il corpo riposi nella pace”. Gli affidiamo anche il respiro della notte). Tutto ha senso se si tiene insieme (“Maria custodiva, cioè teneva insieme, tutte queste cose nel suo cuore). Tutto ciò che accade trova il suo senso e la sua bellezza se “tessiamo giorno e notte”, cioè viviamo costantemente dentro la logica del dono, dentro la logica della presenza di Dio, dentro la logica della paternità di Dio. Accolgo ciò che Dio mi dona e restituisco a Lui ciò che riesco a fare in un legame stretto e di amore tra Padre e figlio.
Ancora due sottolineature fondamentali che ci consegna questo mito. La prima, l’ho accennata poco fa: è Dio a prepararci una tela diversa ogni giorno. A volte questa tela è grande e quindi è richiesta più fatica. A volte non è regolare per cui oltre alla fatica ci è chiesto un pizzico di originalità per tessere. Altre volte appare incompleta, sembra mancare un pezzo e la tela diventa così complicata che ci arrendiamo subito. Ma la cosa bella è che la tela non manca mai. Non solo la tela ma anche il filo per poter tessere. A questi ci pensa Dio. A noi, Lui, chiede solo di “esserci”, di non rassegnarci, ma di accogliere a piene mani e cuore aperto tutto ciò che accade perché rientra nel suo grande disegno di amore per noi.
Allora mettiamoci all’opera, iniziamo o continuiamo a tessere. Non lamentiamoci se la tela non è come vorremmo. Ricordiamoci che la tela è un dono. E come tale devo accoglierla!
Una seconda sottolineatura riguarda il finale del mito. Si accenna ad una punizione.
“La dea Atena decise di infliggere una punizione ad Aracne: tessere per tutta la sua vita filando con la bocca, sotto forma di ragno, pendendo dallo stesso albero sul quale avrebbe voluto uccidersi”.
È una punizione per Aracne. Noi, questo dettaglio, lo leggiamo dalla prospettiva di Dio, e quindi la punizione in realtà per noi si manifesta come salvezza.
Chiamati a perfezionare il nostro essere “tessitori quotidiani” gioca un ruolo decisivo (anche per noi) la bocca: la nostra, da cui devono uscire parole buone, parole di benedizione per la vita e per gli altri, parole che creano legami buoni. La bocca di Dio, perché è la sua Parola a dare senso, orientamento e luce ai nostri passi. Occorre, dunque, pendere dalle sue labbra. E anche qui la Quaresima è preziosa perché ci offre in abbondanza “la Parola giusta al momento giusto”.
Nella punizione inflitta ad Aracne si fa anche riferimento all’albero che sarebbe dovuto diventare lo strumento di morte per lei.
Ma c’è un albero anche per noi, su cui ancorarci, su cui fare affidamento: l’albero della Croce.
Grazie a Cristo la Croce da strumento di morte (era la condanna a morte per i malfattori) diventa sorgente di Vita. Allora “tessere quotidianamente” sarà davvero un’arte se rimarremo uniti all’albero della Croce senza perdere mai il filo dell’esistenza. È da qui che nasce la vita vera per noi e per il mondo. È dalla Croce che scaturisce il senso di ogni cosa. Perché è dalla Croce che arriva la bella notizia che la morte non ha e non è l’ultima parola sulla vita, è sulla Croce che ha origine la certezza di essere amati sino alla fine, al di là di ogni nostro merito e di ogni nostra fragilità. È la Croce che si erge all’orizzonte del nostro percorso quaresimale. Verso di essa vogliamo incamminarci per gustare la gioia della Risurrezione.
Rifermenti biblici:
Giovanni 3 discorso a Nicodemo. “Bisogna che il Figlio dell’uomo sia innalzato”
Conclusione
Riprendendo le fila di ciò che ci siamo detti questa mattina, desidero farvi/farci un augurio:
Riscopriamoci figli amati. Rivolgiamoci al Padre chiedendo la grazia di non perseverare sulla strada dell’autosufficienza ma di fidarci di Lui. Desideriamo lasciarci istruire da Dio, dalla sua voce, dalla sua presenza, dal suo venire a cercarci quando ci perdiamo. Vogliamo ripartire dalla gratuità della sua chiamata, mettendoci davanti a Lui, riconoscendo la sua grandezza che sana e trasfigura la nostra piccolezza. Desideriamo amare e abitare la sua paternità che fonda e impreziosisce la nostra figliolanza. Gli chiediamo il dono di non smettere mai di stupirci della nostra bellezza (immagine della sua), accogliendo la tela del quotidiano (qualsiasi forma abbia, qualsiasi disegno emerga) per portare nel mondo quel fuoco di amore che abbiamo dentro, quel fuoco senza il quale non possiamo vivere, senza il quale non c’è autentica vita consacrata.
Buon cammino quaresimale!