Suore dell'Immacolata

Il Canto dello Spirito

Istituto delle Suore dell’Immacolata di Genova

Esercizi spirituali – Don Mario Bonsignori

Sabato 30 giugno 2012

"Il Canto dello Spirito"

1.Vieni, o Spirito.

2. Creatore
1. Riempi di grazia celeste i cuori che hai creato
2. Tu che sei chiamato Paraclito

Lunedì 2 luglio 2012
1. Altissimo dono di Dio
2. Acqua viva

Martedì 3 luglio 2012
1. Fuoco
2. Amore

Mercoledì 4 luglio 2012
1. Unzione spirituale
2. Datore dei sette doni

Giovedì 5 luglio 2012
1. Dito della destra di Dio
2. Solenne promessa del Padre

Venerdì 6 luglio 2012
1. Tu poni sulle labbra la parola
2. Comunicazione fraterna nella fede

 

INTRODUZIONE
L’anno duemila è iniziato, nelle Chiese cristiane d’Occidente, col solenne canto del Veni creator. Esattamente come è iniziato, a partire dai primi decenni del secondo millennio, ogni anno nuovo, ogni secolo, ogni conclave, ogni concilio ecumenico, ogni sinodo, ogni riunione importante nella vita della Chiesa, ogni ordinazione sacerdotale o episcopale e anche, nel passato, ogni incoronazione di re. Da quando fu composto, nel IX secolo, esso è risuonato incessantemente nella cristianità di espressione latina, soprattutto nella festa di Pentecoste, come una prolungata solennissima epiclesi su tutta l’umanità e sulla Chiesa.
Come tutte le cose che vengono dallo Spirito, il Veni creator, non si è consunto con l’uso, ma si è arricchito; è cresciuto nei secoli, a forza di essere cantato. Esso si è caricato di tutta la fede, la devozione e l’ardente desiderio dello Spirito delle generazioni che lo hanno cantato prima di noi. E ora, in virtù della comunione dei Santi, quando viene cantato anche dal più modesto coro dei fedeli, Dio lo ascolta come una immensa "orchestrazione".
L’autore, oggi ritenuto il più probabile, del Veni creator è Rabano Mauro, abate di Fulda in Germania e arcivescovo di Magonza, vissuto tra la fine del VIII secolo e la prima metà del IX, uno dei maggiori teologi del suo tempo e profondo conoscitore dei Padri. La prima testimonianza di un uso ufficiale dell’inno si ha negli atti del Concilio di Reims del 1049, quando, all’ingresso in aula del papa, il clero cantò con grande devozione l’inno Veni creator Spiritus. Da quel momento l’inno si è conquistato un posto fisso nella liturgia di tutta la Chiesa.
Il Veni creator è un testo eminentemente ecumenico. É il solo inno latino antico accolto da tutte le grandi Chiese nate dalla Riforma. Martin Lutero in persona ne curò una versione. L’inno fu inserito fin dall’inizio nel rito dell’ordinazione episcopale della Chiesa anglicana e occupa un posto d’onore a Pentecoste anche nell’innologia delle Chiese di matrice calvinista. Il Veni creator permette dunque a tutti i cristiani di essere uniti nell’invocazione dello Spirito Santo, che è colui che poi ci deve condurre alla piena unità, come ci conduce alla piena verità.
Ma il Veni creator ha goduto uno straordinario successo anche al di fuori dell’ambito ecclesiastico. Goethe diede di esso una splendida versione tedesca. Bach ha messo in musica la traduzione di Lutero. Gustav Mahler lo ha scelto come testo per la sua opera corale detta “Sinfonia dei Mille”. Nessuno di essi, tuttavia, ha potuto uguagliare finora il fascino semplice della melodia gregoriana. Ascoltare questa melodia all’inizio di un corso di esercizi o in una riunione pastorale è come entrare subito nell’atmosfera carica di mistero e di suggestione dello Spirito.
Quando si vuole apprendere rapidamente oggi una lingua straniera, si ricorre al metodo detto della "immersione totale" (full immersion). Per un periodo di tempo si evita ogni occasione di parlare la propria lingua. Si parla, si ascolta e si pensa solo in quella lingua; ci si "immerge " totalmente nella cultura e nei costumi della gente che la parla. Così vorremmo fare noi in questo corso di Esercizi che desideriamo imparare la lingua dello Spirito Santo. Una lingua "straniera" per noi che siamo carne e parliamo la lingua della carne!
Se, da una parte, le parole del Veni creator condensano il fior fiore della rivelazione biblica e della tradizione patristica sullo Spirito Santo, dall’altra, proprio perché desunte tutte dalla Bibbia, esse si rivelano come delle "strutture aperte", capaci di accogliere ciò che di nuovo la Chiesa ha vissuto e scoperto dello Spirito in questo frattempo. Lo stesso andamento seguirà la nostra riflessione. Partiremo ogni volta dalla ricca base biblica e teologica codificata nell’inno, per aprirci poi alle nuove prospettive e soprattutto per trarre, dalla dottrina, ispirazione per la vita.
Il Veni creator non è, però, solo un bell’inno, ricco di spunti suggestivi. C’è racchiusa in esso anche una grandiosa visione teologica sullo Spirito Santo nella Storia della salvezza che emergerà via via che avanziamo nella lettura.
A quali fonti ha attinto il nostro autore nello scrivere il suo inno e a quali attingiamo noi oggi nel commentarlo? Per il Padre abbiamo a disposizione, oltre la Scrittura, la filosofia, in grado di dirci, anch’essa, alcune cose su Dio; per il Figlio, oltre la Scrittura, ci soccorre la storia, perché egli si è fatto carne ed è entrato visibilmente nella nostra storia. Ma per lo Spirito Santo, a che cosa ricorreremo, a parte la Scrittura? La risposta è: l’esperienza!
Non solo l’esperienza personale di ogni singolo credente, ma anche e soprattutto, l’esperienza che di lui ha fatto la Chiesa nel corso dei secoli e che si chiama Tradizione. Non solo l’esperienza che ne ha fatto nel passato, ma anche quella che ne fa oggi.
Per rimanere fedeli al carattere ecumenico del Veni creator, ci sforzeremo di attingere non solo alla tradizione cattolica, ma anche a quelle ortodossa e protestante. Sarà quindi una specie di canto "a tre voci ".
Per parlare dello Spirito Santo il simbolo, l’immagine, il canto, la profezia e la poesia sono mezzi forse più adeguati che non i concetti e il ragionamento. Per questo daremo spazio, nei testi di preghiera riportati al termine di ogni meditazione, all’innografia delle varie tradizioni liturgiche cristiane, dove tutte quelle forme sono più utilizzate. Ma più spazio ancora daremo alla testimonianza dei santi, convinti, come diceva san Basilio, che «lo Spirito è il luogo dei santi e il santo è il luogo dello Spirito».
Il corso di Esercizi ha come titolo: “Il canto dello Spirito” perché si tratta di un commento al Veni creator, il canto per eccellenza dello Spirito, una specie di Te Deum e di Gloria in onore dello Spirito Santo, anche se, per un’analisi meticolosa del testo, non possiamo esaurirlo interamente. Vorrà dire che, se vi sarà piaciuto, potremo riprenderlo in una seconda tornata di Esercizi.
«Cantate al Signore un canto nuovo», ci dice spesso la Scrittura. È possibile cantare oggi allo Spirito un canto "nuovo ? Cosa possiamo dire di nuovo di lui, che non sia stato già detto? Sì, è possibile perché lui fa nuove tutte le cose, "ringiovanisce" tutto ciò che tocca, quindi anche ciascuno di noi.


 

Veni, creator Spiritus,
mentes tuorum visita,
imple superna gratia,
quae tu creasti pectora.

Qui Paracletus diceris,
donum Dei altissimi,
fons vivus, ignis, caritas
et spiritalis unctio.

Tu septiformis munere,
dexterae Dei tu digitus,
tu rite promissimum Patris

sermone ditans guttura.

Accende lumen sensibus,
infunde amorem cordibus,
infirma nostri corporis
virtute firmans perpeti.

Hostem repellas longius,
pacemque dones protinus,
ductore sic te praevio
vitemus omne noxium.

Per te sciamus da Patrem,
oscamus atque Filium,

te utriusque Spiritum

credamus omni tempore.

Amen.

 

Vieni, o Spirito creatore,
visita le nostre menti,
riempi di grazia celeste
i cuori che hai creato.

Tu che sei chiamato Paraclito,
altissimo dono di Dio,

acqua viva, fuoco, amore
e unzione spirituale.

Datore dei sette doni,
dito della destra di Dio,
solenne promessa del Padre,
tu poni sulle labbra la parola.

Accendi la tua luce nella mente
infondi nel cuore l’amore
ciò che nel nostro corpo è infermo
risanalo con l’eterna tua potenza.

Via da noi respingi il nemico,
presto a noi dona la pace.
Con te che ci fai da guida,
eviteremo ogni male.

Fa’ che per mezzo tuo scopriamo il Padre,
e conosciamo parimenti il Figlio e in te,

comune Spirito di entrambi,

fa’ che crediamo tutti eternamente.

Amen.

     

 

VIENI, O SPIRITO!
Lo Spirito Santo, mistero di forza e di tenerezza

Ruach, il nome dello Spirito
Il tema di questa meditazione sono le prime due parole del Veni creator: «Vieni, o Spirito!», e in particolare il nome Spirito. La prima cosa che noi conosciamo di una persona è, di solito, il nome. É con esso che la chiamiamo, che la distinguiamo tra tutte le altre e che la ricordiamo. Anche la terza persona della SS. Trinità ha un nome: si chiama Spirito.
Ma Spirito è il nome tradotto. Il nome vero dello Spirito, quello con cui lo hanno conosciuto i primi destinatari della rivelazione, è ruach. L’altro stadio che il nome dello Spirito Santo ha attraversato prima di giungere a noi è quello di pneuma. Con questo nome è designato negli scritti del Nuovo Testamento.
Per gli ebrei il nome era tanto importante da identificarsi quasi con la persona stessa. Per esempio: santificare il nome di Dio, è santificare e onorare Dio stesso. Il nome, inoltre, non è mai un appellativo puramente convenzionale; dice sempre qualcosa della persona stessa, della sua origine o funzione. Così è anche del nome ruach.
Che significa in ebraico ruach? Nella sua radice significa lo spazio atmosferico tra il cielo e la terra, uno spazio aperto, come una prateria, in cui più facilmente si percepisce il soffio del vento; lo spazio vitale nel quale l’uomo si muove e respira. Questo significato primordiale ha lasciato qualche traccia anche nella successiva teologia dello Spirito Santo. Di lui, infatti, si parla molto spesso con un avverbio di luogo. La preposizione tipica per parlare dello Spirito è “nello”, così come per il Padre è “dal” e per il Figlio “per mezzo”. «Dal Padre, per mezzo del Figlio, nello Spirito Santo». Lo Spirito Santo è lo spazio spirituale, l’ambiente vitale, in cui avviene il contatto col Padre Dio e con Cristo.
Nella Bibbia ruach significa due cose tra loro strettamente collegate: il vento e il respiro. Questo è vero anche per il nome greco pneuma e per il latino spiritus. Anche il nostro termine italiano, Spirito, ha conservato questa parentela originaria con il vento e il respiro: spirito e spirare vengono dalla stessa radice.
Per noi è difficile comprendere l’incidenza che ha avuto, nello sviluppo della Rivelazione, il fatto che dovunque, nella Bibbia, noi leggiamo "vento", i Padri leggevano anche "spirito", e dovunque noi leggiamo "spirito" essi leggevano anche "vento". Ma non è lo Spirito Santo che ha dato il suo nome al vento, ma è il vento che ha dato il suo nome allo Spirito Santo. Il segno ha preceduto il significato perché, generalmente, nell’esperienza umana, viene prima ciò che è materiale poi ciò che è spirituale (cf 1 Cor 15, 46).
La Bibbia ama istruirci sulle realtà più spirituali, servendosi dei simboli più materiali ed elementari che esistono in natura. I due "libri" scritti da Dio, quello del creato, fatto di cose e di elementi muti e quello della Bibbia, fatto di lettere e parole, si illuminano e si spiegano così l’uno con l’altro.
Ricordiamo, a questo proposito, alcuni passi tra i più significativi della Bibbia.
All’inizio della Genesi si parla dello «Spirito di Dio» che aleggiava sulle acque (cf Gn 1, 2). Qui la vicinanza tra Spirito e vento è tale che i traduttori moderni sono spesso incerti se tradurre l’espressione con "Spirito di Dio" o con "vento di Dio" o "vento impetuoso" e scelgono, difatti, ora l’una ora l’altra traduzione. Poco dopo leggiamo che «Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita» (Gn 2, 7). Il seguito della Bibbia vede in questo "soffio" una prima, embrionale, manifestazione dello Spirito Santo (cf 1 Cor 15, 45).
Negli Atti degli Apostoli lo Spirito Santo è dato nel segno del vento impetuoso (At 2, 2); nel Vangelo di Giovanni lo stesso Spirito è comunicato dal Risorto nel segno del soffio e del respiro, con un gesto che richiama volutamente quello delle origini: «Alitò su di loro e disse: "Ricevete lo Spirito Santo"» (Gv 20, 22).
Giovanni vede nell’istante in cui Gesù sulla croce "emette l’ultimo respiro" il momento in cui "dona lo Spirito" (cf Gv 19, 30). Egli non ignora però l’altra immagine, quella del vento impetuoso, perché è proprio lui che riferisce il detto di Gesù: «Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito» (Gv 3, 8).
Il vento è per eccellenza nella Bibbia, ma anche in natura, l’espressione di una forza travolgente e indomabile. È capace di «spaccare i monti e spezzare le rocce» (1 Re 19, 11), di «sollevare i flutti fino al cielo e sprofondarli fino agli abissi» (cf Sal 107, 25-26).
Le immagini, invece, del respiro o della brezza leggera servono a esprimere la bontà, la delicatezza e la quiete dello Spirito di Dio. Il respiro è ciò che vi è di più vitale e personale nell’uomo.
Coloro che studiano i modi e le forme con cui si esprime il sentimento religioso nelle varie culture, hanno messo in luce un fatto che si osserva costantemente in tutte le religioni, ma specialmente nella Bibbia: il divino è percepito come un mistero "tremendo e affascinante", cioè capace di suscitare timore e amore insieme, di atterrire e di attrarre. La Bibbia conferma ampiamente questa osservazione. «Tu sei terribile e chi ti resiste?» (Sal 76, 8), si dice dello stesso Dio di cui altrove si esalta la "bontà immensa" e la tenerezza, che si «espande su tutte le creature» (Sal 107, 7). Non che Dio sia complesso o cambi natura, ma siamo noi che non riusciamo ad abbracciarne, con un solo sguardo, la realtà e abbiamo bisogno di due angolature diverse secondo cui conoscerlo.
Lo Spirito Santo impersona, nel modo più evidente, questo mistero di Dio che è, al tempo stesso, potenza assoluta e tenerezza senza confini, moto inarrestabile e quiete infinita.

Lo Spirito Santo viene in soccorso della nostra debolezza
Riflettiamo dunque sullo Spirito anzitutto come mistero di potenza e di trascendenza. Egli rappresenta il totalmente altro, il trascendente allo stato puro. Giustamente, la “Sequenza di Pentecoste” applica allo Spirito Santo questo concetto, quando lo prega dicendo: «Senza il tuo divino potere (numeni), nulla c’è nell’uomo, nulla d’innocente».
Nel Primo Testamento si parla spesso dello Spirito di Dio che "investe" come un turbine o che "fa irruzione" su determinate persone, comunicando loro una forza soprannaturale. Questa rivelazione di potenza è accresciuta dall’appellativo di "Santo", qadosh che, a partire da Is 63, 10 e dal Sal 51, si trova sempre più spesso associato a Spirito e finisce, anzi, per formare con esso un unico nome composito.
Che significa in ebraico qadosh? La parola "Santo" si è depotenziata nell’uso moderno. Ha assunto il significato, quasi solo morale, di buono, pio, puro, un termine rassicurante. Ma per Isaia che udì proclamare per tre volte questa parola dai Serafini, mentre «vibravano gli stipiti delle porte e il tempio si riempiva di fumo», essa era tutt’altro che una parola rassicurante, tanto che gli uscì di bocca il grido: «Ohimè! Io sono perduto» (cf Is 6, 3-5). Santo esprime un senso di separazione, di alterità assoluta che esige adorazione, silenzio e purificazione per reggere al suo cospetto. «Chi mai potrà stare alla presenza del Signore, questo Dio così Santo?» (1 Sam 6, 20). Santo viene associato addirittura a terribile: «Santo e terribile è il suo nome» (Sal 111, 10). «Io sono Dio, non uomo, sono il Santo in mezzo a te» (Os 11, 9). Santo è ciò che appartiene alla sfera del divino, opposta a quella dell’umano.
Nel Secondo Testamento tutto questo si esprime piuttosto attraverso il frequente binomio "Spirito e potenza". Dio unse Gesù di Nazaret «in Spirito Santo e potenza» (At 10, 38). Dopo il suo battesimo nel Giordano, Gesù tornò in Galilea «con la potenza dello Spirito Santo» (Lc 4, 14). Lo Spirito è definito «la potenza dell’Altissimo» (Lc 1, 35).
La discesa dello Spirito Santo a Pentecoste è volutamente descritta con gli stessi tratti della teofania del Sinai (cf Es 19-20). Un modo, questo, di affermare che il mistero dello Spirito non è da meno, né di natura diversa, di quello di Dio stesso. Identico mistero, identici effetti: gli astanti sono "sbigottiti", "stupefatti", "fuori di sé per lo stupore".
Ma veniamo all’aspetto pratico della nostra riflessione, che è quello che ci sta più a cuore. Che cosa vuole inculcarci la Bibbia con questa rivelazione dello Spirito Santo come forza e potenza? Che cosa possiamo dedurre da essa per la nostra vita di fede? Penso soprattutto questo: che lo Spirito Santo è l’unica forza vera, l’unico potere reale che sostiene la Chiesa! Come il singolo credente, la Chiesa non vive di forza propria. La sua forza non sta negli "eserciti", nei "carri e nei cavalli" o in cose di questo genere.
La forza della Chiesa non sta neppure nei "sapienti ragionamenti", intelligenza, diplomazia, filosofia, diritto canonico o organizzazione. Paolo diceva: «Il nostro vangelo, infatti, non si è diffuso fra voi soltanto per mezzo della parola, ma con potenza e con Spirito Santo e con profonda convinzione» (1 Ts 1, 5).
È dallo Spirito Santo, perciò, che la Chiesa e ogni annunciatore del Vangelo ha il potere di convincere e di convertire, di penetrare nel cuore di una cultura e di abbattere in essa i baluardi che si ergono contro Cristo, inducendo i popoli all’obbedienza della fede. Lo Spirito Santo è la fonte e il segreto del coraggio e dell’audacia del credente. Degli apostoli, in un momento difficile della loro missione, si legge: «Tutti furono pieni di Spirito Santo e annunciavano con franchezza (parrhesia) la parola di Dio» (cf At 4, 13; 4, 29).
Lo Spirito Santo è la forza dei profeti, degli apostoli e dei martiri. Paolo esclama: «Dio, infatti, non ci ha dato uno Spirito di timidezza, ma di forza» (2 Tm 1, 7).
Non è dunque del tutto vero, come affermava don Abbondio, nel cap. XXV de “I Promessi Sposi”, che «il coraggio, uno non se lo può dare». Almeno sul piano spirituale, è possibile "farsi coraggio", perché «lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza» (Rm 8, 26). La debolezza stessa può, anzi, essere l’occasione privilegiata per fare l’esperienza della potenza dello Spirito Santo. Tutte le cose, nella Chiesa e nel singolo credente, o prendono forza dallo Spirito Santo o sono senza forza.

Lo Spirito Santo riempie la nostra solitudine
Passiamo ora alla seconda caratteristica: lo Spirito Santo, mistero della bontà e della soavità, della condiscendenza e vicinanza di Dio, mistero anche di quiete.
Nelle lingue semitiche Spirito è un nome femminile e questo ha fatto sì che si sviluppasse, in certi ambienti, una ricca dottrina dello Spirito Santo "madre", che accentuava questi caratteri "miti e dolci" della sua personalità.
Ma questo tema venne presto emarginato dalla grande Tradizione della Chiesa. Una cosa però è certa: delle tre divine persone, lo Spirito Santo è certamente quella che, nella Rivelazione e nel linguaggio, è meno caratterizzata in senso maschile (la prima persona è "padre", la seconda è "figlio" ed è stato, storicamente, un "uomo").
Uno sguardo alla situazione della donna nelle epoche passate mette in evidenza un fatto innegabile: le donne sono state emarginate in tutti gli ambiti della vita, all’infuori di quello strettamente privato della famiglia. Le donne si collocano in un gradino nettamente inferiore all’uomo: filosofia, letteratura, arte, politica… C’è un solo ambito dove esse si collocano su un piano di assoluta parità; l’ambito della santità. È difficile stabilire se siano stati di più e più grandi, nella storia della Chiesa, i santi o le sante, nonostante che per le donne sia stato certamente più difficile, se non diventare, almeno essere riconosciute tali. Lo Spirito Santo ha santificato sia gli uomini sia le donne, rispettando la caratteristica di ognuno dei due sessi: con una santità, nel primo caso, virile; nel secondo femminile. Egli si è manifestato, di preferenza, negli uomini come mistero di potenza, forza e coraggio, e nelle donne come mistero di tenerezza, accoglienza e soavità.
Dello Spirito divino, che entra dentro l’uomo per dimorare stabilmente in lui, si comincia a parlare relativamente tardi nella Scrittura. Isaia parla dello Spirito che Dio ha fatto abitare nell’intimo di Mosè (cf Is 63, 11), di uno Spirito che sarà con noi (cf Is 59, 21), di uno Spirito che si può contristare (cf Is 63, 10). Ma è nel Secondo Testamento che questo aspetto è portato in piena luce. Promettendo lo Spirito, Gesù dice: «Egli dimora presso di voi e sarà con voi» (cf Gv 14, 17). Stabilmente, non più solo di passaggio. Noi diventiamo il suo tempio (cf 1 Cor 3, 17; 6,19). Da qui la bella definizione di «dolce ospite dell’anima» (dulcis hospes animae) che si legge nella Sequenza di Pentecoste.
Che dice a noi questo secondo modo di presentarsi dello Spirito, che integra e arricchisce il primo modo "tre­mendo"? San Basilio lo dice con una frase semplice e stupenda: lo Spirito Santo è colui che crea «l’intimità (oikeiosis) con Dio». Nella Lettera agli Efesini leggiamo: «Per mezzo di lui (Cristo) possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito. Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari (oikeioi) di Dio […]. In lui anche voi insieme con gli altri venite edificati per diventare dimora di Dio per mezzo dello Spirito» (2, 18-22).
Nello Spirito Santo, Dio ci attrae a sé, ci toglie quella paura e quel disagio nei suoi confronti che abbiamo ereditato da Adamo dopo la colpa. Per lo Spirito, noi siamo "di casa" in Dio! Giovanni, dal canto suo, scrive: «Da questo si conosce che noi rimaniamo in lui ed egli in noi: egli ci ha fatto dono del suo Spirito» (1 Gv 4, 13).
Intimità (superlativo di intus), che significa “dentro”, è una delle pochissime parole umane che ha solo e sempre sensi positivi: intimità della famiglia, della coppia, della casa, del proprio cuore. Nell’intimità con un’altra persona avviene la riconciliazione tra identità e alterità, tra essere se stesso ed essere in relazione, tra l’io e il tu. In ogni intimità santa è all’opera, in qualche modo, lo Spirito Santo. Non è il luogo che crea l’intimità, ma l’amore, e l’amore viene dallo Spirito Santo. In ogni autentica esperienza umana di intimità, compresa quella coniugale, la persona cerca l’intimità con Dio, l’intimità assoluta; cerca, forse senza saperlo, quel centro dell’essere, quel punto di fusione, quel luogo di riposo, oltre il quale sa che non ce altro di più profondo e che fa più felici.
Ne ricaviamo, anche qui, una conseguenza pratica. Lo Spirito Santo è la risposta e il rimedio alla nostra solitudine, l’altra grande causa di sofferenza, accanto alla paura e alla debolezza. Che cosa rompe veramente la solitudine? Non certo stare in mezzo a una folla, ma piuttosto avere un amico, un interlocutore, un compagno. Questo è per noi, se lo vogliamo, lo Spirito Santo. Se la debolezza può essere l’occasione per fare l’esperienza della forza dello Spirito, la solitudine può essere l’occasione per fare esperienza di questo "dolce ospite". Quando non possiamo parlare di una cosa con nessuno, possiamo imparare, a poco a poco, a parlarne con questo ospite "discreto", che è anche "consolatore perfetto" e "consigliere mirabile".
Come mistero di quiete, lo Spirito Santo è anche la risposta al nostro cuore inquieto, insoddisfatto e in ricerca.
In conclusione di questa riflessione sui due modi di manifestarsi dello Spirito Santo, dobbiamo precisare che non è necessario, né forse possibile, sperimentare nello stesso tempo lo Spirito Santo nel suo aspetto di forza e in quello di dolcezza e intimità, nel suo dinamismo e nella sua quiete. Egli si è rivelato, di volta in volta, sotto l’una e l’altra forma e noi pure ne facciamo l’esperienza ora nell’uno ora nell’altro modo, a seconda del bisogno, delle disposizioni e della grazia del momento. Mosè, sul Sinai, percepì Dio nel tuono e nel vento impetuoso (cf Es 19, 18-19); Elia, sullo stesso monte, l’Oreb, lo percepì nella brezza leggera (cf 1 Re 19, 12).

Alla scuola dello Spirito
Ora possiamo, concludendo, richiamare in nostro aiuto il simbolo del vento, perché ci aiuti a fissare il contenuto della nostra contemplazione in immagini visive e a portarlo con noi nella vita.
Guardiamo, ad esempio, cosa succede quando soffia un vento impetuoso. Gli alberi si piegano e anche i robusti cedri del Libano, che tentano di resistergli, si schiantano. Ci ricordiamo allora di quella preghiera della Chiesa che dice: «Piega a te le nostre volontà, anche se ribelli». Osserviamo invece come le foglie, che si piegano docilmente al passaggio del vento, non soffrono alcun danno, almeno finché sono verdi. Le nostre anime dovrebbero essere sensibili e docili allo Spirito, come le foglie al vento.
Camminare o remare contro vento: che fatica! Farlo con il vento favorevole: che gioia! Fare le cose senza lo Spirito Santo: come è pesante! Farle con lui: come tutto è più leggero!
Il vento feconda. Trasporta i semi dei fiori e delle piante e li depone nei calici di altri fiori o nella terra, perché germinino. Così fa lo Spirito Santo col seme che è la parola di Dio.
Molti anni fa feci un viaggio in Irlanda, girandola un po’ con la macchina. Ci trovammo a viaggiare anche nella regione più a nord, in riva all’oceano. Quello è il regno dei gabbiani. Ricordo che ci fermavamo lungamente coi miei compagni di viaggio ad osservarli dall’alto di quelle scogliere aspre e solitarie. Planavano a lungo, quasi immobili, sul mare, al di sopra dei dirupi. Avevo forse davanti agli occhi la stessa immagine che lo scrittore sacro aveva in mente quando diceva che, all’inizio del mondo, lo Spirito di Dio "aleggiava" sulle acque, sopra l’abisso. Ma, soprattutto, era impressionante notare come i gabbiani conoscono l’arte di… far lavorare il vento. Si librano sulle ali del vento (cf Sal 18, 11) e si fanno portare da esso. Perciò possono volare per ore senza stancarsi e raggiungere velocità tanto elevate. Non ci dice nulla tutto ciò?
Il vento è l’unica cosa che non si può "imbottigliare" o inscatolare e mettere in circolazione. Lo si fa con l’acqua e perfino con l’energia elettrica, che può essere accumulata e racchiusa in pile. Ma coil vento no. Non sarebbe più vento, cioè aria in movimento, ma tutt’al più aria ferma, morta. Pretendere di rinchiudere lo Spirito Santo in concetti, definizioni, tesi, trattati, quasi in altrettante scatole o lattine, significa perderlo e vanificarlo.
Esiste anche la tentazione di voler racchiudere lo Spirito Santo in "lattine" ecclesiastiche: in canoni, istituzioni, definizioni. Lo Spirito crea e anima le istituzioni, ma non può essere lui stesso istituzionalizzato. Il vento soffia dove vuole, così lo Spirito distribuisce i suoi doni come vuole (cf 1 Cor 12, 11). Non si può "incanalare" rigidamente lo Spirito Santo, neppure nei cosiddetti "canali della grazia", come se egli non fosse libero di agire anche al di fuori di essi. Il Concilio Vaticano II ha riconosciuto che lo Spirito Santo «offre a ogni uomo la possibilità di essere associato al mistero pasquale, in un modo noto solo a Dio» (cf GS 22). Il vento è il simbolo più eloquente della libertà dello Spirito.
Anche l’altro simbolo, il respiro, il soffio, ha molte cose da ricordarci. Cosa succede se, per qualsiasi motivo, stiamo per troppo tempo senza respirare? É l’esperienza tremenda dell’asfissia: «Mi manca il respiro, soffoco!». Se sapessimo ascoltare il grido della nostra anima, quando stiamo per troppo tempo senza preghiera, privi di Spirito Santo, sentiremmo che anch’essa grida a modo suo: «Mi manca il respiro, soffoco!». Quando qualcuno sta per svenire, gli si grida di solito: «Respira, fa’ dei bei respiri profondi!». Lo stesso dovremmo dire a chi sta per lasciarsi cadere le braccia e arrendersi nella lotta contro il male: «Respira, fa’, mediante la preghiera, dei respiri profondi di Spirito Santo!».
Gesù, la sera di Pasqua, alitò sui discepoli. Nel battesimo egli ha ripetuto quel gesto su ognuno di noi. Secondo il rituale in vigore fino a non molti anni fa, il sacerdote a un certo punto del rito pronunciava le parole: «Esci da questo bambino (bambina), spirito immondo, e lascia il posto allo Spirito Santo». Così dicendo, alitava per tre volte sul suo volto. Gesù è sempre pronto a rinnovare quel suo gesto su chi gli si offre, a viso scoperto, per ricevere il suo alito.
C’è un testo, nella Bibbia, dove si trovano riuniti i tre significati di ruach evocati in questa prima meditazione: quello di vento, quello di soffio (o respiro) e quello di Spirito Santo. È la profezia delle ossa aride di Ez 37. «Non c’era spirito in esse», cioè respiro, vita. «Spirito, vieni dai quattro venti e soffia!». «Lo spirito entrò in essi e ritornarono in vita e si alzarono in piedi».
«Farò entrare in voi il mio Spirito e rivivrete». Qui lo Spirito è ormai lo Spirito di Dio, lo Spirito Santo; la vita di cui si parla non è più solo quella fisica.
«Spirito, vieni!» È la primordiale epiclesi. Da qui deriva l’invocazione che apre il nostro inno: Veni creator Spiritus, come pure quella con cui inizia la Sequenza di Pentecoste: Veni sancte Spiritus. È la prima e l’unica preghiera rivolta, nella Bibbia, direttamente allo Spirito, l’unica anche che la Chiesa ha raccolto e che prolunga nei secoli. È l’equivalente di quel «Vieni, Signore!», che i primi cristiani rivolgevano, nel culto, a Cristo.
«Figlio dell’uomo, queste ossa sono tutta la gente d’Israele. Ecco, essi vanno dicendo: Le nostra ossa sono inaridite, la nostra speranza è svanita, noi siamo perduti» (Ez 37, 11).
Quella "gente" ora siamo noi. Anche a noi perciò è promessa quella "ventata" di Spirito Santo e quella esperienza di risurrezione. Queste nostre meditazioni vorrebbero servire proprio a questo scopo: aiutarci ad accorgersi che il "vento gagliardo" di Pentecoste soffia ancora e che Gesù è sempre nell’atto di "alitare" sui discepoli. Che il cenacolo si è riaperto e le acque della piscina di Betesda (Probatica) sono di nuovo "agitate" dall’angelo. Chi vuole essere guarito, non ha che da gettarvisi dentro…
Non ci stanchiamo perciò di inserirci in questa incessante epiclesi che accompagna la storia della Chiesa, ripetendo anche noi:

Vieni, o Spirito Santo!
Vieni forza di Dio e dolcezza di Dio!
Vieni tu che sei moto e quiete nello stesso tempo!
Rinnova il nostro coraggio,
riempi la nostra solitudine nel mondo,
crea in noi intimità con Dio!
Noi non diciamo più, come il profeta:
Vieni dai quattro venti,
come se non sapessimo ancora da dove tu provieni; diciamo:
Vieni Spirito dal costato trafitto di Cristo sulla croce!
Vieni dalla bocca del Risorto! Amen.

 

CREATORE
Lo Spirito Santo trasforma il caos in cosmo

Veni creator Spiritus, Vieni o Spirito creatore! La qualifica di creatore è nuova e insolita. Il nostro inno è forse l’unico testo liturgico in cui lo Spirito è chiamato con questo nome, anziché con quello, per così dire, "canonico" di Santo. È la parola più forte, non solo del primo verso, ma dell’intero inno. È una sorta di finestra che si spalanca sulla Bibbia e sulla Tradizione. Non è che una breve parola, ma più si scava nella sua storia, più essa rivela profondità insospettate.

Lo Spirito Santo creatore nella Tradizione
Il titolo di "creatore" è il punto di approdo e di coagulo di tutto un filone della Rivelazione biblica e della Tradizione della Chiesa.
Il concetto di creatore aveva svolto un ruolo decisivo nella definizione della divinità di Gesù Cristo nel Concilio di Nicea (325), terreno dello scontro tra ariani e ortodossi. Seguendo il pensiero filosofico del tempo, gli ariani distinguevano tre gradi dell’essere: l’essere ingenerato, che è Dio; l’essere intermedio, che è il demiurgo (il dio secondo) e l’essere fatto e creato che è quello delle creature. A questa tripartizione il pensiero ortodosso sancito a Nicea oppone la nuova ripartizione cristiana, che conosce due sole possibilità: l’Essere increato e l’essere creato. O si è creatore o si è creatura: non si dà via di mezzo.
Tutta la battaglia dell’ortodossia consisterà, a questo punto, nel dimostrare che il Figlio non è una creatura e che, dunque, fa parte dell’essere creatore come il Padre. La distinzione del Credo (niceno-costantinopolitano) "generato non creato" (genitum non factum) permette di distinguere meglio tra generazione e creazione; il Figlio, pur essendo generato, tuttavia non è creato, ma creatore insieme con il Padre.
Una volta messa al sicuro la divinità di Cristo, si usa questa stessa arma per risolvere il problema della divinità dello Spirito Santo. È Atanasio, uno dei protagonisti di Nicea, che utilizza per primo la forza di questo argomento a favore della divinità dello Spirito Santo. Il suo ragionamento è semplice: “Come il Figlio, che è nel Padre, non è una creatura, ma è proprio della sostanza del Padre, così neppure è permesso computare tra le creature lo Spirito che è nel Figlio e ha il Figlio in lui, mutilando così la Trinità” (Lettere a Serapione, I, 21).
I cristiani sentono di essere trasformati e “deificati” dal contatto dello Spirito: «Se lo Spirito Santo fosse una creatura, noi non avremmo, per mezzo di lui, alcuna partecipazione di Dio… Ma se mediante la partecipazione dello Spirito, noi diventiamo partecipi della natura divina, certamente insensato sarebbe chiunque dicesse che lo Spirito appartiene alla natura creata e non a quella di Dio» (Ibidem, I, 24).
Il Concilio di Costantinopoli del 381 non inserisce esplicitamente, nell’articolo sullo Spirito Santo, il titolo di "creatore", forse per non ripetere quello che nello stesso Simbolo di fede viene detto del Padre e usa, al suo posto, la qualifica di Signore («Credo nello Spirito Santo che è Signore…»). Ma l’opposizione tra servo e signore (o re) non è che un altro modo di esprimere l’opposizione tra creatura e creatore.
A noi appare oggi un po’ strano che non si risolva il problema alla radice, attribuendo semplicemente allo Spirito Santo il titolo di "Dio". Ma tale era, fino a quel momento, il modo di procedere dell’ortodossia: evitare di applicare apertamente il titolo di "Dio" allo Spirito Santo, rimanendo così fedeli alla lettera della Scrittura che parla di «un solo Dio» (cf Ef 4, 6) ed esprimere la fede nell’assoluta divinità dello Spirito, attribuendo di fatto a lui lo stesso onore e venerazione che è dovuta al Padre e al Figlio. Per questo stesso motivo, l’articolo di fede approvato a Costantinopoli nel 381 non dice dello Spirito Santo che è Dio, ma che "con il Padre e il Figlio è adorato e glorificato".
In Dio tutto è comune, quando non è in causa la caratteristica propria di ciascuna persona.
Cominciamo così a renderci conto di quale retroterra profondo ci sia dietro la parola che proclama lo Spirito "creatore".

Lo Spirito creatore nella Scrittura
Nell’attribuire allo Spirito questo ruolo nella creazione, i Padri si fondano sulla Bibbia. Essi tendono a mostrare, a partire dalla Bibbia, come lo Spirito Santo sia, di fatto, "creatore" ed è proprio su questo che vogliamo ora raccogliere il loro pensiero. Interroghiamo anche noi la Bibbia sullo Spirito creatore, coi mezzi e le conoscenze di oggi, non con quelle di allora, dei Padri. Vedremo che, nella sostanza, essi non si sono sbagliati. La Scrittura contiene certamente l’idea dello Spirito "creatore".
Nella Parola di Dio troviamo due tipi di affermazioni circa lo Spirito creatore. Vi sono anzitutto parole che qualificano lo Spirito in tal senso e gli attribuiscono esplicitamente una funzione creatrice e vi sono momenti o fatti nei quali lo Spirito Santo è associato ad azioni creatrici di Dio ed è presentato come il principio di una nuova nascita, di vita e situazioni nuove. Nella maggioranza di questi ultimi testi si parla, è vero, della "nuova creazione", quella spirituale in Cristo, ma le due creazioni si richiamano a vicenda. Lo Spirito Santo è autore della nuova creazione in quanto lo fu della prima; egli ricrea ciò che ha creato. Diceva Ambrogio: «Chi potrebbe negare che sia opera dello Spirito Santo la creazione della terra, se è opera dello Spirito il suo rinnovamento?» (Sullo Spirito Santo, II 34).
Il Secondo Testamento stabilisce questo legame, presentando spesso gli interventi dello Spirito Santo nella redenzione in contrappunto ad altrettanti momenti della creazione. Così la colomba che aleggia sulle acque del Giordano richiama lo Spirito, che all’inizio aleggiava sulle acque (Gn 1, 2), tanto più che il verbo usato in ebraico suggerisce proprio l’idea dell’uccello che cova o aleggia sui suoi nati; Gesù che alita sul volto dei discepoli la sera di Pasqua richiama il momento in cui Dio soffia in Adamo un «alito di vita».
Il punto di partenza di tutti questi sviluppi è senz’altro il passo di Gn 1, 2: «Lo spirito di Dio aleggiava sulle acque». L’espressione originale ebraica, ruach ‘elohim, viene tradotta generalmente con "vento di Dio" o "tempesta di Dio" anche se, in questo caso, il soggetto viene a trovarsi in contrasto con il verbo aleggiava, che è stato sempre inteso nell’ebraico nel senso di "planare", "covare", cioè come un verbo di quiete, non di tempesta.
Avanzando nella Rivelazione troviamo accenni via via sempre più espliciti ad un’attività creatrice dello Spirito, che chiaramente si rifanno a quel testo: «Dalla parola del Signore furono fatti i cieli, dal soffio (ruach, pneuma) della sua bocca ogni loro schiera» (Sal 33, 6). "Spirito" non indica certamente qui il vento naturale, perché è soffio della bocca di Dio. A quello stesso testo si rifà un altro salmo quando dice: «Mandi il tuo spirito, sono creati, e rinnovi la faccia della terra» (Sal 104,30).
Questa linea di sviluppo diventa chiarissima nel Secondo Testamento che, come si è detto, descrive l’intervento dello Spirito Santo nella nuova creazione servendosi proprio delle immagini che si leggono a proposito dell’origine del mondo.

Il titolo di "creatore"
Che cosa dice oggi a noi, anzitutto dal punto di vista teologico e di fede, il titolo di "creatore" dato allo Spirito Santo? La cosa fondamentale resta quella messa in luce dai Padri: lo Spirito Santo è Dio! Col titolo di "creatore" l’autore del nostro inno ha voluto mettere in cima a tutto una solenne professione di fede nella divinità dello Spirito Santo. Il titolo di "creatore" è come se fosse la chiave musicale posta all’inizio di una sinfonia, che decide il suono che darà in seguito ogni nota. Si sta parlando di Dio stesso, non di qualche suo attributo o di una vaga energia divina. Il bello dell’inno è che è in forma di preghiera. Nel Credo si parla dello Spirito Santo, qui si parla allo Spirito Santo.
Il titolo di "creatore" si rivela come un baluardo contro il tentativo di deviare dal fiume della Tradizione. Al tempo dell’idealismo razionalistico del XVIII secolo l’idea dello Spirito "creatura" (e non creatore), rifiutata nel IV secolo, tornò a circolare in forma nuova e più radicale. Lo Spirito, infatti, non era visto come una realtà ipostatica intermedia tra Dio e l’uomo come facevano gli antichi avversari dello Spirito Santo (chiamati Macedoniani o Pneumatomachi), ma come lo spirito dell’uomo puro e semplice. Non più Spirito divino, ma spirito umano, intelletto o ragione.
Tutti questi antichi e nuovi tentativi di "riduzioni" sono combattuti da quella semplice invocazione iniziale dell’inno: «Vieni, Spirito creatore!». Che cosa afferma chi intona con la Chiesa quelle parole? Che lo Spirito non è per natura dentro di lui, non è lui, perché  altri è colui che grida, altri colui a cui si grida. Chi dice: «Vieni Spirito creatore!» si professa nello stesso istante creatura, riconoscendone la differenza qualitativa infinita. Non si colloca come creatura al posto del creatore, come facevano i pagani (cf Rm 1, 25).
Ma la portata del titolo di "creatore" non si esaurisce in questo compito negativo; ne ha anche uno positivo di somma importanza. È su questo titolo che riposa l’universalismo cristiano e la possibilità di dialogare oggi con le religioni non cristiane. Che significa proclamare che lo Spirito Santo è creatore? Significa dire che la sua sfera d’azione non è ristretta alla Chiesa e alla storia della salvezza, ma si estende tanto quanto la stessa creazione. Nessuna delle tre sfere, quella della creazione, quella della redenzione e quella della santificazione, che si attua nella Chiesa, gli è estranea. Nessuna epoca è priva della sua attiva presenza. Egli agisce fuori della Bibbia e dentro di essa; agisce prima di Cristo, al tempo di Cristo e dopo Cristo, anche se mai separatamente da lui.
Veramente «lo Spirito del Signore riempie l’universo e abbracciando ogni cosa conosce ogni voce» (Sap 1, 7). Nessuno può sottrarsi alla sua luce benefica, come nessuno può sottrarsi al calore del sole. «Dove andare lontano dal tuo spirito?», domanda il salmista (Sal 139, 7).
Un documento del Concilio Vaticano II, GS 26, dice che lo Spirito di Dio è all’opera nel cuore di ogni uomo e lo sollecita a porsi il problema religioso. Certo, dobbiamo anche però dire che il modo di agire dello Spirito nell’ambito della creazione è qualitativamente diverso da quello con cui agisce nell’ambito della redenzione e della Chiesa. É un rapporto analogo a quello che esiste tra i "semi del Verbo" e il "Verbo totale", rivelatosi in Gesù Cristo.
La scelta del titolo di "creatore" permette anche di dare un fondamento teologico ad un problema oggi fortemente avvertito dalla sensibilità umana: quello dell’ecologia e della salvaguardia del creato. Il creato è l’opera dello Spirito creatore; deturparlo è contristare il suo autore. Lo Spirito incorruttibile di Dio è «in tutte le cose» (Sap 12, 1). Il salmo che canta gli splendori della creazione e che assegna a ogni creatura il suo posto e il suo spazio, è anche quello che attribuisce tutto questo allo Spirito Santo: «Se togli loro il tuo spirito, muoiono, e ritornano nella loro polvere. Mandi il tuo Spirito, sono creati, e rinnovi la faccia della terra» (Sal 104, 29-30).
Nelle religioni animistiche e idolatriche il creato è protetto dalla credenza che in ogni essere, bosco, albero, ruscello, c’è uno spirito che li abita. Nella visione cristiana a questo movente animistico si dovrebbe sostituire il movente autenticamente spirituale, per cui ogni cosa è parte di un’armonia e di un ordine, che è opera dello Spirito creatore.
Anche l’ispirazione dei poeti e la creazione artistica, in tutte le sue manifestazioni, è opera di questo Spirito creatore, che però trascende tutte queste cose e non deve essere identificato con esse. Goethe vedeva nel Veni creator (di cui egli stesso fece una bella traduzione tedesca) un’invocazione al genio, che parla potentemente a tutti gli uomini dotati di spirito e di animo grande. Il titolo di "creatore" rappresenta dunque l’apertura massima, a trecentosessanta gradi, nel discorso sullo Spirito Santo. Non si sarebbe potuto ottenere questo risultato con il titolo stesso di "santo", perché questo avrebbe, in qualche modo, ristretto l’azione dello Spirito alla sfera della santificazione e della grazia.

L’esperienza dello Spirito come creatore
La cosa più importante anche a proposito dello Spirito creatore non è però comprenderlo o spiegarlo, ma è farne l’esperienza. Il senso di creare è quello di trarre dal nulla, cioè dall’assenza di qualsiasi realtà. Come può, dunque, un essere che già esiste invocare lo Spirito come creatore? Se invoca esiste e se esiste come può essere ancora creato?
In realtà invocare su di sé lo Spirito creatore è riportarsi, nella fede, a quel momento in cui Dio aveva ancora su di noi ogni potere, quando non eravamo ancora che un "pensiero del suo cuore" ed egli poteva fare di noi quello che voleva, senza ledere la nostra libertà, come l’argilla tra le mani del vasaio «Signore, tu sei nostro padre; noi siamo argilla e tu colui che ci dà forma» (Is 64, 7).
Invocare su di sé lo Spirito come creatore è abbandonarsi alla sovrana azione di Dio, in totale fiducia. È dare carta bianca a Dio, come fece Maria quando disse: «Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto» (Lc 1, 38).
Ma ritorniamo al testo che sta alla base di tutta questa nostra riflessione sullo Spirito creatore, Genesi 1, 2, per capire cosa significa il fatto che nel Veni creator noi invochiamo l’azione creatrice propria dello Spirito, non quella divina in genere. Cosa apporta di specifico e di "personale" lo Spirito nella creazione? Lo Spirito Santo non è all’origine, ma, per così dire, al termine della creazione. Nella creazione, scrive san Basilio, il Padre è la causa principale, colui dal quale sono tutte le cose; il Figlio la causa efficiente, colui per mezzo del quale tutte le cose sono fatte; lo Spirito Santo è la causa perfezionante. Non che la forza operativa del Padre sia imperfetta, ma il Padre vuole fare esistere per mezzo del Figlio e vuole portare alla perfezione per mezzo dello Spirito. L’azione creatrice dello Spirito è all’origine, dunque, della perfezione del creato; egli, diremmo, non è tanto colui che fa passare il mondo dal nulla all’essere, quanto colui che lo fa passare dall’essere informe all’essere perfetto. In altre parole, lo Spirito Santo è colui che fa passare il creato dal caos al cosmo, che fa di esso qualcosa di bello, di ordinato e pulito.
Ora, noi sappiamo che l’azione creatrice di Dio non si limita all’istante iniziale. Dio non "è stato" una volta, ma sempre "è" creatore.
Che significa tutto ciò applicato allo Spirito Santo? Significa che egli è sempre colui che fa passare dal disordine all’ordine, dalla confusione all’armonia, dalla deformità alla bellezza, dalla vetustà alla novità. Non, s’intende, meccanicamente e di colpo, ma nel senso che è al lavoro e sempre crea e rinnova la faccia della terra.
Al momento della morte di Cristo, gli evangelisti notano che «vennero le tenebre su tutta la terra» (Mc 15, 33). Era un’allusione velata al caos primordiale in cui l’umanità era ripiombata con il peccato, giunto al suo culmine con l’uccisione di Cristo. L’universo era sul punto di ricadere nel caos se Gesù non avesse emesso il suo Spirito divino, esclamando: "Padre, nelle tue mani consegno il mio Spirito" (Lc 23, 46). Ed ecco che, al diffondersi dello Spirito, come rianimato, vivificato e consolidato, l’universo ritrovò la sua stabilità.
Non si tratta di un vago "spirito di Dio" ma dello Spirito che viene dalla croce di Cristo e il caos è quello morale del male e del peccato.
Questa visione prosegue nel modo con cui viene descritta la discesa dello Spirito Santo a Pentecoste. Lo Spirito trasforma il caos linguistico di Babele nella nuova armonia delle voci. Grazie a lui da tutte le lingue si innalza ora, concordemente, un inno a Dio, come quando un direttore d’orchestra sale sul podio e ad un suo cenno cessa lo stridio di accordi degli strumenti in prova e, al suo posto, inizia e si diffonde una mirabile sinfonia!

Veni creator Spiritus
Applichiamo ora tutto questo anche al nostro stesso cuore. «Le tenebre ricoprivano l’abisso» (Gn 1, 2). Ma anche il cuore dell’uomo, dice la Scrittura, è un baratro e un abisso (cf Sal 64, 7). C’è un caos esteriore e un caos interiore. Il nostro caos interiore è quello del buio che c’è in noi; dei desideri, progetti, propositi, rimpianti contrastanti e in lotta tra di loro. Un autore spirituale del Medioevo, il monaco certosino Guigo, descriveva in questi termini il suo stato spirituale: «Mi accorgo, Signore, che la terra del mio spirito è ancora inconsistente e vuota, che le tenebre ricoprono la superficie dell’abisso… Essa è infatti nella confusione come in una specie di caos spaventoso e oscuro, ignorando sia il suo fine sia la sua origine e il modo della sua natura… Così è la mia anima, Dio mio, così è la mia anima. Una terra deserta e vuota, invisibile e informe, e le tenebre sono sulla superficie dell’abisso… Ma l’abisso del mio spirito ti invoca, Signore, affinché tu crei, anche da me, cieli nuovi e terra nuova» (Medatazioni, V).
Lo Spirito di Dio, che era in azione sopra e dentro il caos primordiale, è ancora operante nel mondo. Intonando il Veni creator, noi diciamo: «Vieni, Spirito Santo, aleggia e soffia anche sul mio caos, rischiara le mie tenebre (cf Sal 18, 29), fa’ anche di me davvero un piccolo mondo, una cosa bella, armoniosa e pura: una nuova creazione».
Noi portiamo in noi stessi un vestigio del caos primordiale: il nostro inconscio. Lo Spirito Santo vuole aleggiare anche sul caos del nostro inconscio in cui si agitano forze oscure, impulsi contrastanti, in cui si annidano angosce e nevrosi, ma anche possibilità inesplorate. «Lo Spirito, dice Paolo, scruta ogni cosa…» (1 Cor 2, 10). A chi ha problemi con il proprio inconscio  non si può dare migliore consiglio che quello di coltivare una particolare devozione allo Spirito Santo e di invocarlo spesso nella sua qualità di creatore. Egli è il migliore psicanalista e psichiatra del mondo.
C’è poi un tempo della nostra giornata in cui è più necessario e più spontaneo fare l’esperienza della potenza creatrice dello Spirito ed è il risveglio del mattino. Ogni mattino, che succede alla notte, è una vivida reminiscenza e un simbolo dell’uscita del mondo dal caos primordiale. Si rinnova il prodigio e la liturgia stessa ci suggerisce questa associazione, specialmente in alcuni inni delle Lodi mattutine:
«Nel primo chiarore del giorno, vestite di luce e silenzio, le cose riemergono dal buio com’era al principio del tempo».
Angosce, sogni, incubi, bene e male, realtà e irrealtà: tutto è mescolato e confuso nella notte. A volte, ci destiamo il mattino con la sensazione di dover ricominciare tutto da capo, come persone che non hanno mai conosciuto Dio e non sanno cosa siano fede, speranza e carità. Di qui l’importanza di iniziare ogni nuovo giorno con lo Spirito Santo, perché trasformi il nostro caos notturno nella luce della fede, della speranza e della carità. Le parole più belle con cui possiamo iniziare un nuovo giorno sono proprio i primi due versi del nostro inno: «Vieni, o Spirito creatore, visita le nostre menti!».

Tutto il seguito delle nostre riflessioni, in questi Esercizi spirituali, vuole aiutarci a raggiungere il luminoso traguardo intravisto in questa meditazione: passare nuovamente dal caos al cosmo, emergere come "creazione nuova", grazie all’azione creatrice dello Spirito Santo.

Terminiamo leggendo insieme un inno che si recita nella Liturgia delle Ore dei paesi di lingua inglese:

Spirito che aleggiavi nel principio
sul deserto e le tenebre del mondo
e in armonia mutavi il fango e il caos,
spirando vita all’uomo nel profondo.

Vieni e il nostro deserto fa’ fiorire,
prega tu in noi, trasformaci nel Figlio,
alla tua grazia l’anima disponi,
e fa’ che aderiamo al Padre e al suo consiglio.

 

RIEMPI DI GRAZIA CELESTE I CUORI CHE HAI CREATO
Lo Spirito Santo rinnova ai nostri giorni i prodigi della prima Pentecoste

I due ultimi versi della prima strofa del Veni creator dicono: «Riempi di grazia celeste i cuori che hai creato».
Nel Nuovo Testamento troviamo tre verbi e tre immagini per esprimere la venuta dello Spirito Santo in noi: essere battezzati nello Spirito Santo, essere rivestiti di Spirito Santo (Lc 24, 49); ed essere riempiti di Spirito Santo. Quest’ultimo è il verbo usato con maggior frequenza. Di Gesù si dice che, «pieno di Spirito Santo», si allontanò dal Giordano (Lc 4, 1); pieni di Spirito Santo sono detti Giovanni Battista, Elisabetta, Stefano. Ma soprattutto è il verbo con cui si descrive il miracolo di Pentecoste: «Tutti furono pieni di Spirito Santo» (At 2, 4).
Il presente verso del Veni creator evoca, dunque, l’avvenimento della Pentecoste. La parola "grazia" indica qui lo Spirito Santo in persona. Lo Spirito è chiamato grazia in quanto ci è dato gratuitamente, non per i nostri meriti, ma per volere divino. Quello perciò che chiediamo allo Spirito Santo è di riempirci di se stesso, non di qualche suo dono, per quanto sublime.
Questo modo di esprimersi diventerà comune in seguito per influsso proprio del Veni creator. La Sequenza di Pentecoste rivolge allo Spirito la preghiera: «O luce beatissima, riempi l’intimo dei cuori dei tuoi fedeli». E un’antifona del X secolo, tuttora in uso nella liturgia, dice: «Vieni, Spirito Santo, riempi i cuori dei tuoi fedeli e accendi in essi il fuoco del tuo amore».
L’autore del Veni creator poteva dire anche lui direttamente: «Riempi di te il cuore dei tuoi fedeli»; ma introducendo la parola "grazia" ha dato una dimensione nuova al discorso, arricchendolo enormemente. Ha attratto nell’orbita dello Spirito tutta l’opera di Cristo. Ha stabilito un nesso indissolubile tra pneumatologia e cristologia. La grazia è il punto d’incontro tra l’opera di Cristo e quella dello Spirito: il primo è l’autore della grazia, il secondo, per così dire, il contenuto.
Quello dunque che chiediamo con le parole ricordate è niente di meno che questo: che si realizzi per noi una nuova effusione dello Spirito, una nuova Pentecoste. Ma ormai conosciamo la caratteristica dell’inno, che è quella di far scaturire l’applicazione pratica da un profondo retroterra biblico e teologico, di fondere insieme teologia e spiritualità, dottrina ed esperienza. Dobbiamo perciò, anche questa volta, cercare di portare alla luce i presupposti teologici, per giungere poi alla decisione esistenziale espressa, in crescendo, dai tre verbi: «vieni, visita, riempi!».

Lo Spirito Santo e il ritorno delle creature a Dio
«Per quanto riguarda il piano di salvezza per l’uomo a opera del no­stro grande Dio e Salvatore Gesù Cristo (cf Tt 2, 13), stabilito secondo la bontà di Dio, chi potrebbe contestare che esso si compie per mezzo della grazia dello Spirito Santo?» (San Basilio, Sullo Spirito Santo, XVI, 39).
Una grande scoperta, circa lo Spirito Santo comincia a farsi luce in queste parole. In rapporto al tempo, lo Spirito Santo è attivo prima nella creazione e poi nella redenzione; in rapporto allo spazio, egli opera sia nell’ambito del mondo sia in quello della Chiesa.
S. Ambrogio, dopo aver trattato dello Spirito creatore, dedica un’intera sezione del suo trattato allo Spirito nell’economia della salvezza. Dice: «Lo Spirito è l’autore della rigenerazione spirituale, in cui veniamo creati secondo Dio, per essere figli di Dio» (Sullo Spirito Santo, II, 62-69).
Per la prima creazione noi siamo creature di Dio; per la seconda creazione, siamo anche figli di Dio. La nuova creazione è la nuova nascita "dall’alto" o "dallo Spirito", di cui parla Gesù nel Vangelo (cf Gv 3, 3.5). Anche il dono di essere creati è grazia, in quanto dato gratuitamente; ma ben diversa è la grazia per cui siamo cristiani. Nel primo caso non avevamo alcun merito che ci rendesse degni del dono, nel secondo avevamo molti demeriti che ci rendevano indegni di esso.
Lo Spirito è dunque all’opera sia nell’ordine della natura sia in quello della grazia. Questa visione patristica viene portata al suo pieno sviluppo dai teologi medievali. Parlando di creazione e redenzione, san Bonaventura scrive: «Ambedue le opere sono irrorate dalla potenza dello Spirito Santo: le opere della creazione sono da lui conservate, le opere della redenzione sono da lui perfezionate» (Sermoni sui Santi,I).
Lo Spirito Santo estende dunque la sua azione da un capo all’altro della storia della salvezza, come il sole che «sorge da un estremo del cielo e la sua corsa raggiunge l’altro estremo: nulla si sottrae al suo calore» (Sal 19, 7).
Tutto il cosmo e tutta la storia appartengono allo Spirito. Tutto è di sua competenza, come, naturalmente, tutto, a diverso titolo, è di competenza del Padre e del Figlio. Si tratta piuttosto di scoprire la particolare "impronta" che ogni persona conferisce alle opere divine.

Cosa ha portato di nuovo lo Spirito a Pentecoste?
Tutta questa grandiosa visione riecheggia nelle parole del nostro inno: «Riempi di grazia celeste i cuori che hai creato». Con esse veniamo a dire: «Tu che sei il principio della nostra creazione, sii anche l’artefice della nostra santificazione!». Non si poteva affermare in maniera più chiara e più concisa che lo Spirito della creazione è anche lo Spirito della redenzione. La parola "grazia" è la "finestra" che ci spalanca dinanzi questo nuovo orizzonte. Essa dice: riferimento a Cristo, alla Chiesa, ai sacramenti, alle virtù teologali di fede, speranza e carità. Ci trasporta su un terreno nuovo e diverso rispetto a quello evocato dalla parola "creatore" nel primo verso. La grazia, nel linguaggio cristiano, è sempre "grazia di Cristo".
Ma non si tratta di rinnegare o mettere tra parentesi l’opera della creazione, per affermare quella della redenzione, la natura per la grazia. Si tratta invece di aggiungere la grazia alla natura, i doni soprannaturali dello Spirito a quelli naturali. Per questo noi invochiamo nello stesso tempo lo Spirito come creatore e come grazia e diciamo: «Vieni!», simultaneamente all’uno e all’altro. La grazia non distrugge la natura ma "la suppone" e costruisce su di essa. Questo anche dopo il peccato, perché il peccato ha "ferito" la natura, ma non l’ha corrotta del tutto. Da questo punto di vista, la nuova creazione è una restaurazione, un rinnovamento, un’elevazione, non una creazione ex nihilo, dal nulla, come la prima.
Lo Spirito «riempie di grazia divina» i cuori che egli stesso, non un altro, ha creato. Non ci sono due economie diverse e opposte, risalenti a due Spiriti diversi, ma uno solo è Dio, uno solo il Verbo, uno solo lo Spirito.
Se però non è necessario rinnegare lo Spirito della creazione per accogliere quello della grazia, neppure è permesso contentarsi più, ormai, del semplice Spirito creatore, facendo a meno dello Spirito di Cristo. È lo stesso Spirito Santo che spinge a compiere il balzo in avanti. Rifiutare di farlo, è opporre resistenza allo Spirito Santo (cf At 7, 51).
Dobbiamo però dire che la distinzione tra lo Spirito creatore e lo Spirito redentore non coincide con la distinzione tra Antico e Nuovo Testamento. Lo Spirito della grazia è già all’opera nella Legge per preparare il Vangelo. Colui che parlava nei profeti era già lo Spirito di Cristo (cf 1 Pt 1, 11). Anche riguardo alla realtà dello Spirito esiste, con Israele e col popolo ebraico, un vincolo diverso, più profondo, rispetto agli altri popoli e alle altre religioni.
La distinzione tra Spirito creatore e Spirito redentore non coincide neppure rigidamente con la distinzione tra il mondo e la Chiesa, come se, fuori di questa, nell’ambito del mondo, lo Spirito agisse solo in quanto creatore e non anche come Spirito di Cristo. Il Concilio Vaticano II ha affermato che «lo Spirito Santo, in un modo noto solo a Dio, offre a ogni uomo la possibilità di essere associato al mistero pasquale» (GS 22).
Come, perciò, non possiamo più dire oggi: «Fuori della Chiesa non c’è salvezza» (almeno nel senso in cui si diceva in passato), così non possiamo più dire: «Fuori della Chiesa non c’è Spirito Santo». Come Spirito "di Cristo", che rende presente la salvezza da lui operata (il mistero pasquale!), lo Spirito Santo è mi­steriosamente attivo anche fuori dei confini visibili della Chiesa, anche se non senza riferimento a essa.
Cosa ha portato dunque di nuovo lo Spirito con la venuta di Cristo e con la Pentecoste? Colui che un tempo veniva parzialmente e saltuariamente sui profeti, ora, in Cristo, è stabilmente e personalmente tra noi: «Per questo (lo Spirito) discese sul Figlio di Dio, divenuto figlio dell’uomo: con lui si abituava ad abitare nel genere umano, a riposare sugli uomini (cf Is 11, 2; 1 Pt 4, 14) e ad abitare nella creatura di Dio» (Ireneo, Contro le eresie, III, 17, 1)).
Finché il Verbo non aveva «fissato la sua tenda tra noi», neppure lo Spirito Santo poteva farlo; prima che lo Spirito scendesse e rimanesse in Gesù (cf Gv 1, 33), non poteva scendere e rimanere in noi. In seguito, con un linguaggio più evoluto, si dirà che prima della Pentecoste lo Spirito era presente nel mondo con i suoi doni e la sua potenza, mentre, a partire dalla Pentecoste, egli è presente “ipostaticamente”, con la sua Persona.
Col peccato l’uomo ha trasformato l’uscita delle creature da Dio (cioè la creazione) in un allontanamento da Dio (aversio a Deo); ecco perché il movimento di ritorno delle creature a Dio non può realizzarsi, ormai, se non sotto forma di una conversione a Dio (conversio ad Deum). L’uscita e il ritorno indicano due movimenti oggettivi, universali e indipendenti dall’uomo. Lo voglia o no, l’uomo è uscito da Dio e a Dio ritorna (almeno a Dio come giudice, se non come premio). L’allontanarsi, invece, da Dio e il convertirsi a lui indicano due decisioni libere dell’uomo. Poiché l’uomo ha trasformato l’uscita da Dio in un voltare le spalle a Dio, ora deve trasformare il ritorno a Dio in una conversione a Dio. Ed è in questo processo di conversione che lo Spirito Santo è ormai visto in azione.

Lo Spirito della grazia
Ormai è chiaro: il messaggio di questa parte del Veni creator è tutto racchiuso nella parola grazia. É questa la chiave che ci deve dischiudere una nuova rivelazione sullo Spirito Santo. La prima cosa che salta agli occhi, leggendo il Nuovo Testa­mento e specialmente Paolo, è la grande vicinanza, per non dire l’equivalenza, tra Spirito Santo e grazia. Le due realtà sono riunite una volta nell’espressione «lo Spirito della grazia» (Eb 10, 29). Ma la prova principale risiede nelle prerogative, spesso identiche, attribuite all’una e all’altra realtà. A volte dove è scritto "Spirito Santo" possiamo leggere "grazia" e viceversa senza che il senso del testo venga minimamente alterato.
L’identificazione tra grazia e Spirito Santo diventa esplicita nei Padri, non appena si comincia a riflettere sulla natura divina del Paraclito: «Come è del Padre e del Figlio, così la grazia è dello Spirito Santo. Come può infatti esservi grazia senza lo Spirito, quando ogni grazia divina è nello Spirito?» (Ambrogio, Sullo Spirito Santo, I, 127)).
Che cosa mette in luce circa lo Spirito Santo questa stretta parentela con la grazia? La prima cosa è la sua gratuità. Lo Spirito Santo, in quanto grazia, è dono assolutamente gratuito, immeritato, di Dio agli uomini. La seconda cosa è la sua storicità, cioè la sua provenienza dall’evento redentore della morte e risurrezione di Cristo. Lo Spirito Santo, di cui i cristiani vivono, non è una realtà vaga, che avvolge il credente, un po’ come l’atmosfera fa con la terra. Esso è entrato con Cristo nella storia e, nel battesimo, nella vita di ogni credente.
E che cosa, in cambio, mette in luce della grazia la sua stretta parentela con lo Spirito Santo? Primo. Che la grazia non è solo una benevola disposizione di Dio a nostro riguardo; non è qualcosa di solo intenzionale, ma di reale. Secondo. Che è un evento, un intervento nuovo e personale di Dio, paragonabile a quello iniziale della creazione. La grazia non è qualcosa che Dio trova nell’uomo, a qualsiasi titolo e che lo rende a lui gradito, ma è, prima ancora, l’atto stesso di Dio, che lo costituisce giusto e gradito a lui. Una volta ricevuta poi nell’uomo, la grazia non è solo un titolo giuridico di salvezza, una specie di salvacondotto; è un potere reale.
La grazia è qualcosa di esperienziale. Di essa si può non solo avere una fede (se, per fede, intendiamo l’assenso della mente), ma se ne può fare, ed è normale che se ne faccia, l’esperienza. Questo è molto chiaro nella Scrittura. Un giorno Gesù «esultò nello Spirito Santo e disse…» (Lc 10, 21). L’azione dello Spirito è la sorgente di questa ondata di gioia, che prorompe dal cuore di Cristo e lo spinge a benedire, lodare e ringraziare il Padre. Lo stesso in Paolo. Quando egli scrive: «La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5, 5) o quando parla dello Spirito che «attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio» oppure dello Spirito che «viene in aiuto della nostra debolezza» e intercede per noi «con gemiti inesprimibili» (Rm 8, 16.26), egli non fa astratte affermazioni di principio, ma cerca piuttosto di tradurre in parole qualcosa di cui ha fatto e continua a fare nel suo cuore un’esperienza, che lo commuove. E non si tratta di un’esperienza solo individuale, ma collettiva. Espressioni come: «Dio ci ha donato il suo Spirito», «Voi avete ricevuto lo Spirito», «Lo Spirito abita in voi», lasciano chiaramente intravedere un dato di fatto di cui tutti sono consapevoli e convinti.
Alla definizione della divinità dello Spirito Santo, nel Concilio ecumenico di Costantinopoli del 381, si giunse proprio a partire dall’esperienza che di lui la comunità faceva nel culto, nel martirio e nella vita cristiana in genere. Se lo Spirito Santo ci divinizza, non c’è dubbio che sia Dio: era questo l’argomento costantemente ripetuto da Atanasio. Prima viene l’esperienza, ci divinizza o ci santifica, poi l’affermazione dogmatica: è Dio.

Il battesimo dello Spirito
La prima strofa del Veni creator è come innervata da quei tre verbi posti in posizione forte, all’inizio o a chiusura del verso: «Vieni, visita, riempi!». Essi conferiscono a tutta la strofa un grande slancio, come in un crescendo musicale. Ma quei tre verbi pongono anche un problema alla teologia. Come può la Chiesa ripetere allo Spirito Santo: «Vieni, visita, riempi!»? Non crede essa di aver già ricevuto lo Spirito Santo a Pentecoste e poi, singolarmente, nel battesimo? Che significa dire: «Vieni!» a uno che si sa già presente?
Il problema si pone anche per la Scrittura. Il giorno di Pentecoste tutti furono pieni di Spirito Santo; ma ecco che, non molto tempo dopo, ci fu una specie di seconda Pentecoste, in cui di nuovo tutti «furono pieni di Spirito Santo» e tra essi anche alcuni apostoli che erano presenti alla prima Pentecoste (At 4, 31). Paolo raccomanda ad alcuni cristiani, da tempo battezzati e attivi nella comunità, di riempirsi di Spirito Santo (cf Ef 5, 18), come se prima di allora non lo fossero stati.
S. Tommaso d’Aquino dà questa spiegazione teologica delle nuove "venute" dello Spirito Santo in noi. Nota, anzitutto, che lo Spirito Santo "viene" non nel senso che si sposta localmente, ma perché con la grazia comincia a essere, in modo nuovo, in coloro che egli rende tempio di Dio. Scrive: «C’è una missione invisibile dello Spirito ogni volta che si realizza un progresso nella virtù o un aumento di grazia […]; quando qualcuno passa a una nuova attività o a un nuovo stato di grazia: per esempio, quando riceve la grazia di operare miracoli o il dono della profezia, quando spinto da fervore di carità, si espone al martirio o rinuncia ai suoi beni, o intraprende qualsiasi altra cosa ardua e impegnativa» (Somma teologica, I, q. 43, a. 6, ad 2).
In questo contesto, bisogna accennare al cosiddetto battesimo dello Spirito, un rito fatto di gesti di grande semplicità, accompagnati da atteggiamenti di umiltà, di pentimento e di disponibilità a diventare bambini, per entrare nel Regno. È un rinnovamento di tutta l’iniziazione cristiana, non solo del battesimo. L’interessato vi si prepara con una buona confessione e partecipando a incontri di catechesi, nei quali è rimesso in un contatto vivo con le principali verità della fede: l’amore di Dio, il peccato, la salvezza, la vita nuova, la trasformazione in Cristo, i carismi, i frutti dello Spirito. Il tutto in un clima caratterizzato da profonda comunione fraterna.
L’effetto più comune di questa grazia è che lo Spirito Santo, da oggetto di fede intellettuale, più o meno astratto, diventa un fatto esperienziale.
Attraverso quello che viene chiamato, appunto, battesimo dello Spirito, si fa esperienza dello Spirito Santo, della sua unzione nella preghiera, del suo potere nel ministero apostolico, della sua consolazione nella prova e della sua luce nelle scelte. Lo Spirito trasforma interiormente, dona il gusto della lode di Dio, apre la mente alla comprensione delle Scritture, ci insegna a proclamare Gesù "Signore" e dà il coraggio di assumersi compiti nuovi e difficili a servizio di Dio e del prossimo.
C’è una nuova missione dello Spirito Santo, e quin­di una nuova sua venuta, ogni volta che, nella vita spirituale o nel proprio ministero, ci si trova davanti a un nuovo bisogno o compito da esercitare, che richiedono un nuovo livello di grazia. Questa "accelerazione" nel cammino di grazia è legata di solito alla ricezione di un sacramento, ma non esclusivamente.
La Pentecoste fu il primo battesimo dello Spirito. Annunciando la Pentecoste, Gesù disse: «Giovanni ha battezzato con acqua, voi invece sarete battezzati in Spirito Santo fra non molti giorni» (At 1,5).
Lui stesso fu presentato dal Padre al mondo come «colui che battezza in Spirito Santo» (Gv 1, 33). In tutta la sua opera, non soltanto attraverso il sacramento del battesimo da lui istituito, Ge­sù «battezza in Spirito Santo». La sua opera messianica intera consiste nell’effondere lo Spirito sulla terra.
Il battesimo dello Spirito è uno dei modi con cui Gesù risorto continua questa sua opera essenziale, che è di battezzare l’umanità "nello Spirito".

Vieni, visita, riempi!
Che cosa si richiede perché possiamo fare anche noi una tale esperienza pentecostale? Primo. Chiedere con insistenza lo Spirito Santo al Padre, nel nome di Gesù, e aspettarsi che il Padre risponda! Occorre una fede che sia piena di aspettativa. Su chi viene lo Spirito Santo?, si domandava san Bonaventura, e rispondeva con la sua solita concisione: «Viene dove è amato, dove è invitato, dove è atteso» (Sermone per la IV Domenica dopo Pasqua, 2).
Ci sono dei luoghi dove è costume invitare a entrare e a condivi­dere quello che uno sta mangiando qualsiasi persona che capita in casa all’ora di pranzo. Ma si sa che la persona invitata, altrettanto educatamente, si scuserà e rifiuterà. Si rimarrebbe, anzi, stupiti e segretamente contrariati se invece dovesse rispondere subito: «Sì, vengo con piacere!». I nostri inviti allo Spirito Santo somigliano talvolta, senza che ce ne rendiamo conto, a questi inviti. Sono inviti convenzionali, non reali. Dobbiamo invece ripetere quei tre inviti come chi è sicuro che saranno presi molto sul serio e accolti.
Nella preghiera si deve essere, poi, "unanimi e perseveranti", come lo erano gli apostoli con Maria nel Cenacolo.
Poi, ancora, essere pronti e disposti a che qualcosa cambi nella propria vita. Non si può invitare lo Spirito Santo a venire, a riempirci, a patto però che lasci tutto come prima. Ciò che lo Spirito tocca, lo Spirito cambia, dicevano i Padri.
Non possiamo ripetere: «Vieni, visita, riempi!», lasciando che la voce della carne, aggiunga sottovoce: «Ma, mi raccomando, niente stranezze, niente eccessi!». Gli apostoli non ebbero paura di essere scambiati per ubriachi. Nella messa del giorno di Pentecoste la Chiesa fa questa preghiera: «Rinnova, o Dio, ai nostri giorni, nella comunità dei credenti, i prodigi che hai operato agli inizi della predicazione del Vangelo».
Ma come possiamo continuare a dire queste parole, se appena lo Spirito Santo comincia a prendere sul serio quello che gli chiediamo, gridiamo spaventati: «Non così, non così!», e di coloro che mostrano gli effetti della sua venuta diciamo: «Si sono ubriacati di mosto»?
Terminiamo pregando insieme con le parole ispirate, che un vescovo orientale , Ignazio di Latakia, pronunciò in una solenne assise ecumenica (luglio 1968):

Senza lo Spirito Santo: Dio è lontano,
il Cristo resta nel passato, il Vangelo è lettera morta,
la Chiesa una semplice organizzazione, l’autorità una dominazione,
la missione una propaganda, il culto un ‘evocazione,
l’agire cristiano una morale da schiavi.

Ma, con lo Spirito Santo: il cosmo è sollevato e geme nel parto del Regno,
l’uomo lotta contro la carne, il Cristo è presente,
il Vangelo è potenza di vita, la Chiesa segno di comunione trinitaria,
l’autorità servizio liberatore, la missione una Pentecoste,
la liturgia memoriale e anticipazione, l’agire umano è divinizzato.

 

TU CHE SEI CHIAMATO PARACLITO
Lo Spirito Santo ci insegna a farci paracliti

Serafino di Sarov, grande mistico orientale, diceva a un suo discepolo: «Bisogna pregare solo fino al momento in cui lo Spirito Santo scende su di noi e ci accorda, in una certa misura nota solo a lui, la grazia celeste. Ricevuta la sua visita, dobbiamo smettere di invocarlo. Infatti a cosa serve implorarlo dicendo: "Vieni, poni la tua dimora in noi, purificaci da ogni macchia e salva le nostre anime, tu che sei bontà", se è già venuto?» (cf I. GORAINOFF, Serafino di Sarov, Gribaudi, Torino, 1981, 162).
Fare diversamente, sarebbe come invitare qualcuno a casa e poi, una volta che è venuto ed è lì presente, continuare a ripetergli con monotona insistenza: «Vieni a farmi visita!».
Anche per noi è giunto dunque il momento di smettere di dire allo Spirito: «Vieni, visitaci, riempici della grazia celeste!» e credere che, in un modo e in una misura noti a lui solo, egli è venuto ed è in ciascuno di noi. Infatti, a questo punto del Veni creator, l’invocazione allo Spirito cede il posto alla contemplazione dello Spirito. Immaginando il Veni creator come una sinfonia, musicale inizia qui il secondo movimento, che di solito è un "adagio" o un "largo" o un "calmo", dopo il primo movimento "mosso", "impetuoso" o "fortissimo", come è stata appunto la prima strofa dell’inno.

L’opera santificatrice dello Spirito
La seconda strofa del Veni creator, tradotta alla lettera, dice: «Tu che sei chiamato Paraclito, altissimo dono di Dio, acqua viva, fuoco, amore e unzione spirituale».
Inizia una prolungata e commossa contemplazione dello Spirito Santo nella Chiesa. Lo Spirito di cui si parla ormai è proprio lo Spirito della grazia, del ritorno a Dio; lo Spirito della redenzione che opera in pienezza nella Chiesa.
Anche dal punto di vista letterario l’inno cambia registro. Alla epiclesi o invocazione («Vieni, visita, riempi!»), subentra la eulogia, cioè l’elogio dello Spirito. Secondo lo schema tradizionale, l’elogio è introdotto dalla formula «Tu che…» e consiste in una serie di titoli, di benemerenze o di fatti, sui quali si fa leva per essere esauditi. Non si evocano tali qualità per propiziarsi la divinità ma per un impeto di sincera e gratuita ammirazione, lode e entusiasmo.
La eulogia è costituita nel nostro inno da una serie di titoli o simboli dello Spirito Santo desunti tutti dalla Bibbia. In questo senso, c’è una grande affinità tra il Veni creator e il cantico di Ma­ria, il Magnificat. Con titoli ed espressioni tratti, anch’essi, quasi tutti dalla Scrittura, Maria crea una preghiera fresca, personale e nuova; talmente nuova che nessuno potrebbe farla propria del tutto, all’infuori di lei. È la caratteristica inimitabile della Scrittura: dire con parole antiche cose nuove, con parole brevi verità abissali.
Nella Bibbia emergono successivamente due modi diversi di agire e manifestarsi dello Spirito di Dio.
La prima linea, che possiamo definire carismatica, è quella che presenta lo Spirito Santo come una forza divina che irrompe, in certe occasioni, su persone particolari, rendendole capaci di azioni e prestazioni al di là delle possibilità umane. Lo Spirito viene su uno e lo riempie di sapienza o capacità artistiche per abbellire il tempio (Es 31, 3; 35, 31); viene su un altro e gli infonde il carisma profetico (Mic 3, 8) o doti eccezionali di governo (Is 11, 2) o una forza fisica sovrumana per liberare il popolo (Gdc 13, 25).
La seconda linea, che possiamo chiamare santificatrice, è invece quella che comincia a farsi luce nei profeti e nei Salmi durante e dopo l’esilio. Per esempio in Ezechiele, laddove Dio annuncia: «Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo […]. Porrò il mio Spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti» (36, 26-27).
Oppure nel Salmo 51 che, per primo, qualifica lo Spirito come "santo", associandolo a un processo di purificazione e rinnovamento del cuore (12 s).
La differenza tra i due modi di agire è che nel primo caso l’azione dello Spirito passa attraverso la persona che la riceve, ma non si ferma in essa; non ha di mira tanto il suo miglioramento, quanto il bene dell’intera comunità. La persona può non risultare affatto migliore a causa del carisma esercitato; può, addirittura, abusarne e trasformarlo in motivo di riprovazione. Nel secondo caso, invece, l’azione dello Spirito rimane nella persona che la riceve, rinnovandola e trasformandola interiormente.
La prima linea approderà nella grande rivelazione del Nuovo Testamento sui carismi, i doni e le operazioni dello Spirito Santo, presenti prima in Gesù di Nazaret e poi, dopo la Pentecoste, nella Chiesa. La seconda è «l’opera santificatrice dello Spirito», consistente nella vita nuova dello Spirito e, concretamente, nella carità. Paolo farà la sintesi tra queste due attività dello Spirito, parlando successivamente prima dei carismi e poi della carità (cf 1 Cor 12-14). Egli insiste sulla superiorità della carità, ma riconosce entrambe le cose come necessarie alla Chiesa, come provenienti dal medesimo Spirito e destinate allo stesso scopo, che è l’edificazione del corpo di Cristo.
Queste premesse generali ci aiuteranno a capire meglio le due strofe dell’inno che ci accingiamo a meditare. I titoli che leggiamo nella seconda strofa, a partire da "Paraclito", si riferiscono infatti tutti, senza eccezione, all’opera santificatrice e illuminatrice dello Spirito; mentre è chiaro fin dal suo inizio («Tu che sei settiforme nei tuoi doni…»), che la terza strofa è dedicata interamente ed esclusivamente allo Spirito che distribuisce doni e carismi.

Un nome nato dall’esperienza
E veniamo subito al primo verso e al primo titolo della nostra strofa: «Tu che sei chiamato il Paraclito» (Qui Paracletus diceris). Per chi ha qualche familiarità con i computers, c’è un paragone che ci può aiutare a capire cosa avviene al semplice pronunciare il nome Paraclito. Mi riferisco a ciò che rappresenta il file o nome per un documento. Io scrivo sul computer un libro intero, poi lo memorizzo dandogli un nome di non più di otto lettere. Tutto il libro è ora nella memoria del computer, ma non c’è verso di tirarlo fuori per leggerlo o stamparlo finché io non gli do quella parola. Appena scrivo sulla tastiera il nome, a un comando, tutto il contenuto del libro sale prodigiosamente dalla memoria e mi compare davanti sullo schermo pagina dopo pagina e io posso leggerlo, scriverlo o modificarlo. Così succede con ognuno dei titoli dello Spirito Santo che incontreremo in questa strofa: Paraclito, dono di Dio, acqua viva, fuoco, amore e unzione spirituale. Ognuno da solo compie il miracolo di far salire dalla grande memoria, che sono la Bibbia e la Tradizione della Chiesa, ondate di rivelazione e di dottrina sullo Spirito Santo.
Da dove ha tratto l’evangelista Giovanni il titolo di "Paraclito" che ricorre ben quattro volte nel breve spazio dei capitoli 14-16 del suo Vangelo? Non possiamo dimostrare che lo ha raccolto dal­la viva voce di Gesù, ma neppure possiamo dimostrare il contrario!
Il nome e il concetto di Paraclito, applicato allo Spirito Santo, non è poi così strano. Nell’Antico Testamento Dio è il grande consolatore del suo popolo, colui che proclama: «Io sono il tuo consolatore», alla lettera, nel testo della Settanta, «il tuo Paraclito!» (Is 51, 12), colui che «consola come una madre» (Is 66, 13).
Questa consolazione di Dio o questo «Dio della consolazione» (Rm 15, 5) si è "incarnato" in Gesù Cristo, che si definisce infatti il primo Consolatore o Paraclito (cf Gv 14, 15). Essendo colui che continua l’opera di Cristo e che porta a compimento le opere comuni della Trinità, lo Spirito Santo non poteva non definirsi anche lui Consolatore, l’"altro Consolatore", come lo chiama appunto Gesù.
C’è però un’altra fonte a cui certamente questo titolo deve la sua origine e la sua importanza ed è l’esperienza della Chiesa. La Chiesa intera, dopo la Pasqua, ha fatto un’esperienza viva e forte dello Spirito come consolatore, difensore, alleato, nelle difficoltà esterne e interne, nelle persecuzioni, nei processi e nella vita di ogni giorno. Negli Atti degli Apostoli leggiamo: «La Chiesa […] cresceva e camminava nel timore del Signore, colma della consolazione (paraclesis!) dello Spirito Santo» (At 9, 31).
Queste parole non si spiegano se non all’interno di un’esperienza vissuta e condivisa. Non è dunque del tutto esatto affermare che non sappiamo da dove l’evangelista abbia desunto il titolo di "Paraclito". Giovanni allude lui stesso a questa esperienza dello Spirito come fonte della sua conoscenza quando fa dire a Gesù a proposito di lui: «Voi lo conoscete, perché egli dimora presso di voi e sarà in voi» (Gv 14, 17).
Quello che succede tra i discepoli e lo Spirito Santo dopo la Pasqua è motivo di stupore. Non si può non riconoscervi un’azione potente di Dio. Ciò che si sapeva dello Spirito di Dio dall’Antico Testamento non è assolutamente in grado di spiegare tutto quello che ora si dice di lui. A tutti i livelli la Chiesa percepisce lo Spirito come una presenza e una realtà familiari. Che si parli così di Gesù è normale; era stato visto, conosciuto, aveva lasciato segni del suo passaggio, un "memoriale" di sé. Ma lo Spirito Santo, chi l’aveva mai visto? Eppure tutti ne parlano come di una realtà ben nota; a lui si fa risalire ogni avvenimento, piccolo o grande.
Che cosa se non la rivelazione recata da Gesù e il riscontro dell’esperienza può giustificare un fatto come questo? Il Paraclito sta semplicemente facendo, punto per punto, quello che Gesù aveva predetto di lui.

Avvocato, consolatore e Spirito di verità
Tenendo presente i vari contesti in cui il termine appare, dentro e fuori la Bibbia, Paraclito può significare intercessore o avvocato (come quando è applicato a Cristo in 1 Gv 2,1); oppure consolatore, come appare dal verbo e dal sostantivo corrispondenti che significano appunto consolare e consolazione: «Consolate, consolate (parakaleite) il mio popolo» (Is 40, 1).
La Tradizione ha raccolto la polivalenza del termine, interpretando Paraclito ora come avvocato o difensore, ora come consolatore. La cosa diviene evidente quando si passa al mondo latino, laddove, dovendosi tradurre il termine greco, si è costretti a scegliere l’uno o l’altro significato. Alcuni traducono Paraclito con avvocato, altri con consolatore, altri ancora con l’uno e l’altro termine insieme.
Nei primi secoli, quando la Chiesa era in stato di persecuzione e faceva l’esperienza quotidiana di processi e condanne, si vedeva nel Paraclito soprattutto l’avvocato e il difensore divino. A Lione, nel II secolo, vedendo i cristiani condannati a morte, ci fu uno che, "ardente di Spirito Santo", si levò a contestare il modo con cui era stato condotto il processo e fu subito aggiunto alla schiera dei condannati, con l’accusa di essere "l’avvocato dei cristiani". «E giustamente, aveva infatti in sé il grande Avvocato (Paraclito) che è lo Spirito Santo», commenta il redattore degli atti del martirio (cf. EUSEBIO, Storia ecclesiastica, V, 1, 10).
Il ruolo di avvocato nei processi umani era visto come parte di una difesa di ben altra portata: quella che il Paraclito fa davanti al tribunale di Dio, contro «l’accusatore dei nostri fratelli, colui che li accusa davanti al nostro Dio giorno e notte» (Ap 12, 10). È pensando a questo ruolo dello Spirito Santo che sant’Ireneo scrive: Dio ha dato alla Chiesa il Paraclito «affinché dove abbiamo l’accusatore, lì avessimo anche il Difensore» (Contro le eresie, III, 17, 3).
Superata l’era delle persecuzioni, si nota un cambiamento d’accento. Consolatore diventa il senso dato d’ordinario a Paraclito. La Sequenza di Pentecoste, scritta più o meno nel XIII secolo, chiama lo Spirito Santo consolator optime, «consolatore perfetto».
Ma i termini avvocato e consolatore non esauriscono il significato di Paraclito nel quarto Vangelo, né presi separatamente, né presi insieme. Per molti versi il titolo di "Paraclito" scelto da Giovanni per designare lo Spirito Santo somiglia a quello di Logos da lui scelto per designare il Figlio. In un caso come nell’altro l’evangelista ha preso dal linguaggio corrente un termine e lo ha sovraccaricato di tali e tanti significati da inaugurare, per questi termini, una fase nuova di esistenza. Da questo momento essi non si possono più solo spiegare in base alla loro etimologia o all’uso precedente. Non si spiega, in altre parole, Paraclito tenendo conto solo del nome;bisogna guardare anche le funzioniche gli vengono attribuite.
Per sapere quali siano esattamente queste funzioni non c’è mezzo più semplice ed efficace che leggere, uno di seguito all’altro, i detti sul Paraclito del quarto Vangelo. Due cose emergono con chiarezza da tali testi: il Paraclito è in funzione della verità ed è in funzione di Gesù. Le diverse attività attribuite al Paraclito: insegnare, ricordare, testimoniare, convincere, guidare alla verità, annunciare, indicano che il suo ruolo principale è quello dottrinale o di insegnamento. Il ruolo dello Spirito Santo, da un capo all’altro del quarto Vangelo è quello di fare accogliere, interiorizzare, comprendere e vivere la rivelazione di cui è portatore il Figlio.

Il Paraclito, una "persona"
"Paraclito" è il titolo che più chiaramente esprime il carattere personale dello Spirito Santo. Con esso l’autore dell’inno ci fa fare un decisivo passo in avanti nella contemplazione dello Spirito Santo. Se con "creatore" egli afferma che lo Spirito è di naturadivina, ora, con Paraclito, afferma che è anche persona divina. Gli altri titoli e simboli dello Spirito: acqua, fuoco, colomba e lo stesso nome Spirito, per sé possono giungere al massimo, a farci conoscere lo Spirito Santo come "qualcosa di divino". "Paraclito" invece è un titolo in se stesso personale; non si può dire se non di una persona. Non è, grammaticalmente, un neutro, come pneuma, ma un maschile; il pronome corrispondente non è "esso", ma "egli": «Egli (ekeinos) mi glorificherà» scrive, riferendosi al neutro pneuma, l’evangelista (Gv 16, 14), mostrando così che preferisce tradire la grammatica greca, anziché l’idea che ha dello Spirito Santo.
In Giovanni la relazione dello Spirito con Gesù Cristo è modellata sulla relazione di Gesù con il Padre. Il Padre è colui che rende testimonianza al Figlio e lo Spirito Santo è colui che rende testimonianza a Gesù (Gv 15, 26); il Figlio non parla da se stesso ma dice ciò che ha udito dal Padre; anche lo Spirito Santo, però, non parlerà da sé ma dirà ciò che avrà udito dal Figlio (Gv 16, 33); Gesù glorifica il Padre (Gv 8, 49; 17, 1) e lo Spirito glorifica Gesù (Gv 16, 14).
Su questo punto, Paolo è sulla stessa linea di Giovanni ed è indispensabile ascoltare anche la sua testimonianza. Anche per lui lo Spirito Santo non è solo un’azione ma anche un agente, cioè un principio dotato di volontà e intelligenza, che agisce consapevolmente e liberamente. Di lui egli dice che: insegna, attesta, geme, intercede, si rattrista, che sa, che ha desideri. Questa chiara evoluzione verso una concezione soggettiva, oltre che oggettiva, dello Spirito è confermata in Paolo da formule triadiche come la seguente: «La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi» (2 Cor 13, 13).
Lette alla luce di Matteo 28, 19 («… battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo…») indica un nuovo orientamento circa lo Spirito Santo, connesso con la rivelazione della Trinità.
Possiamo dunque dire che in Paolo e nel Nuovo Testamento non c’è ancora il termine e il concetto di personalità applicato allo Spirito Santo (come, del resto, non c’è neppure per il Padre e per Gesù Cristo), ma c’è già la realtà corrispondente. Pneuma non è più visto come un semplice principio o sfera d’azione, come avveniva nella mentalità ebraica e neppure come una specie di fluido, come avveniva nella mentalità greca, ma è visto anche come uno che opera distintamente.

Farsi paracliti
Con il termine Paraclito tocchiamo quindi, in un certo senso il vertice della rivelazione sullo Spirito Santo. Egli non è solo "qualcosa", ma "Qualcuno". Uno che rimane in noi, una presenza, un interlocutore, un difensore, amico, consolatore, il "dolce ospite dell’anima", come lo chiama la Sequenza di Pentecoste. Colui che fu il compagno inseparabile di Gesù, già durante la sua vita terrena e che ora vuole esserlo anche di ognuno di noi.
Ci resta ora da tirare, dalla nostra contemplazione del Paraclito una conseguenza pratica e operativa. Non basta studiare il significato di Paraclito e neppure onorare e invocare lo Spirito Santo con questo nome dolcissimo. Bisogna diventare noi stessi dei paracliti! Se è vero che il cristiano deve essere un alter Christus, un altro Cristo, è altrettanto vero che deve essere un "altro Paraclito". Questo è un titolo da imitare e da vivere, non solo da comprendere.
Mediante lo Spirito Santo è stato effuso nei nostri cuori l’amo­re di Dio (cf Rm 5, 5), cioè sia l’amore con cui siamo amati da Dio, sia l’amore con cui siamo resi capaci di amare, a nostra volta, Dio e il prossimo. Applicata alla consolazione, che è la forma che l’amore prende davanti alla sofferenza della persona amata, quella parola dell’Apostolo viene a dirci una cosa importantissima: che il Paraclito non solo ci consola ma ci spinge a consolare e ci rende capaci di consolare. Lo stesso Paolo scrive: «Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra tribolazione perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in qualsiasi genere di afflizione con la consolazione con cui siamo consolati noi stessi da Dio» (2 Cor 1, 3-4).
La parola greca da cui deriva il nome Paraclito ritorna ben cinque volte, ora come verbo ora come sostantivo, in questo testo. La consolazione viene da Dio che è il Padre di ogni consolazione. Viene su chi è nell’afflizione. Ma non si arresta in lui; il suo scopo ultimo è raggiunto, quando chi ha sperimentato la consolazione se ne serve, a sua volta, per consolare altri.
Ma consolare come? Qui sta l’importante. Con la consolazione stessa con cui lui è stato consolato da Dio; con una consolazione divina, non umana. Non contentandosi di ripetere sterili parole di circostanza, che lasciano il terreno che trovano: «Coraggio, non avvilirti; vedrai che tutto si risolverà per il meglio!», ma trasmettendo l’autentica consolazione che viene dalle Scritture, capace di tener viva la speranza (cf Rm 15,4). Così si spiegano i miracoli che una semplice parola o un gesto, posti in un clima di preghiera, con fede nella presenza dello Spirito, sono capaci di operare accanto al capezzale di un ammalato. È Dio che sta consolando attraverso di te.
In un certo senso, lo Spirito Santo ha bisogno di noi, per essere Paraclito. Egli vuole consolare, difendere, esortare; ma non ha bocca, mani, occhi per "dare corpo" alla sua consolazione. O meglio, ha le nostre mani, i nostri occhi e la nostra bocca. Come l’anima agisce, si muove, sorride, attraverso le membra del nostro corpo, così lo Spirito Santo fa con le membra del "suo" corpo, che è la Chiesa e che siamo noi. «Consolatevi a vicenda», raccomandava Paolo ai primi cristiani (cf 1 Ts 5, 11) e tradotto alla lettera il verbo vuole dire "fatevi paracliti" gli uni degli altri. Diceva il cardinal John Newman in un discorso al popolo: Istruiti dalla nostra stessa sofferenza dal nostro stesso dolore, anzi, dai nostri stessi peccati, avremo la mente e il cuore esercitati a ogni opera d’amore verso coloro che ne hanno bisogno. Saremo, a misura della nostra capacità, consolatori a immagine del Paraclito, e in tutti i sensi che questa parola comporta: avvocati, assistenti, apportatori di conforto. Le nostre parole e i nostri consigli, il nostro modo di fare, la nostra voce, il nostro sguardo, saranno gentili e tranquillizzanti. (Parochial and plain Sermons, V, Londra, 1870, 300ss)
Se la consolazione che riceviamo dallo Spirito non passa da noi ad altri, se vogliamo trattenerla egoisticamente solo per noi, essa ben presto si corrompe. Ecco perché una bella preghiera, attribuita a Francesco d’Assisi, dice: «Che io non cerchi tanto di essere consolato, quanto di consolare; di essere compreso quanto di comprendere, di essere amato, quanto di amare…».
In un salmo, che gli evangelisti hanno ripetutamente applicato al Cristo sofferente e che lo stesso Gesù una volta ha fatto suo, si legge: «Ho cercato compassione, ma invano, consolatori, ma non ne ho trovati» (69, 21).
Nel Getsemani Gesù cercò consolatori, ma non ne trovò. Che non debba pronunciare quelle stesse parole del salmo anche su di me… Egli è in agonia fino alla fine del mondo. Lo è anzitutto nel suo corpo mistico, in coloro che soffrono e sono nella desolazione. Il Paraclito è chiamato «padre dei poveri»; non si è mai così sicuri di essere dei paracliti, come quando ci si china sul povero, l’umile e l’afflitto; quando la consolazione è gratuita.
Chiediamo questa grazia a Maria, che la pietà cristiana onora con i due titoli che insieme costituiscono il significato di Paraclito: «Consolatrice degli afflitti» e «Avvocata dei peccatori». Ella certo si è fatta "paraclito" per noi! Dice un testo del concilio Vaticano II: «La madre di Gesù brilla come segno di sicura speranza e consolazione per il popolo di Dio in cammino» (LG 68).
Terminiamo con questa invocazione al Paraclito tratta dall’Ufficio dei grandi Vespri di Pentecoste della liturgia ortodossa (la stessa preghiera a cui alludeva Serafino di Sarov nel testo citato all’inizio):

Re celeste, Consolatore, Spirito di verità,
che sei onnipresente e riempi l’universo,
tesoro di grazie che dai la vita:
vieni e dimora in noi,
purificaci da tutto ciò che è vile
e salva le nostre anime, o Dio di bontà.

 

ALTISSIMO DONO DI DIO
Lo Spirito Santo ci insegna a fare della nostra vita un dono

Il titolo dello Spirito Santo che formerà l’oggetto della presente meditazione nel testo che andiamo meditando, suona: «dono di Dio altissimo» (donum Dei altissimi). Ma io penso che un errore si sia introdotto, a questo punto, nella trasmissione del testo. La forma originaria dovrebbe essere: donum Dei altissimum, cioè «altissimo dono di Dio», non «dono di Dio altissimo». La differenza non è insignificante. Nel primo caso l’aggettivo "altissimo" si riferisce a Dio e sarebbe piuttosto un aggettivo in un inno nel quale ogni parola è scelta con estrema cura e rigore. Non direbbe assolutamente nulla dello Spirito Santo, essendo un attributo della divinità in genere. Nel secondo caso, invece, l’aggettivo si riferisce a "dono" e dice di esso una cosa ben precisa e cioè che non c’è un dono più eccellente dello Spirito Santo e che esso è, pertanto, il massimo dono di Dio.
Ma questa incertezza non incide sul significato fondamentale del nostro verso, che risiede nel sostantivo "dono" più che nell’aggettivo "altissimo". Questo titolo illumina un importante aspetto della persona del Paraclito e racchiude un significato particolare sia per le persone consacrate che per gli sposi cristiani. Dobbiamo, come sempre, dapprima porre il fondamento dottrinale, perché la nostra devozione allo Spirito Santo non sia avulsa dalla fede, ma scaturisca da essa come il frutto più squisito.

Il nome proprio dello Spirito Santo
Innumerevoli sono i passi del Nuovo Testamento in cui lo Spirito Santo è presentato, direttamente o indirettamente, come il dono di Dio. «Se tu conoscessi il dono di Dio…», dice Gesù alla Samaritana (Gv 4, 10) e il contesto, che parla dell’acqua viva, ha fatto sempre pensare che qui si alluda allo Spirito Santo (cf Gv 7, 38 s). «Dono di Dio» è definito, in ogni caso, lo Spirito Santo negli Atti degli Apostoli: «Pentitevi […]. Dopo riceverete il dono dello Spirito Santo» (At 2,38). Il genitivo "dello" Spirito Santo significa sia il dono di cui lo Spirito Santo è il datore, sia il dono che è lo stesso Spirito Santo. In questo caso il dono dello Spirito Santo non è altri che lo Spirito Santo stesso. Altre volte, invece, soggetto e oggetto del dono sono distinti e lo Spirito Santo appare il dono che il Padre o Cristo ha fatto ai credenti: «Da questo si conosce che noi rimaniamo in lui ed egli in noi: egli ci ha fatto dono del suo Spirito» (1 Gv 4, 13).
Lo stesso Spirito è anche chiamato «il dono celeste» (Eb 6, 4) o, semplicemente, «il dono» che Dio ha fatto agli apostoli a Pentecoste (cfAt 11, 17).
Il titolo «dono di Dio» ha avuto la sua valorizzazione massima in Agostino.
Per lui "Dono" è il nome proprio dello Spirito Santo, quello che esprime la sua relazione al Padre e al Figlio e ce lo fa conoscere come persona distinta. Né "Spirito" né "Santo" possono assolvere questo compito, perché anche il Padre è "Spirito" ed è "Santo", e anche il Figlio è "Spirito" ed è "Santo". La terza persona della Trinità è chiamata con il nome di Spirito Santo, che conviene anche alle altre due persone, proprio per esprimere che egli è la ineffabile comunione tra il Padre e il Figlio.
«La relazione stessa, però, fa notare Agostino, non appare in questo nome, mentre appare invece nell’appellativo dono di Dio». Noi possiamo infatti chiamare lo Spirito Santo "Spirito del Padre" e "Spirito del Figlio", ma non possiamo, viceversa, chiamare il Padre "Padre dello Spirito", né il Figlio "Figlio dello Spirito". La relazione, che non funziona nei due sensi, quando usiamo i termini Padre, Figlio e Spirito Santo, funziona invece quando usiamo i termini "dono" e "donatore". Possiamo chiamare infatti lo Spirito Santo: dono del donatore (cioè, del Padre e del Figlio insieme) e possiamo chiamare sia il Padre che il Figlio: donatore del dono.
Infondendo nei cuori la carità, lo Spirito Santo non infonde solo una virtù, fosse pure la più grande delle virtù, ma infonde se stesso. Il dono di Dio è lo stesso Donatore.

Lo Spirito Santo, "dono" e "donarsi" di Dio
Questo, in breve, il ricchissimo contenuto racchiuso nel verso che definisce lo Spirito Santo «altissimo dono di Dio».
Ma anche a proposito di questo titolo dobbiamo ricordarci che non si è arrestato lo sforzo della Chiesa di ripensare il dato rivelato ed esprimerlo in maniera sempre più adeguata.
Cosa ha apportato di nuovo la riflessione posteriore circa il titolo «dono di Dio»? Credo che i più recenti sviluppi della teologia trinitaria abbiano creato le premesse per una più profonda comprensione del contenuto di questo titolo. Secondo la visione teologica classica in Occidente, Padre, Figlio e Spirito Santo sono tutti e tre doni, ma in senso diverso. Il Padre è dono in senso puramente attivo, in quanto dona senza ricevere da nessuno; il Figlio è dono in senso passivo e attivo insieme, in quanto riceve l’amore dal Padre e lo dona allo Spirito; lo Spirito Santo è dono in senso solo passivo, in quanto riceve, ma non dona, non ritrasmette a un’altra persona, l’amore, chiudendosi con lui il circolo trinitario.
Questa spiegazione suscita oggi delle riserve, specie nel dialogo con l’Ortodossia, perché sembra assegnare allo Spirito Santo, nella Trinità, un ruolo puramente passivo e non anche attivo. Ma le cose cambiano se diamo alla parola "dono" un significato non statico, ma dinamico, come a tutti i concetti che riguardano la Trinità. Il Padre dona al Figlio non semplicemente il dono, ma il suo stesso "donarsi" (come non gli comunica solo il suo amore, ma la sua stessa infinita capacità di amare) e in questo auto-donarsi è già, in qualche modo, presente lo Spirito Santo.
Lo Spirito Santo non è nella Trinità solo il dono, in senso passivo, colui che è donato, ma anche, attivamente, il "donarsi", colui che spinge il Figlio a ridonarsi al Padre. Così vediamo che lo Spirito spinge il Figlio a gridare, in un impeto di gioia: «Abbà, Padre!» (cf Lc 10, 21), come farà poi nelle membra di Cristo (cf Rm 8, 15 s); è ancora lo Spirito che suscita nel Gesù terreno l’impulso a offrirsi al Padre in sacrificio: Cristo «con uno Spirito eterno, offrì se stesso senza macchia a Dio» (Eb 9, 14).
Se ciò che avviene nell’ambito della economia della salvezza riflette la vita e i rapporti intimi della Trinità, tutto questo indica che lo Spirito Santo è il principio stesso dell’auto-donazione, è "dono" e "donarsi" insieme.
Dovemmo maggiormente chiarire cosa questo comporta circa il modo di concepire i rapporti interni tra le persone divine nella Trinità. Per il momento, però, ci basta ritenere che lo Spirito Santo non infonde in noi solo il "dono di Dio", ma anche la capacità e il bisogno di donarci. Ci contagia, per così dire, con il suo stesso essere. Egli è il "donarsi" e dove giunge crea un dinamismo che porta a farsi, a sua volta, dono per gli altri.
«L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5, 5).
La parola "amore" indica sia l’amore di Dio per noi, sia la capacità nuova di riamare Dio e i fratelli. Indica l’amore per cui diventiamo amanti di Dio. Lo Spirito Santo non infonde, dunque, in noi solo l’amore, ma anche l’amare. La stessa identica cosa si deve dire a proposito del dono: venendo in noi, lo Spirito non reca solo il dono di Dio, ma anche il donarsi di Dio. Lo Spirito Santo è davvero l’acqua viva che, ricevuta, «zampilla per la vita eterna» (Gv 4, 14), cioè rimbalza e si effonde su chi sta intorno.

Farsi dono
Questa verità ha un’incidenza diretta sulla nostra vita. Se lo Spirito è colui che effonde e prolunga nella storia l’atto di donarsi del Dio trino, allora egli è colui che solo ci può aiutare a fare della nostra vita un dono e un’offerta viva. In questo si riassume tutto lo scopo della vita morale del cristiano; esso è, per Paolo, l’unica risposta adeguata alla Pasqua di Cristo: «Vi esorto, dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio» (Rm 12, 1).
Nell’Antico Testamento nessuno poteva presentarsi a Dio a mani vuote. Il bisogno di oblazione era espresso mediante l’offerta di cose; si offrivano a Dio doni e sacrifici esterni, frutti o animali, anche se le disposizioni interiori dell’offerente erano ritenute indispensabili (cf 1 Sam 15, 22). Gesù ha inaugurato un nuovo genere di offerta e di sacrificio: l’offerta e il sacrificio di se stesso. Egli si presenta al Padre «non con sangue di capri e di vitelli, ma con il proprio sangue» (Eb 9, 12), offrendo se stesso in sacrificio di soave odore (cf Ef 5, 2). In questo, raccomanda l’Apostolo, dobbiamo farci tutti «imitatori di Dio» (Ef 5, 1).
Qui si realizza lo scopo ultimo dell’esistenza dell’uomo sulla terra. Perché Dio ci ha fatto dono della vita, se non perché noi avessimo, a nostra volta, qualcosa di grande e di bello da offrire a lui in dono? Non è Dio che ha bisogno di qualcosa che proviene da noi, ma siamo noi che abbiamo bisogno di offrire qualcosa a lui.
Il modo di salvare la propria vita, ci dice Cristo, è perderla, cioè farne dono. Alla fine della vita solo ciò che abbiamo donato ci resterà in mano, trasformato in qualcosa di eterno. Una poesia dell’indiano Tagore presenta un mendicante, che narra la sua storia. Volta in prosa dice: «Ero andato mendicando di uscio in uscio, lungo il sentiero del villaggio, quando apparve in lontananza un cocchio d’oro. Era il cocchio del figlio del re. Pensai: "È l’occasione della mia vita". Sedetti spalancando la bisaccia e aspettando che l’elemosina mi venisse data, senza che neppure la dovessi chiedere, anzi che le ricchezze piovessero in terra attorno a me. Ma quale non fu la mia sorpresa quando, giunto vicino, il cocchio si fermò, il figlio del re discese e, stendendo la mano destra, mi disse: "Che cos’hai da donarmi?". Qual gesto regale fu mai quello di stendere la mano a un mendicante! Confuso ed esitante, presi dalla bisaccia un chicco di riso, uno solo, il più piccolo, e glielo porsi. Ma che tristezza a sera, quando, frugando nella mia bisaccia, trovai un piccolo chicco d’oro, uno solo. Piansi amaramente di non aver avuto il coraggio di fargli dono di tutto» (Gitanjali, 50).
Tutto ciò che non è donato è perduto, perché, essendo noi destinati a morire, morirà con noi tutto quello che abbiamo conservato fino all’ultimo, mentre ciò che si dona è sottratto alla corruzione e, per così dire, spedito avanti, nell’eternità.
Se tutto questo vale per ogni cristiano, in modo particolare vale per le persone consacrate, come voi. Qual è l’essenza della consacrazione religiosa, se non quella di fare della propria vita un dono e un’oblazione vivente a Dio? Così un antico Padre spiegava i voti religiosi: «I padri non si accontentarono di osservare i comandamenti, ma offrirono a Dio anche dei doni. Vi spiego come. I comandamenti di Cristo sono stati dati a tutti i cristiani e ogni cristiano è tenuto a osservarli. Si potrebbe dire che sono come delle imposte dovute al re. Se uno dicesse: "Non pago le imposte al re", potrebbe forse sfuggire al castigo? Ma vi sono nel mondo alcuni uomini grandi e famosi che non solo pagano le imposte al re, ma gli offrono anche dei doni e si meritano grandi onori, grandi ricompense e dignità. Così anche i padri non solo hanno osservato i comandamenti, ma hanno offerto dei doni a Dio. La verginità e la povertà sono dei doni fatti a Dio, non degli obblighi. Da nessuna parte infatti sta scritto: "Non prendere moglie, non fare figli"» (Doroteo di Gaza, Insegnamenti, I, 11-12).
Quando si parla di offrire la vita come dono e sacrificio vivente, dobbiamo però ricordarci della legge fondamentale del sacrificio.
Nel cristianesimo altri è il destinatario e altri il beneficiario del sacrificio e del dono: il destinatario è sempre Dio, il beneficiario sempre il prossimo. Cristo «ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore» (Ef 5, 2), si è offerto "a Dio", ma "per noi". Anche noi dobbiamo offrire la vita a Dio, ma per i fratelli (cf 1 Gv 3, 16).
Dio non ha bisogno dei nostri doni e sacrifici. Una persona offre la sua vita a Dio e rinnova questa offerta all’inizio di ogni giornata e vive nell’attesa che Dio venga a prendersi ciò che gli è stato offerto, magari in circostanze straordinarie, come il martirio. Invece non succede proprio niente. Ma Dio ha preso sul serio l’offerta e ha mandato a ritirare il dono promesso un fratello bisognoso, forse quello che meno avremmo desiderato e atteso e non l’abbiamo riconosciuto!
Noi non siamo in grado da noi stessi di fare della nostra vita questo dono a Dio per i fratelli, senza un aiuto speciale dello Spirito Santo. Gesù stesso si offrì al Padre con uno Spirito eterno. Anche le sue membra non possono offrirsi che così. Ecco perché la liturgia eucaristica, nell’invocazione dello Spirito che fa sull’assemblea, dopo la consacrazione, insiste proprio su questo aspetto: «Egli faccia di noi un sacrificio perenne a te gradito». «Concedi che riuniti in un solo corpo dallo Spirito Santo, (i fedeli) diventino offerta viva in Cristo, a lode della tua gloria» (Preghiera eucaristica II e IV).
La Messa è il mezzo istituito da Cristo per dare a ogni credente la possibilità di offrirsi al Padre in unione con lui. Elevato sulla croce, Gesù «attira tutti a sé» (Gv 12, 32) non nel senso di una generica attrazione dei cuori e degli sguardi, ma nel senso che ci unisce intimamente alla sua stessa offerta, al punto da formare con lui una un’unica oblazione, come le gocce d’acqua unite al vino formano, nel calice, un’unica bevanda di salvezza. L’umile offerta di noi stessi acquista, in tal modo, un valore anch’essa immenso.

Lo Spirito Santo rinnova iì dono reciproco degli sposi
C’è uno stato di vita per il quale tutto ciò che abbiamo detto dello Spirito Santo come dono riveste un’importanza particolare: il matrimonio.
L’atto costitutivo del matrimonio è il donarsi reciproco, il fare dono del proprio corpo (cioè, nel linguaggio biblico, di tutta la persona) al coniuge. Per questo, analogamente a ciò che avviene dopo ogni atto di donazione, il marito non è più lui il padrone del suo corpo, ma lo è la moglie a cui si è donato e viceversa (cf 1 Cor 7, 4). Giovanni Paolo II, in una sua catechesi del mercoledì, diceva: «Il corpo umano, con il suo sesso e la sua mascolinità e femminilità […], è non soltanto sorgente di fecondità e di procreazione, come in tutto l’ordine naturale, ma racchiude fin dal principio l’attributo sponsale, cioè la capacità di esprimere l’amore: quell’amore appunto nel quale l’uomo-persona diventa dono e, mediante questo dono, attua il senso stesso del suo essere ed esistere» (1980).
Essendo il sacramento del dono, il matrimonio è per sua natura un sacramento aperto all’azione dello Spirito Santo. Come santifica lo Spirito santo il matrimonio? Lo Spirito che agisce in ogni coppia umana come "Spirito creatore" attraverso il desiderio dell’altro e agisce nel matrimonio cristiano (quello fra due battezzati) anche come "Spirito redentore", che si esprime nel dono generoso di sé, ad imitazione del dono reciproco di Cristo e della sua Chiesa.
Così lo Spirito Santo non è presente solo al momento di contrarre le nozze ma in ogni istante e in ogni gesto di donazione reciproca e in modo tutto speciale nell’atto coniugale, che ne costituisce il momento più forte.
Lo Spirito Santo, che fa nuove tutte le cose, ha mostrato di saper fare nuovo anche il matri­monio, così segnato dalla debolezza e dal peccato. Uno dei frutti più visibili del passaggio dello Spirito, è il ravvivarsi di matrimoni morti o spenti. Il matrimonio, dice Paolo, è un carisma (cf 1 Cor 7, 7) e, come tutti i carismi, si riaccende al contatto con la fiamma da cui proviene.
Il tempo, la povertà umana e soprattutto l’incapacità di amare, tendono spesso a ridurre i coniugi e il loro matrimonio a "ossa inaridite". È ad essi perciò che è rivolta, in modo tutto particolare, la promessa di Dio: «Ossa inaridite (coniugi inariditi!) udite la parola del Signore… Farò entrare in voi il mio Spirito e rivivrete!» (Ez 37, 4.14). Lo Spirito Santo vuole ripetere in ogni coppia il miracolo delle nozze di Cana: trasformare l’acqua in vino. L’acqua della routine, dell’appiattimento e della freddezza nel vino inebriante della novità e della gioia.
La cosa però più importante che lo Spirito Santo insegna agli sposi cristiani non è come valorizzare appieno il loro matrimonio ma come trascenderlo. Tutto ciò che passa non è che un simbolo; solo in cielo l’irraggiungibile diventa realtà. Il matrimonio è, appunto, tra le cose che passano con il passare della scena di questo mondo (cf 1 Cor 7, 31). Sarebbe un errore grave farne l’assoluto, ciò da cui si fa dipendere e si misura la riuscita o il fallimento della vita stessa. Questo significherebbe sovraccaricarlo di attese che non potrà mai mantenere e quindi votare il matrimonio stesso a sicuro fallimento. Solo in Dio, la fusione piena, l’unità perfetta, il dono completo, l’irraggiungibile, diventerà realtà per sempre.
Affidiamo allo Spirito Santo tutte le coppie umane, in vista di un rinnovamento del dono reciproco di sé. Lo facciamo con le parole di un inno che si canta nella Chiesa anglicana, in occasione di matrimoni:

La voce udita in Eden,
quel primo dì nuziale
e la benedizione di Dio ancora vale

Congiungi tu, Paraclito,
gli sposi che hai chiamato,
come al suo Sposo Cristo

a Chiesa hai coniugato.

 

ACQUA VIVA
Lo Spirito Santo ci comunica la vita divina

Dio si è rivelato a noi in due modi: attraverso le cose e attraverso le parole; nel creato e nella Bibbia. Essi, scrive Agostino, sono come due libri: «Sia il tuo libro la pagina divina, che devi ascoltare; sia il tuo libro l’universo, che devi osservare. Nelle pagine della Scrittura possono legge­re soltanto quelli che sanno leggere e scrivere, mentre tutti, anche gli analfabeti, possono leggere nel libro dell’universo» (Esposizione sui salmi, 45, 7).
Non si tratta però di due "libri" tra loro separati e senza comunicazione, perché è la Bibbia stessa che raccoglie spesso la voce delle cose, la interpreta e la fa servire come veicolo della propria, più esplicita, rivelazione.
Ho premesso queste osservazioni perché il principio di parlare delle cose spirituali mediante le cose materiali, la Bibbia lo ha applicato soprattutto nel presentarci la cosa "spirituale" per eccellenza, che è lo Spirito Santo. Gli elementi più semplici e più comuni sono stati mobilitati per parlarci dello Spirito di Dio: il vento, l’acqua, la luce, il fuoco, l’olio, il vino nuovo. Tre di questi simboli classici dello Spirito sono riuniti proprio nella strofa del Veni creator che stiamo commentando. Lo Spirito Santo è invocato successivamente come acqua viva (fons vivus), come fuoco (ignis), e come unzione (spiritalis unctio). Siamo già andati a scuola di pneumatologia da "frate vento", parlando del nome dello Spirito; ora siamo invitati a fare altrettanto con "sorella acqua", "frate fuoco" e il "prezioso unguento". Anche su questo punto il nostro inno ci appare come specchio fedele della rivelazione biblica sullo Spirito Santo.

L’acqua, la vita e lo Spirito
Da dove deriva e che cosa significa il titolo di «acqua viva» attribuito allo Spirito Santo, l’autore stesso dell’inno ce lo spiega in un’altra sua opera: «Lo Spirito Santo viene designato con l’acqua nel vangelo stesso, laddove il Signore esclama: "Chi ha sete, venga a me e beva. Chi crede in me, fiumi di acqua sgorgheranno dal suo seno". E l’evangelista spiega subito il senso aggiungendo: "Egli parlava dello Spirito Santo che avrebbero ricevuto i credenti in lui" (Gv 7, 37-39). Ma altro è l’acqua del sacramento, altro l’acqua con cui si indica lo Spirito Santo. La prima è un’acqua visibile, mentre la seconda invisibile; la prima, lavando il corpo, indica ciò che avviene nell’anima, mentre per mezzo dello Spirito Santo è l’anima stessa a essere lavata e nutrita» (Sull’universo, I, 3).
Come al solito, tra la Scrittura e il nostro inno si colloca, come anello di congiunzione, la Tradizione dei Padri e in particolare, in questo caso, sant’Ambrogio: «Noi intendiamo per fonte non quest’acqua che è stata creata, ma la fonte della grazia divina, cioè lo Spirito Santo: è lui l’acqua viva […]. Dunque, un fiume è lo Spirito Santo, e fiume grandissimo e di vasto impeto […]. Se il fiume straripa, dopo aver superato la sommità degli argini, quanto più lo Spirito, che sovrasta ogni creatura […]. Dunque, fonte della vita è lo Spirito Santo» (Sullo Spirito santo, I, 153-160).
Qual è dunque il senso esatto che ha, nel nostro inno, l’espres­sione fons vivus? È anzitutto quello di «acqua viva» (fonte sta qui per acqua, come il contenente per il contenuto) ma anche quello di «fonte della vita».
Tre accostamenti si intrecciano in tutto questo simbolismo: l’associazione acqua-vita, l’associazione acqua-Spirito e l’associazione Spirito-vita. Nel passaggio dal primo al terzo livello, la parola "vita" si carica di un nuovo significato: dalla vita naturale e fisica si passa alla vita spirituale.
L’associazione acqua-vita è tanto universale e diffusa che non avrebbe bisogno di essere illustrata. Essa è particolarmente sentita in una cultura come quella biblica, che si sviluppa ai margini del deserto, in regioni dove la dipendenza della vita vegetale e animale dalla pioggia si sperimenta momento per momento. In questa sua funzione simbolica, l’acqua fu ben presto associata, nella Bibbia, allo Spirito di Dio: «Farò scorrere acqua sul suolo assetato […]. Spanderò il mio Spirito sulla tua discendenza» (Is 44, 3).
L’accostamento acqua-Spirito è presente implicitamente ogni volta che si parla dello Spirito che viene "effuso" (cf Gl 3, 1), o "riversato" (cf Zc 12, 10) in espressioni come: «battezzare nello Spirito» e «rinascere da acqua e da Spirito», senza contare le frasi già ricordate dove Gesù promette lo Spirito con l’immagine dell’«acqua viva» e di «fiumi di acqua viva».
Questo simbolismo trova il suo culmine nel Vangelo secondo Giovanni. Egli associa il dono dello Spirito fatto da Cristo sulla croce col segno dell’acqua, che esce dal suo costato (cf 1 Gv 5, 6-8). Nel fare questo egli applica tacitamente a Cristo la grandiosa visione di Ezechiele dell’acqua che esce dal tempio e fa sbocciare la vita lungo il suo percorso, finché si getta nel Mar Morto e lo trasforma in un mare brulicante di vita (47, 1 ss). Cristo sulla croce è il nuovo "tempio" di Dio (cf Gv 2, 19); l’acqua che esce dal suo costato è la realizzazione della promessa sui «fiumi di acqua viva». Lo Spirito Santo è il «fiume di acqua viva, limpido come cristallo», che scaturisce dal trono di Dio e dell’Agnello sulle cui sponde fiorisce «un albero di vita» che, come quello profetizzato da Ezechiele, dà frutti ogni mese e le cui foglie servono da medicina (cf Ap 22,1-2; Ez 47,12).
Lo Spirito Santo è l’acqua che esce dal Redentore e trasforma il grande deserto di questa vita; si getta nel grande "Mar Morto", che è questo mondo di peccato e nel piccolo "Mar Morto" che è ogni uomo privo della grazia, trasformandoli in luoghi pieni di vita.
A un certo punto nel Nuovo Testamento vediamo scomparire il simbolo, l’acqua e restare solo la realtà simboleggiata: la vita. Abbiamo allora la terza associazione, Spirito-vita,: «È lo Spirito che dà la vita […]; le parole che vi ho dette sono spirito e vita» (Gv 6, 63). «La lettera uccide, lo Spirito dà vita» (2 Cor 3, 6).
Quando, nel concilio di Costantinopoli del 381, i Padri dovettero racchiudere la loro fede nello Spirito Santo in una breve frase da aggiungere al Simbolo niceno, non trovarono nulla di più importante da dire di lui che questo: che dà la vita, che è uno Spirito vivificante. “Credo nello Spirito Santo che è Signore e che dà la vita”.
La Bibbia ci presenta una serie di interventi dello Spirito che tracciano una sorta di “storia dello Spirito” dentro la storia della salvezza. Ogni volta che si assiste ad un salto di qualità della vita, lì è puntualmente all’opera lo Spirito Santo. Il soffio dello Spirito: viene su Adamo nella creazione ed egli diviene un essere vivente; viene sulla vergine Maria nell’incarnazione e prende vita in lei il Salvatore; viene nella risurrezione su Gesù e fa di lui un o “Spirito datore di vita”; viene sugli apostoli a Pentecoste e nasce la Chiesa; viene sull’acqua nel battesimo e l’uomo rinasce a vita nuova; viene sul pane e sul vino nell’eucaristia ed essi si trasformano nel corpo e nel sangue di Cristo; verrà su di noi alla fine dei tempi e darà vita ai nostri corpi mortali.
Giovanni Paolo II ha scelto per la sua enciclica sullo Spirito Santo proprio il titolo di Dominum et vivificantem.

Quale vita?
Ma ora posiamo chiederci: di quale vita parliamo quando diciamo che lo Spirito dà la vita? La fede della Chiesa non ha avuto mai dubbi nel rispondere a questa domanda. Si tratta della vita divina, della vita che ha la sua sorgente nel Padre e che, in Cristo, si è resa visibile a noi (cf 1 Gv, 1,2) e nella rinascita battesimale si comunica al credente. Tra questa vita e la vita naturale non c’è opposizione (entrambe vengono da Dio); c’è però un contrasto a livello morale, che si esprime nelle note antitesi: natura/grazia; carne/Spirito; vita vecchia/vita nuova; vita terrena/vita eterna. Questa vita nuova, secondo lo Spirito è frutto di un nuovo intervento di Dio rispetto alla creazione. Il contrasto è dovuto al fatto che il peccato ha reso la vita naturale ricurva su stessa, refrattaria ad accogliere la vita secondo lo Spirito.
Questo spiega la lotta tra la carne e lo spirito e quindi il carattere drammatico che caratterizza l’esistenza del cristiano nel mondo. Se "scegliere è rinunciare", non si può scegliere di vivere secondo lo Spirito, senza sacrificare qualcosa della vita secondo la carne. San Paolo lo esprime così: «Quelli infatti che vivono secondo la carne, pensano alle cose della carne; quelli invece che vivono secondo lo Spirito, alle cose dello Spirito. Ma i desideri della carne portano alla morte, mentre i desideri dello Spirito portano alla vita e alla pace. Infatti i desideri della carne sono in rivolta contro Dio, perché non si sottomettono alla sua legge e neanche lo potrebbero» (Rm 8, 5-7).
Il contrasto tra le due vite arriva a configurarsi come contrasto tra vita e morte: «Se vivete secondo la carne, voi morirete; se invece con l’aiuto dello Spirito voi fate morire le opere del corpo, vivrete» (Rm 8, 13).
Il rapporto morte nella carne/vita nello spirito non è tanto di tipo cronologico (bisogna prima morire alla carne, a se stessi, per poi sperimentare la vita nuova e la risurrezione) ma è un rapporto di simultaneità. È proprio nel morire alla carne che si sperimenta e si accresce la nuova vita dello Spirito; è nella misura in cui ci si configura al Crocifisso che si prende parte alla vita del Risorto.
Non si tratta di sacrificare un elemento dell’uomo per salvarne un altro, ma di salvare l’uno e l’altro. La carne stessa non può essere salvata se non si salva lo spirito.
In questo si è sempre visto il fondamento dell’ascesi che, del resto, non è propria solo del cristianesimo, ma, in forme diverse, è presente in quasi tutte le grandi religioni: non si può vivere secondo lo spirito senza mortificare il corpo e le sue infinite esigenze.
Non si può negare che l’ascetismo sia stato accompagnato da eccessi. Ma basterebbe un santo come Francesco d’Assisi per dimostrare come la "mortificazione" e la rinuncia più radicale possano accordarsi con l’amore più grande per la vita, per le cose e una gioia quasi entusiasta di fronte alle creature di Dio.

Vita super-naturale o super-vita naturale?
Qualcosa è cambiato, nella valutazione di questo aspetto della vita cristiana, nel diciannovesimo secolo, con l’apparire di una filosofia che esalta il “vitalismo”. In forme diverse, questo era il messaggio dei biologi evoluzionisti come Darwin, dei positivisti, degli storicisti, dei filosofi pragmatisti e degli intuizionisti, come Bergson, con la tesi seducente dello "slancio vitale". Ma chi ha fatto del vitalismo la sua religione è stato Nietzsche. Egli propone l’ideale della "grande salute" come mezzo essenziale per realizzare il nuovo corso della storia da lui preconizzato e definisce i cristiani «i tisici dell’anima che appena son nati già cominciano a morire e aspirano alle dottrine della fatica e della rassegnazione».
Ed è così che all’idea cristiana di una vita soprannaturale, viene sostituita quella di una super-vita naturale; al posto dell’uomo nuovo, il super-uomo. La qualità è risolta nella quantità. All’interno della vita c’è posto solo per una evoluzione rettilinea, in intensità e in "potenza", non per un salto di qualità.
Il pensiero di Nietzsche non ci interessa tanto per se stesso, quanto per il fatto che, su questo punto, la sua provocazione è stata, in parte, raccolta da alcuni teologi, dando luogo a un nuovo modo di intendere lo Spirito "vivificatore".
La nuova interpretazione dello "Spirito della vita" nasce dal desiderio di dare un fondamento teologico alla lotta per la difesa della vita, specie della vita debole, "impedita" e minacciata. In ciò essa si distacca radicalmente dal vitalismo di Nietzsche, che è concepito, al contrario, proprio in funzione dei forti, degli uomini dalla "grande salute". Tuttavia, io credo che la prospettiva tradizionale, che si ispira al principio biblico di morire a se stessi per far vivere gli altri, possa contrastare efficacemente la teoria di Nietzsche.
La mortificazione non dovrebbe essere mai fine a stessa, ma avere sempre come scopo la promozione della vita altrui, sia fisica sia spirituale. Cristo è morto per dare la vita al mondo e ha rinunciato alla sua gioia di vivere perché fosse piena la gioia degli altri. I veri spirituali cristiani sono quelli che hanno seguito Cristo. Spesso gli asceti più implacabili nell’ affliggere il proprio corpo, sono stati i più teneri nel sollevare la sofferenza del corpo dei fratelli, in tutte le sue forme: minorazione, malattia, fame, lebbra… L’esperienza dimostra che nessuno può dire dei "sì" ai fratelli, se non è pronto a dire dei "no" a se stesso.
Lo Spirito promuove la vita in tutte le sue manifestazioni, naturali e soprannaturali, ma ognuna nel suo ordine. Egli promuove la vita naturale, rendendola atta a ricevere la forma a cui Dio l’ha destinata, che è la "conformità" a Cristo. Asseconda la vita fisica in tutto ciò che la nobilita e la orienta al suo fine eterno; la "mortifica" in ciò che si oppone a esso.
Il successo finale dello Spirito sta nella possibilità che il declino e la morte, sul piano naturale, siano "rialzati" e trasformati in riuscita su un altro piano. Scrive l’Apostolo: «Per questo non ci scoraggiamo, ma se anche il nostro uomo esterio­re si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno» (2 Cor 4, 16).

La vita dello Spirito
La lettura di alcuni testi del Nuovo Testamento sullo Spirito «che dà la vita», ci permetterà di comprendere ancora meglio quello che abbiamo detto fin qui.
Paolo scrive: «Non c’è dunque più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù. Poiché la legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte» (Rm 8, 1-2).
La cosa principale che emerge dal testo è questa: lo Spirito dà la vita e la vita che lo Spirito dà non è altro che la vita di Cristo, la vita scaturita dalla Pasqua. Vivere secondo lo Spirito significa, dunque, partecipare alla vita stessa di Cristo, formare con lui «un solo spirito» (1 Cor 6, 17). Essere (o vivere) "nello Spirito" equivale in pratica a essere (o vivere) "in Cristo".
La stessa opposizione fondamentale si ripresenta, sotto altra forma, in Paolo, quando scrive: «La lettera uccide, lo Spirito dà vita» (2 Cor 3,6).
Passando a Giovanni, troviamo la stessa associazione tra Spirito e vita e tra la vita dello Spirito e l’opera di Cristo. Anche per lui i «fiumi di acqua viva» dello Spirito sgorgano dal corpo di Cristo glorificato. Diverso è, semmai, il posto che occupano, all’interno del comune riferimento a Cristo, il mistero pasquale e l’incarnazione. La vita che lo Spirito conferisce è fondamentalmente la vita del Padre, la vita trinitaria che nell’incarnazione «si è fatta visibile» (1 Gv 1, 2). L’entrata della vita eterna nel mondo si è già realizzata con la venuta del Verbo «nel quale era la vita» (Gv 1, 4). Gesù stesso è la vita (Gv 14, 6). Come egli vive per il Padre, così chi si nutre di lui vive per lui (cf Gv 6, 57). La croce e la Pasqua non sono tanto il momento in cui si crea questa nuova vita, quanto piuttosto il momento in cui viene rimosso l’ostacolo che ne impediva la ricezione da parte degli uomini. In questo senso Giovanni può dire che non c’era ancora lo Spirito Santo «perché Gesù non era stato ancora glorificato» (cf Gv 7, 39).
Con un diverso accento, sia Paolo che Giovanni presentano, dunque, la vita dello Spirito come la stessa vita divina che in Cristo è offerta all’uomo come una possibilità nuova.
Vista dalla parte di colui che la riceve, la vita dello Spirito è una vita volontaria, a differenza di quella naturale, che è involontaria. Nessuno può decidere se nascere o meno, mentre ognuno può decidere se rinascere o no. La nuova vita suppone un atto di fede.
Come si entra, di fatto, in questa nuova vita? Attraverso due mezzi fondamentali: la Parola e i sacramenti. Le parole di Gesù sono «spirito e vita» (Gv 6, 63). La Parola non solo è "ispirata" dallo Spirito Santo, ma "spira" anche lo Spirito Santo. Senza lo Spirito Santo essa è lettera morta, ma con lo Spirito Santo dà la vita (cf 2 Cor 3, 6). Le Scritture lette "spiritualmente" sprigionano luce, conforto, speranza; in una parola, vita.
Accanto alla Parola, i sacramenti. Il battesimo è il momento in cui si rinasce dallo Spirito (cf Gv 3, 5) e in cui si comincia a «camminare in una vita nuova» (Rm 6, 4). Il battesimo non è solo l’inizio della vita nuova, ma ne è anche la forma, il modello. Nel modo stesso con cui esso si compie (immersione/emersione), esso indica un essere sepolti e un risorgere. È una legge che, dal battesimo, si estende poi a tutta la successiva vita cristiana. È un morire per vivere. Esattamente il contrario della vita naturale, che viene giustamente definita «un vivere per morire». Sul piano naturale, ogni istante di vita è un affrettare la morte; è spazio tolto alla vita e dato alla morte. Sul piano soprannaturale, ogni piccola "mortificazione" della carne si traduce in vita se­condo lo Spirito; è spazio sottratto alla caducità e alla morte e dato alla vita.

Irriga ciò che è arido
Per applicare ora più direttamente alla pratica quello che fin qui abbiamo messo in luce sullo Spirito Santo a livello teologico, richiamiamo a nostro servizio il simbolo dell’acqua.
L’acqua scende sempre, non sale mai; va sempre a occupare il posto più basso. Così lo Spirito Santo: egli ama visitare e riempire chi sta in basso, chi è umile e vuoto di sé. S. Francesco d’Assisi, nel suo Cantico delle creature, fa di "sorella acqua" il simbolo stesso dell’umiltà: «Laudato si, mi Signore, per sora Acqua, la quale è molto utile et humile et pretiosa et casta».
Uno dei fenomeni fisici più inquietanti del nostro tempo è la desertificazione. Si calcola che centinaia di migliaia di ettari di terreno coltivato vengano ogni anno inghiottiti dal deserto che avanza. L’assenza di vegetazione fa diminuire le precipitazioni atmosferiche e questa diminuzione fa scomparire la vegetazione. È un circolo vizioso e mortale.
Fin dal tempo di Isaia, si è capito che qualcosa del genere può accadere anche a livello spirituale. Esiste, in altre parole, una desertificazione anche del cuore e lo Spirito è l’unico che può rovesciare questo processo e trasformare il deserto spirituale in luogo di vita: «Farò scorrere acqua sul suolo assetato, torrenti sul terreno arido. Spanderò il mio Spirito sulla tua discendenza» (Is 44, 3).
Ecco qui allora un programma pratico: aprire valli e canali allo Spirito Santo. Prima verso noi stessi, poi anche verso chi ancora non è stato raggiunto da questo fiume, ma lo attende.
In uno dei primi inni alla Trinità, il Padre è chiamato «fonte», il Figlio «fiume», lo Spirito Santo «irrigazione» (Mario Vittorino, Inni alla Trinità, 3,30-34). È la stessa immagine che ha ispirato la bella preghiera della Sequenza di Pentecoste: «Irriga ciò che è arido» (riga quod est aridum).
A volte si vedono lavoratori nei campi che, da un canale d’irrigazione principale posto in cima a un declivio, derivano piccoli solchi e canaletti, perché l’acqua arrivi a lambire capillarmente ogni filare e ogni singola piantina.
È l’immagine di quello che occorre fare nella vigna del Signore. Tracciare un piccolo solco che porti a qualcuno l’acqua della parola, della fede, della lode, della consolazione; l’acqua, insomma, dello Spirito. Non solo tracciare canali, ma essere noi stessi canali.
Terminiamo con le parole di un inno allo Spirito Santo, composto pochi decenni dopo il Veni creator, che canta il mistico rapporto tra l’acqua e lo Spirito:

Quando la grande macchina del mondo,
per mezzo del suo Verbo, Dio creava,
tu aleggiavi, Spirito, sull’acqua
irradiando calore.

L’onda che ora l’anima santifica,
nel battesimo continui a fecondare:
spira sopra di noi, o Santo,
e facci uomini spirituali.

 

FUOCO
Lo Spirito Santo ci libera dal peccato e dalla tiepidezza

Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco
Dopo il vento e l’acqua, è ora la volta di un altro simbolo naturale dello Spirito Santo: il fuoco (ignis). La Scrittura ci parla volentieri delle realtà divine per opposti. Questo spiega perché lo Spirito Santo è designato con due simboli tra loro diametralmente opposti: l’acqua e il fuoco. Situandosi agli estremi, gli opposti hanno il vantaggio di creare tra loro uno spazio illimitato, capace di dilatare all’infinito l’orizzonte, che è, appunto, ciò che si richiede per parlare delle cose divine.
Nel nostro caso questo contrasto riveste un significato ancora più profondo del solito. L’acqua genera la vita, il fuoco la distrugge. Ponendo i due simboli a diretto contatto, uno di seguito all’altro, l’autore dell’inno rafforza l’insegnamento che abbiamo già scoperto nel simbolo dell’acqua viva: lo Spirito crea sì la vita nuova, ma facendo morire la vita vecchia. Egli, nello stesso tempo, distrugge e crea, abbatte e suscita. Non si può perciò, nel Veni creator, isolare il titolo di "acqua viva" da quello di "fuoco" che lo segue, senza compromettere la sua stessa comprensione.
Come sempre, le parole del Veni creator rimandano alla Bibbia, letta e vissuta nella Tradizione. Vediamo allora dove lo Spirito Santo è presentato come fuoco nel Nuovo Testamento o almeno associato a esso. Giovanni Battista dice, parlando di Cristo: egli «vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco». Questa promessa trova il suo compimento esterno e visibile, nella Pentecoste: «Apparvero loro lingue come di fuoco […] ed essi furono tutti pieni di Spirito Santo» (At 2, 3-4).
Anche la parola di Gesù: “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra” (Lc 12, 49) si riferisce al dono dello Spirito o, almeno, lo include. Paolo paragona, anch’egli, implicitamente, lo Spirito al fuoco, quando raccomanda di non "spegnere" lo Spirito (cf 1 Ts 5, 19).
Per scoprire cosa la rivelazione ha voluto dirci con ciò, dobbiamo vedere di che cosa è simbolo il fuoco nella Bibbia. Scopriamo che esso ha molteplici significati: alcuni positivi, altri negativi. Il fuoco illumina (come nel caso della colonna di fuoco dell’esodo), riscalda, infiamma, divora i nemici, punirà in eterno gli empi…
Ma tra tutti questi significati uno si distacca e predomina sugli altri: il fuoco purifica. Anche l’acqua simboleggia spesso la purificazione ma con una differenza importante, che la Bibbia stessa mette in rilievo: «L’oro, l’argento, il rame, il ferro, lo stagno e il piombo, quanto può sopportare il fuoco, lo farete passare per il fuoco e sarà reso puro […], quanto non può sopportare il fuoco, lo farete passare per l’acqua» (Nm 31, 22-23),
Il fuoco è simbolo di una purificazione più profonda e radicale. L’acqua purifica fuori, il fuoco anche dentro. Canta il salmista: «Scrutami, Signore, e mettimi alla prova, raffinami al fuoco il cuore e la mente» (26, 2). Le cose preziose, l’oro nell’ambito materiale, la fede in quello spirituale, si provano con il fuoco (cf 1 Pt 1, 7). Da qui l’immagine del crogiolo: «Purificherò nel crogiolo le tue scorie, eliminerò da te tutto il piombo» (Is 1, 25).
L’idea e il simbolismo del fuoco purificatore è presente specialmente nei testi che annunciano l’opera futura del Messia. «Il Signore purificherà Sion con uno spirito di giudizio e con uno spirito di fuoco» (cf Is 4, 4). «Farò passare il resto per il fuoco e lo purificherò come si purifica l’oro e l’argento» (cf Zc 13, 9). «Egli sarà come il fuoco del fonditore e purificherà i figli di Levi» (cf Ml 3, 2-3).
In questa luce si deve intendere anche la definizione di Dio come "fuoco divorante". La sua santità assoluta non tollera mescolanza, ma mette a nudo il male e lo consuma. Solo chi allontana da sé il male potrà «abitare presso un fuoco divorante» (cf Is 33, 14 s).
Dicevo che il Veni creator raccoglie la rivelazione sullo Spirito attraverso la viva Tradizione della Chiesa. Basterà qualche testo per vedere con quanta fedeltà quest’idea della Bibbia è stata raccolta e vissuta nella Chiesa. A Pentecoste, scrive Cirillo di Gerusalemme, gli apostoli ricevettero il «fuoco che brucia le spine dei peccati e dà splendore all’anima» (Catechesi, XVII, 15). Parlando del carbone ardente che purifica le labbra di Isaia (cf Is 6, 6), Ambrogio scrive: «Quel fuoco era figura dello Spirito Santo che sarebbe disceso dopo l’ascensione del Signore, per rimettere i peccati di tutti e per infiammare come fuoco l’anima e la mente dei fedeli» (Sui doveri, III, 18, 103).
Riassumendo questa tradizione sul fuoco creatore e distruttore della Pentecoste, un grande poeta moderno, Tomas Eliot, scrive: «La colomba che scende fende l’aria con fiamma incandescente di terrore e le lingue dichiarano che l’unica speranza (oppur disperazione) sta nello scegliere l’uno o l’altro rogo, dal fuoco esser redenti con il Fuoco» (Four Quartets).
Questa meditazione sarà una specie di itinerario penitenziale, un esodo dal peccato, guidato dall’interno dallo Spirito Santo. Come al solito, premettiamo i principi biblici e teologici, per poi passare all’applicazione pratica.

Lo Spirito Santo è la remissione di tutti i peccati
Lo Spirito Santo è colui che ci purifica nell’intimo, che dissolve in noi il cuore di pietra, che distrugge il «corpo del peccato» (Rm 6, 6) e rifonde in noi l’immagine di Dio.
La Tradizione della Chiesa non ha fatto che raccogliere e mettere in piena luce una verità che era già presente nella Scrittura. Secondo il Nuovo Testamento l’azione dello Spirito Santo si colloca nel cuore stesso della giustificazione dell’empio. Paolo lo afferma: «Siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati, nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio» (1 Cor 6, 11).
Quando Pietro, il giorno di Pentecoste, dice: «Pentitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per la remissione dei vostri peccati e riceverete il dono dello Spirito Santo» (At 2, 38), questo non vuol dire che prima c’è la remissione dei peccati e solo in seguito il dono dello Spirito Santo. Significa, semmai, che nel primo momento, nella remissione dei peccati, lo Spirito è presente come agente, mentre dopo, una volta purificati, (i due momenti sono però, di fatto, simultanei), è presente anche come dono e possesso stabile.
Lo Spirito Santo non è solo l’effetto della giustificazione, ma ne è anche la causa. Non è il termine del processo, quasi che ci sia prima l’opera negativa dell’allontanamento del peccato e poi, una volta liberato il cuore e, per così dire, sgomberato il terreno, la venuta dello Spirito Santo.
Remissione del nostro peccato e infusione della grazia non sono due operazioni successive, ma un’unica azione, vista da due versanti opposti. Non viene prima tolto il peccato, poi infusa la grazia, ma e l’infusione stessa della grazia che toglie il peccato.
Nella purificazione dal peccato lo Spirito Santo non interviene a cose fatte, ma è lui che le fa. Il peccato dell’uomo non è solo "coperto", "non imputato" e quasi ignorato da Dio, ma, al contrario, è realmente distrutto, cancellato.
Dando agli apostoli nel cenacolo lo Spirito Santo (cf Gv 20, 22 s), Gesù non conferì alla Chiesa soltanto una "potestà" giuridica, esterna, una semplice "autorizzazione" a rimettere i peccati; conferì invece un potere reale e intrinseco, che è lo stesso Spirito Santo. Anche la Chiesa possiede il potere di rimettere i peccati, ma solo nel senso che ha lo Spirito Santo, che ha il potere di rimettere i peccati. Ci ricorda Isacco della Stella: «Nulla infatti può rimettere la Chiesa senza Cristo e Cristo nulla vuole rimettere senza la Chiesa; nulla può rimettere la Chiesa se non a chi è pentito, cioè a colui che Cristo ha toccato con la sua grazia; nulla Cristo vuole ritenere per perdonato a chi disdegna di ricorrere alla Chiesa» (Discorsi, 11, 14).
Tutto questo ci pone dinanzi un’immagine di Chiesa come luogo dove "arde" lo Spirito che distrugge i peccati, come una specie di "forno inceneritore" sempre acceso, che distrugge i rifiuti dell’anima e mantiene monda la città di Dio.

Un itinerario penitenziale con lo Spirito Santo
Ora è il momento di trarre dalle premesse teologiche alcuni orientamenti pratici di vita. Ci fu un tempo in cui la chirurgia consisteva in buona parte nel cauterio, cioè nella pratica di applicare, mediante un ferro rovente, del fuoco sulla parte malata del corpo. Nella Bibbia ci è descritto un caso esemplare di questa cura a base di fuoco, quello del profeta Isaia: «Uno dei serafini volò verso di me; teneva in mano un carbone ardente che aveva preso con le molle dall’altare. Egli mi toccò le labbra e mi disse: "Ecco, questo ha toccato le tue labbra, perciò è scomparsa la tua iniquità e il tuo peccato è espiato"» (Is 6, 6 s).
La rimozione del peccato da parte di Dio è semplicissima e si consuma in un attimo, ma in noi è qualcosa di complesso, che assume la forma di un processo. Essa suppone diversi passaggi che possiamo riassumere così. Lo Spirito Santo: bussa alla coscienza con il rimorso, la apre con la confessione, entra con il pentimento, la libera con l’assoluzione, la trasforma con la giustificazione, la infiamma con il suo fervore.
Cerchiamo di dire qualcosa su ognuno di questi passaggi, in modo che possiamo ripetere questo cammino ogni volta che ne sentiamo il bisogno e all’occorrenza guidarvi altri, in occasioni di liturgie penitenziali.
Il processo di distacco dal peccato comincia con il rimorso. Toglie la falsa pace conseguente alla trasgressione. La Bibbia è piena di storie di grandi rimorsi: rimorso è quello di Caino e quello di David, quello di Pietro e quello di Giuda. Ma già da questi esempi vediamo come il rimorso è ancora uno stadio ambiguo e può avere due esiti opposti: o la disperazione o la salvezza.
Nessuno forse ha descritto il passaggio dallo stadio del rimorso a quello del pentimen­to con maggiore penetrazione di Alessandro Manzoni, nella figura dell’Innominato: l’affiorare improvviso della vita passata e dei delitti in una luce diversa, spaventosa; i vani tentativi di soffocare i rimorsi e tornare ai pensieri abituali; il balenare della speranza di una via di uscita; fino alle lacrime di gioia, che accompagnano il pentimento e la risoluzione di una vita nuova (I Promessi Sposi, cap. XXI).
C’è stato un lungo tentativo da parte di alcuni filosofi di squalificare il rimorso, presentandolo come inutile fardello e autosuggestione. Oggi il rimorso è spiegato come complesso di colpa indotto dall’esterno, dalla cultura e dalla società e quindi morboso. Questa critica ha contribuito a rendere più attenti nel distinguere il genuino rimorso per la colpa, dai falsi rimorsi e sensi di colpevolezza che pure affliggono l’umanità.
Quando è genuino, il rimorso è una prima imperfetta manifestazione dello Spirito Santo. Come si può concepire un senso così acuto del male e del peccato, se non in presenza della santità di Dio? La coscienza è come un ripetitore dentro di noi della voce dello Spirito.
Nel rimorso dunque è già all’opera lo Spirito Santo che "accusa" e "convince" di peccato. È come una febbre, che indica uno stato alterato della coscienza, la presenza in essa di un "corpo estraneo". Perciò, combattere semplicemente il senso di colpa e il rimorso, senza preoccuparsi di rimuoverne la causa, è cosa non meno insensata che voler a tutti i costi stroncare la febbre, senza preoccuparsi di individuare la malattia di cui essa è un provvidenziale sintomo rivelatore.
Bisogna diventare via via sempre più sensibili a questi richiami che lo Spirito ci fa giungere attraverso la voce della coscienza, prendere sul serio anche i piccoli rimorsi; per esempio: di non aver pregato, di aver parlato male di una sorella, trattato con poco amore un povero, essere venuto a compromessi con la verità, aver concesso agli occhi una curiosità morbosa… Soprattutto bisogna, senza indugio, trasformare ogni rimorso in pentimento.

Dal rimorso alla gioia del perdono
Un Salmo descrive così il passaggio dal silenzio carico di rimorso, alla confessione liberante della colpa: «Tacevo e si logoravano le mie ossa, mentre gemevo tutto il giorno. Giorno e notte pesava su di me la tua mano, come per arsura d’estate inaridiva il mio vigore. Ti ho manifestato il mio peccato, non ho tenuto nascosto il mio errore. Ho detto: "Confesserò al Signore le mie colpe" e tu hai rimesso la malizia del mio peccato» (32, 3-5).
Quando il rimorso è ascoltato, conduce alla confessione e alla gioia del perdono. «Beato l’uomo a cui è rimessa la colpa, e perdonato il peccato!»: così comincia il Salmo citato. Con la confessione, l’anima apre la porta allo Spirito, si unisce a lui.
Certo, la confessione va anch’essa costantemente rinnovata, perché non scada a pratica legalistica, ma rimanga invece quello che dovrebbe essere: un incontro personale con il Cristo risorto che aspetta la tua confessione solo per restituirti la gioia di essere salvato. Un modo per farlo è quello di andare oltre gli schemi stereotipati imposti dall’esterno o imparati da bambini, individuando ogni volta il nostro vero male, la cosa che è stata male ai "suoi occhi", non ai nostri o a quelli del mondo. Il criterio per distinguere il sano rimorso dai falsi sensi di colpa è proprio questo: il sano rimorso ha per causa qualcosa che è male "al cospetto di Dio"; il falso rimorso qualcosa che è male solo al cospetto della società e delle sue convenzioni.
Ma anche la confessione più perfetta è sterile e non "apre" la coscienza allo Spirito, senza il pentimento e la compunzione. Giuda fece la sua confessione: «Ho peccato, ho tradito sangue innocente» (Mt 27, 4). Ma la sua confessione non era accompagnata da vero pentimento e speranza di perdono, perciò la confessione non gli giovò a nulla.
Il racconto della Pentecoste è la migliore illustrazione di come lo Spirito Santo spinge alla compunzione e opera attraverso di essa. C’è anzitutto l’accusa tremenda: «Voi avete ucciso Gesù di Nazaret!». Quelle tremila persone «si sentirono trafiggere il cuore» da quelle parole e dissero a Pietro: «Che cosa dobbiamo fare, fratelli?» (cf At 2, 23 ss). Che è successo nel profondo del loro cuore? Il Paraclito sta «convincendo il mondo di peccato» (cf Gv 16, 8), esattamente come Gesù aveva promesso. Sotto l’azione dello Spirito Santo, quegli uomini comprendono che, se Gesù è morto per i peccati del mondo e loro hanno commesso un peccato, allora essi hanno crocifisso Gesù di Nazaret, anche se non erano quel giorno a battere i chiodi sui Calvario.
La vera compunzione non è un semplice pentirsi, dolersi per qualcosa che si è fatto, ma è di più. È cominciare a vedere il peccato sullo sfondo dell’amore infinito di Dio Padre e della morte di Cristo sulla croce. É un fare proprio il giudizio di Dio. Il vertice del Miserere è quando il salmista, pentito, dice a Dio: «Tu sei giusto quando parli, retto nel tuo giudizio» (SaL 51,6). L’uomo prende su di sé la responsabilità del male, proclama Dio innocente, ristabilisce la verità delle cose, che nel peccato era tenuta "prigioniera dell’ingiustizia" (cf Rm 1, 18).
Alla domanda dei tremila, Pietro rispose: «Pentitevi!» (At 2, 38). Nel pentimento si realizza l’incontro misterioso tra grazia e libertà. La libertà si schiera con la grazia e questa è l’opera delicatissima dello Spirito Santo.
Il cuore umano ha due chiavi; una è in mano a Dio, l’altra all’uomo. Nessuno dei due può aprire senza l’altro. Con la sua onnipotenza Dio può fare tutto, eccetto un cuore contrito e umiliato. Per fare questo, misteriosamente, gli occorre anche il pentimento dell’uomo. Dio non può "pentirsi" al posto dell’uomo. Per questo, attraverso tutta la Bibbia, il "cuore contrito e umiliato" ci appare come il luogo di riposo, una specie di paradiso terrestre, la dimora preferita di Dio (cf Is 66, 1-2). L’uomo non può offrire a Dio sacrificio migliore e più accetto del suo cuore contrito (cf Sal 51, 19).
Dal pentimento all’assoluzione e alla giustificazione. Con il pentimento termina propriamente la parte dell’uomo e comincia la parte esclusiva di Dio. Nel Miserere c’è un punto in cui il tono della preghiera cambia repentinamente. Se prima tutto parlava di colpa, di male, di peccato, da quel momento si parla invece di cuore nuovo, di Spirito Santo, di gioia di essere salvati. Dal regno del peccato si passa a quello della grazia. Si tratta di una nuova creazione e lo Spirito Santo è al centro di essa, ne è il soggetto e l’oggetto: «Crea in me, o Dio, un cuore nuovo», non è altra cosa rispetto al «non privarmi del tuo Santo Spirito».
La Chiesa esercita solo un ministero; è lo Spirito che trasforma l’uomo e da peccatore ne fa un giusto. A ragione, nella formula che precede l’assoluzione sacramentale, il Rituale della Riconciliazione oggi ci fa dire: «Dio, Padre di misericordia, che ha riconciliato a sé il mondo nella morte e Risurrezione di Cristo, e ha effuso lo Spirito Santo per la remissione dei peccati, ti conceda, mediante il ministero della Chiesa, il perdono e la pace».
Dio fa davvero una cosa nuova. «Le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove» (2 Cor 5, 17). Nella giustificazione lo Spirito Santo rifonde in noi l’immagine di Dio.

Ferventi nello Spirito
Da questo momento lo Spirito continua ad agire come fuoco, non più però come fuoco che purifica e rifonde, ma come fuoco che riscalda e infiamma. Questi due effetti sono quasi sempre ricordati insieme quando si parla del fuoco nella Bibbia e nella letteratura spirituale.
Concretamente, questo significa che lo Spirito Santo ci preserva dal cadere nella tiepidezza e, se per caso ci siamo già caduti o ci stiamo cadendo, ci libera da essa. Dalla tiepidezza non si esce senza un nuovo, decisivo, intervento dello Spirito Santo. Lo vediamo nella vita degli apostoli. Prima della Pentecoste essi erano persone tiepide. Non riuscivano a vegliare un’ora, discutevano sempre chi fosse il più grande, si spaventavano davanti a ogni minaccia. Ma non erano più tali dopo che su di essi si posarono le lingue di fuoco. Da quel momento,divennero l’immagine stessa dello zelo, del fervore e del coraggio. Ferventi nel predicare, nel lodare Dio, nel fondare e organizzare le Chiese e, finalmente, nel dare la vita per Cristo.
Si ha un bel dire: bisogna porre rimedio alla tiepidezza con il fervore. È come dire a un malato che il rimedio al suo male è la salute, ignorando che proprio questo è il suo problema: non avere la salute. No, il rimedio alla tiepidezza non è il fervore, ma è lo Spirito Santo. Se ci sembra di individuare in noi i sintomi di questo "male oscuro" della vita spirituale che è la tiepidezza, se ci scopriamo spenti, freddi, apatici, insoddisfatti di Dio e di noi stessi, il rimedio c’è ed è infallibile: ci occorre una bella e santa Pentecoste! Con l’aiuto della grazia, è possibile uscire dalla tiepidezza.
È quello che vogliamo chiedere allo Spirito al termine di questo capitolo in cui lo abbiamo contemplato nei bagliori del fuoco. Lo facciamo con le parole di un inno di matrice protestante metodista, tutto incentrato sullo Spirito come fuoco:

Potesse ormai in me quel divin Fuoco
accendersi e brillare,
distruggere la pula dei pensieri
e i monti far colare!

Potesse egli discendere dal cielo
e il male consumare!
Spirito Santo vieni, a te io grido,
Spirito di fervore!

Scendi nel cuore e l’anima rischiara,
fuoco di fonditore!
Perlustra la mia vita parte a parte,
santifica l’intero!

 

AMORE
Lo Spirito Santo ci fa fare l’esperienza dell’amore di Dio

Vino nuovo in otri nuovi!
Se tutti i titoli dello Spirito Santo nel Veni creator sono come "favi di miele" pronti per essere "smielati", questo di «amore» (caritas) lo è in modo tutto particolare. Lo Spirito Santo ci viene incontro nella sua realtà e operazione più intima e personale. Per questo i simboli naturali: vento, acqua, fuoco non bastano più e dal mondo della natura e della materia si passa a quello dell’uomo. Anche «amore» è un simbolo, come tutte le parole che usiamo per parlare di Dio, ma una metafora di genere diverso, perché tratta dall’uomo che, di Dio, porta già in sé «l’immagine e la somiglianza» (cf Gn 1, 27).
La salvezza e la vita nuova dello Spirito comportano sempre due elementi inseparabili tra loro: un elemento negativo e uno positivo. L’elemento negativo consiste nella rimozione del peccato, in un togliere qualcosa: «Vi purificherò da tutte le vostre sozzure, da tutti i vostri idoli; toglierò da voi il cuore di pietra»; l’elemento positivo consiste nel dono di una vita nuova: «Vi darò un cuore di carne, porrò il mio spirito dentro di voi» (cf Ez 36, 24-27). «Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo!», dice Giovanni Battista di Gesù; ma subito aggiunge, in positivo: «Ecco colui che battezza in Spirito Santo» (cf Gv 1, 29.33).
Immaginiamo un otre che deve essere riempito di vino nuovo, ma che finora ha contenuto aceto. Che faremo? Metteremo il vino nuovo sopra l’aceto? Perderemmo entrambi. No, è necessario prima ripulire il vaso, raschiarlo a fondo; poi si potrà versarvi il vino nuovo, che non si guasterà. Così è del nostro cuore: Dio non infonde i suoi beni, senza toglierci prima i nostri mali.
Gualtiero di San Vittore esprime così questo concetto: «Prima è stato mandato il Figlio per mondare il recipiente, perché non vi fosse in esso nulla che offendesse lo Spirito; quindi è stato inviato lo Spirito Santo per riempire i ricettacoli mondati. Il Figlio è venuto dunque a espellere l’amarezza, lo Spirito Santo per infondere la dolcezza; il Figlio per togliere la vetustà, lo Spirito Santo per conferire la novità; il Figlio per renderci liberi, lo Spirito Santo per renderci beati» (Sermoni sullo Spirito Santo, 3). In realtà Gesù con la sua morte e risurrezione è anche autore della novità e lo stesso Spirito Santo è all’opera anche lui per liberarci dalla vetustà.
Diversi sono i nomi con cui viene designata la realtà positiva infusa in noi nel battesimo: vita nuova, grazia, figliolanza divina, dono dello Spirito, nuova creazione… Uno di questi termini, che stanno per il tutto, è carità, amore. L’amore è la prova che si è passati dalla morte alla vita (cf 1 Gv 3, 14). Dopo averci presentato, dunque, con il titolo di «acqua viva», lo Spirito come autore della rigenerazione e della vita nuova, il Veni creator, con il titolo di «fuoco», ci ha permesso di contemplare l’elemento negativo di questa vita, consistente nella rimozione del peccato. Ora col titolo di «carità» ci permette di contemplare, in tutto il suo splendore, l’elemento positivo di essa. Il nostro cuore è ormai come un otre ripulito e rinnovato, pronto a ricevere il "vino nuovo" promesso da Cristo.
Per comprendere il ricchissimo contenuto del titolo caritas, cerchiamo anzitutto di scoprire quali sono i temi che l’autore ha inteso riassumere con tale termine. Quindi muoveremo alla scoperta della tradizione spirituale e teologica che con esso egli ha inteso raccogliere e trasfondere nell’inno. Questa tradizione da un lato ci rinvierà alla Bibbia, fonte ultima di ogni affermazione sullo Spirito, dall’altro ci permetterà di scoprire nuove prospettive, che l’appellativo di «amore» apre oggi alla nostra comprensione dell’opera dello Spirito Santo nella Chiesa e nelle anime.
Per comprendere cosa c’è dietro il titolo di «amore» dobbiamo allora considerare tre cose: primo, lo Spirito è amore nella Trinità, in quanto unisce tra loro il Padre e il Figlio; secondo, lo Spirito Santo è carità nella Chiesa, in quanto vincolo della sua unità; terzo, lo Spirito Santo è carità nel singolo credente, in quanto gli fa fare una viva esperienza dell’amore di Dio.

Lo Spirito Santo, amore del Padre e del Figlio
Tre cose, dette dello Spirito Santo nel Nuovo Testamento, colpiscono in modo particolare Agostino: lo Spirito Santo è dono, comunione e gioia.
Lo Spirito Santo è dono! Basta pronunciare questa parola perché attraverso la Bibbia si accendano, uno dopo l’altro, tanti punti luminosi che si richiamano a vicenda, fino a formare un’unica via di luce. Ne abbiamo già parlato, commentando il titolo di «dono di Dio» e non occorre perciò insistervi di nuovo.
Lo Spirito Santo è poi comunione (cf 2 Cor 13, 13). Anzitutto comunione del Padre e del Figlio tra loro. Solo lo Spirito Santo nella Trinità porta un nome comune a tutte e tre le persone divine (tutto in Dio è Spirito e tutto è Santo!), mentre non tutto si può chiamare Padre e nemmeno tutto Figlio.
Lo Spirito Santo, in terzo luogo, è gaudio, gioia. Ce lo attesta la Scrittura, che associa così spesso la gioia con lo Spirito Santo (cf At 13,52; Rm 14,17).
Ora, tutti e tre questi tratti distintivi dello Spirito Santo raccolti dalla Bibbia richiamano una realtà unica, che tutti li contiene: l’amore. Il dono è segno di amore. Anche la comunione è riflesso dell’amore. L’amore è, per così dire, il contenuto della comunione e la comunione non è che l’incontro di più esseri spirituali e ragionevoli nell’amore. Infine, da dove proviene il gaudio e la gioia, se non dall’amare e dall’essere amati?
A questo punto, nella mente di Agostino si produce come un improvviso lampo di luce, che rischiara tutto il cammino. Dunque, lo Spirito Santo è quel Dio di cui parla la Scrittura quando dice: «Dio è amore»! (1 Gv 4, 8.16). Tutto, certamente, in Dio è amore; ma lo Spirito Santo è amore anche in senso proprio e personale. L’amore, si legge, «procede da Dio» (1 Gv 4, 7) e subito dopo segue l’affermazione: «Dio è amore». Ma è lo Spirito Santo, appunto, che "procede" da Dio come amore. Infatti il Padre non procede da nessuno e il Figlio non procede semplicemente, ma è generato.
Allora Agostino esclama con entusiasmo: «È dunque lo Spirito Santo il Dio Amore!… È dunque lo Spirito che è designato nell’affermazione: "Dio è amore". Ecco perché lo Spirito Santo, Dio che procede da Dio, una volta dato all’uomo, lo accende d’amore per Dio e per il suo prossimo, essendo lui stesso amore. L’uomo, infatti, non riceve se non da Dio l’amore per amare Dio. "Non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi" (cf 1 Gv 4, 10.19). Anche l’apostolo Paolo dice: "L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato" (Rm 5, 5)» (La Trinità, XV, 17.31).
Questa visione, ricavata dalla Scrittura, ci aiuta a comprendere qualcosa del mistero del Dio uno e trino. Dio è amore: per questo egli è Trinità! L’amore suppone uno che ama, ciò che è amato e l’amore stesso. Il Padre è, nella Trinità, colui che ama, la fonte e il principio di tutto; il Figlio è colui che è amato; lo Spirito Santo è l’amore con cui si amano. Non è certamente che un’analogia umana, ma è senza dubbio quella che meglio ci permette di gettare uno sguardo nelle profondità arcane di Dio. Ma, attenzione! Ciò che è attribuito in modo particolare ad una persona non è tanto un dato attributo (o una data opera), quanto il modo di realizzarlo. La sapienza e l’amore appartengono a tutte e tre le divine persone, ognuna delle quali, tuttavia, li possiede e li esercita con una nota propria derivante dalla sua persona nella Trinità. Lo stesso vale per l’abitudine di attribuire la creazione al Padre, la redenzione al Figlio e la santificazione allo Spirito Santo. Ognuna delle tre persone interviene in tutte e tre queste operazioni ma ciascuna in modo proprio.
Oggi sappiamo che il modo di parlare dello Spirito Santo come l’amore, non è l’unico possibile. Il confronto con la tradizione orientale, divenuto oggi più intenso, ci dice che il tema dello Spirito Santo amore è quasi del tutto assente nella teologia delle Chiese orientali, che amano, invece, parlare dello Spirito come del "soffio" che accompagna la "parola" e. ancor più. come "illuminazione". Oggi, dunque, abbandonato l’esclusivismo della scuola teologica latina, siamo in grado di apprezzare ancor meglio l’apporto di Agostino di e integrarlo con altri, senza contrapporlo a essi. Allora insieme troveremo di che arricchirci e rallegrarci della mirabile "sinfonia" iniziata il giorno di Pentecoste, senza nessun segreto desiderio di far prevalere una tradizione sull’altra. Sinfonia è l’insieme di più voci, non una sola voce. Nella sinfonia, ogni singola voce "guadagna" in bellezza anziché essere danneggiata dalla presenza delle altre.
«Non si perviene ad un tale mistero per una sola via», dicevano di Dio gli antichi e questo vale ancor più del Dio Trinità dei cristiani. Gesù stesso ce ne ha dato l’esempio nel Vangelo. Egli parla dell’unica realtà del Regno con molte parabole. A volte una parabola sembra quasi contraddire l’altra o, almeno, dire del Regno una cosa diversa rispetto ad un’altra parabola. La verità è che le parabole sono "messaggeri" discreti; consegnano la loro parte del messaggio e poi si fanno da parte, lasciando ad altre parabole il compito di completarlo. Così dovrebbero essere i nostri concetti e modi di parlare di Dio e dello Spirito.

Lo Spirito-carità nella Chiesa
Il Padre e il Figlio hanno voluto che noi fossimo uniti tra noi e con loro per mezzo di quello stesso vincolo, che unisce loro e cioè l’amore che è lo Spirito Santo. A partire dal quinto secolo questa funzione unificante dello Spirito, nella Trinità e nella Chiesa, è stata racchiusa in una breve formula, che per molto tempo ha costituito l’unica menzione dello Spirito Santo nel canone latino della messa: «Nell’unità dello Spirito Santo» (In unitate Spiritus Sancti).
È il tema che S. Agostino sviluppa in tutti i suoi discorsi sulla Pentecoste. Si rievoca l’evento di Pentecoste e il miracolo delle lingue. Quindi si pone la domanda: allora ogni apostolo parlava tutte le lingue; come mai, invece, adesso, pur avendo ricevuto lo Spirito Santo, il cristiano non paria tutte le lingue? La risposta del vescovo è: ma certo, anche oggi ogni cristiano parla tutte le lingue! Egli, infatti, appartiene a quel corpo, la Chiesa, che parla tutte le lingue e in ogni lingua annunzia la verità di Dio. Non tutte le membra del nostro corpo vedono, non tutte odono, non tutte camminano, eppure noi non diciamo: il mio occhio vede, il piede cammina; ma diciamo: io vedo, io cammino, perché ogni membro agisce per tutti e tutto il corpo agisce in ogni membro.
Così fa lo Spirito Santo nel corpo di Cristo, che è la Chiesa. Si comporta come l’anima nel nostro corpo. È il principio motore ed ispiratore di tutto. Qual è il segno certo che si è ricevuto lo Spirito Santo? Parlare in lingue, operare prodigi? No: è amare l’unità, tenersi saldamente uniti alla Chiesa. Questo spiega perché la carità è "la via migliore di tutte", perché moltiplica i carismi e fa del carisma di uno il carisma di tutti.
La Chiesa non è una realtà monolitica, per cui o c’è tutta o non c’è affatto. Essa si realizza per gradi. Ci sono due livelli di unità della Chiesa: il livello visibile dei segni, («comunione dei sacramenti») e il livello invisibile («società dei santi»), che si realizza quando si aderisce, mediante la carità, all’unità del corpo e si è "animati" dallo Spirito Santo.
Questo è il complesso dottrinale che il titolo di «amore» evocava al tempo in cui fu composto il Veni creator. Oggi che cosa ci suggerisce? Che cosa chiediamo quando, cantando l’inno, giungiamo alla parola caritas? Da noi in Occidente, come conseguenza della Riforma protestante, nella Chiesa cattolica si è molto insistito sull’importanza dell’aspetto visibile, istituzionale e gerarchico fino a lasciare in ombra il ruolo in essa dello Spirito Santo. Ciò comincia a riemergere nella Chiesa con l’enciclica Mystici corporis di Pio XII nella quale si torna a parlare dello Spirito Santo come dell’anima e del vincolo di unità della Chiesa.
Tale riscoperta ha ricevuto poi un decisivo impulso col Concilio Vaticano II, che parla chiaramente dei carismi e della dimensione pneumatica della Chiesa accanto a quella gerarchica ed istituzionale. Come nella Trinità lo Spirito è una specie di noi divino, in cui si trovano riuniti l’io del Padre e il tu del Figlio, così nella Chiesa egli è colui che fa di una moltitudine di persone una sola «mistica persona».
Nel mondo protestante, al contrario, si è talmente insistito sullo Spirito Santo come costitutivo della vera Chiesa, invisibile, interiore e nascosta, da perderne di vista la dimensione visibile e concreta. Da una parte una Chiesa senza lo Spirito Santo, dall’altra uno Spirito Santo senza la Chiesa. Come nel primo caso si finisce per snaturare la Chiesa, privandola dello Spirito, nel secondo si finisce per snaturare lo Spirito, privandolo della Chiesa.
Oggi, pur con diverse sfumature, gli uni e gli altri si ritrovano nell’antica formula di Ireneo: «Dove è la Chiesa, lì è anche lo Spirito di Dio e dove è lo Spirito di Dio, lì è anche la Chiesa e ogni grazia» (Contro le eresie, III, 24,1).
Nessuno ha espresso questa rinnovata coscienza del bisogno che la Chiesa intera ha dello Spirito Santo con più passione di Paolo VI: «Ci siamo chiesti più volte […] quale bisogno avvertiamo, primo e ultimo, per questa nostra Chiesa benedetta e diletta. Lo dobbiamo dire quasi trepidanti e preganti, perché è il suo mistero e la sua vita, voi lo sapete: lo Spirito, lo Spirito Santo, animatore e santificatore della Chiesa, suo respiro divino, il vento delle sue vele, suo principio unificatore, sua sorgente interiore di luce e di forza, suo sostegno e suo consolatore, sua sorgente di carismi e di canti, sua pace e suo gaudio, suo pegno e preludio di vita beata ed eterna. La Chiesa ha bisogno della sua perenne Pentecoste; ha bisogno di fuoco nel cuore, di parola sulle labbra, di profezia nello sguardo […]. Ha bisogno, la Chiesa, di riacquistare l’ansia, il gusto e la certezza della sua verità […]. E poi ha bisogno, la Chiesa, di sentire rifluire per tutte le sue umane facoltà l’onda dell’amore, di quell’amore che si chiama carità, e che appunto è diffusa nei nostri cuori proprio dallo Spirito Santo che a noi è stato dato» (29 novembre 1972).
La contemplazione dello Spirito come carità e amore, ci può essere di aiuto anche nel cammino verso l’unità di tutti i cristiani. Se il segno della presenza dello Spirito Santo, come diceva Agostino, è «l’amore per l’unità», dobbiamo dire che lo Spirito è all’opera oggi soprattutto laddove è viva la passione per l’unità dei cristiani, dove si lavora e si soffre per essa.
All’inizio Dio concesse lo Spirito ai pagani in casa di Cornelio, con le stesse identiche manifestazioni con cui l’aveva concesso agli apostoli a Pentecoste, per indurre Pietro e la Chiesa dietro di lui ad accogliere nella comunione dell’unica Chiesa anche i gentili. Oggi concede lo Spirito Santo ai credenti delle diverse Chiese negli stessi modi e a volte nelle stesse identiche forme, per lo stesso scopo: per indurci ad accoglierci gli uni gli altri nella carità dello Spirito e incamminarci verso la piena unità, come fecero giudei e gentili, una volta riuniti nella stessa Chiesa. Lo Spirito, che poté riunire in un solo corpo giudei e gentili, schiavi e liberi, può ben riunire oggi in un solo corpo cattolici e protestanti, latini e ortodossi! Questo dobbiamo chiedere allo Spirito quando nel Veni creator lo invochiamo come carità e amore.

Tutti furono pieni dell’amore di Dio!
Dopo aver riflettuto sullo Spirito Santo amore nella Trinità e nella Chiesa, riflettiamo ora sullo Spirito Santo amore nel singolo credente, cioè in ognuno di noi. Dobbiamo, a questo proposito, rifarci all’evento di Pentecoste.
La Pentecoste fu per gli apostoli un’esperienza. Essi fecero un’esperienza travolgente dell’amore di Dio: essere amati da Dio e di amare Dio. Furono letteralmente "battezzati" nell’amore. Fu questo che li portò fuori di sé, al punto da farli apparire all’esterno ubriachi di vino (cf At 2, 13). Gli apostoli, come più tardi i martiri, erano in effetti “ubriachi”, ma della carità che veniva ad essi infusa dal dito di Dio, che è lo Spirito Santo.
Questo fatto, che cioè la venuta dello Spirito Santo si traduce a livello soggettivo in una esperienza d’amore, trova conferma ogni volta che si ha una "nuova Pentecoste". Tutte le volte che si ha una vera e forte esperienza dello Spirito, il ricordo più vivo che la persona conserva di quel momento è quello di un’intensa percezione dell’amore del Padre.
È il momento più bello nella vita di una creatura: sentirsi amata personalmente da Dio, come trasportata in seno alla Trinità e trovarsi in mezzo al vortice d’amore che scorre tra il Padre e il Figlio, coinvolta in esso, partecipe della loro "passione d’amore" per il mondo. E tutto questo in un istante, senza bisogno di parole e di riflessione alcuna.
Ma, è proprio necessario fare l’esperienza dell’amore di Dio? Non basta (e non è persino più meritorio) crederlo per fede? Ci risponde la Parola: «Noi abbiamo conosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi» (cf 1 Gv 4, 16): non solo creduto, ma anche conosciuto e sappiamo bene che per la Bibbia "conoscere" significa sperimentare.
Se in questo consiste in concreto la Pentecoste, cioè in un’esperienza viva e trasformante dell’amore di Dio, perché, potremmo chiederci, allora una tale esperienza è ancora ignota alla maggioranza dei credenti e forse anche nella nostra vita spirituale ne lamentiamo la mancanza? Come renderla possibile?
Nel battesimo ci è stato dato un cuore nuovo. Questo cuore nuovo è rimasto forse come atrofizzato per mancanza di esercizio. Doveva essere una "sorgente che zampilla" per la vita eterna ed è rimasto, invece, una "fontana sigillata". Dobbiamo allora dissigillarlo, metterlo in moto. Quando, per qualsiasi motivo, si arresta il battito cardiaco di una persona, si cerca di rianimarla, massaggiandole il cuore, finché esso non riprenda a battere da sé, per un movimento spontaneo e naturale. Ebbene: anche a noi occorre passare attraverso qualcosa del genere: una sorta di massaggio o di respirazione artificiale. Questo avviene mettendoci ad amare, anche a forza di volontà, senza trasporto di sentimento. Amare i vicini e i lontani, chi ci ama e, ancora più, chi non ci ama. Nessuno dovrebbe pensare di conoscere l’amore di Dio «effuso nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo» (Rm 5, 5), se esso non gli è servito, almeno una volta, per perdonare un’offesa, amare un nemico, riconciliarsi con un fratello.
Chi è va pellegrino in Terra Santa nota subito una cosa: il fiume Giordano nel suo corso forma due mari: il Mare di Galilea e il Mar Morto. Il Mare di Galilea riceve le acque del Giordano, ma poi le lascia defluire ed è un mare brulicante di vita, tra i laghi più pescosi della terra. Il Mar Morto riceve le acque del Giordano e le trattiene per sé, non ha emissari, ed è appunto un mare "morto", che non ha traccia di vita in sé e intorno a sé solo salsedine. E un simbolo. Per ricevere amore, dopo che esso ci è stato abbondantemente elargito (e a più riprese) dal battesimo in poi, è necessario lasciar passare da noi amore, spendere quello che abbiamo, abbattere la diga del nostro egoismo.
Dobbiamo imitare la vedova di Zarepta di Sidone. Arriva in casa sua il profeta Elia e le chiede dell’acqua e un po’ di pane. Lei risponde che tutto quello che ha è un pugno di farina e alcune gocce d’olio, che intendeva, appunto, cuocere per sé e per suo figlio prima di morire. Ma il profeta insiste: con tutto quello che ha, faccia prima di tutto una focaccia per lui; poi ne farà per sé e per il figlio. Non doveva sembrare una richiesta illogica e eccessiva? La vedova ha bisogno estremo, lei stessa, di qualcosa da mangiare e Dio le chiede di dare via, invece, anche quel poco che ha. Ma sappiamo il seguito: la farina si moltiplica nella giara e l’olio nell’orcio, senza diminuire, per lei e per il figlio e più si torna ad attingervi, più se ne trova (cf 1 Re 17, 7-16). Lo stesso Dio fa con noi. Noi chiediamo a Dio la carità di un po’ del suo amore ed egli ci chiede di dare noi per primi, a lui e al prossimo, tutto il poco amore che abbiamo; di svuotare il vaso: «Date e vi sarà dato; una buona misura, pigiata, scossa e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con cui misurate, sarà misurato a voi in cambio» (Lc 6, 38).
Non si tratta di precedere Dio, sicché egli debba darci il contraccambio, né tanto meno di meritare l’amore di Dio; ma di permettere a esso di effondersi in noi. Ogni volta che noi amiamo, egli ci ha amato per primo e anche il fatto che amiamo qualcuno è segno che egli ci sta amando.
Preghiamo con le parole di una Sequenza medievale che, con le immagini del fiume, della fiamma e del vento, riassume tutta la teologia latina sullo Spirito carità e amore:

Carità di Padre e Figlio
fonte sacra d’ogni bene,
Spirito Paraclito!

Dagli abissi trinitari
scendi fiume dell’amore,
invadici nell’intimo.

Dolce fiamma qui trascorri,
tocca il nostro cuor di pietra,
disperdi il triste gelo.

Come un vento, lieve irrompi
e col soffio ci riaccendi
del tuo amor deifico.

Per te, a te, uniti siamo
e tra noi ci amalgamiamo,
con vincolo d’amore.

 

UNZIONE SPIRITUALE
Lo Spirito Santo ci comunica la fragranza della santità di Cristo

Il tema di questa meditazione è il titolo di "unzione spirituale" (spiritalis unctio), che conclude la seconda strofa del Veni creator. Dopo il vento, l’acqua e il fuoco, sarà ora l’olio o l’unguento, a parlarci dello Spirito Santo e, con esso, il profumo, che ne è l’emanazione.
Al titolo di "unzione spirituale" viene accostato il titolo di "sigillo" (cf 2 Cor 1, 21). In quanto unzione, lo Spirito Santo ci trasmette il profumo di Cristo; in quanto sigillo, la sua forma, o immagine. In questo senso, il titolo di "unzione spirituale" serve a dimostrare, ancora una volta, la divinità dello Spirito Santo. L’uso del titolo "unzione spirituale" non ci parla solo di quello che lo Spirito è in sé, ma anche e soprattutto di quello che è per noi. Lo Spirito è colui che ci comunica il buon odore, la fragranza della santità di Cristo.
L’unzione è una specie di effluvio della divinità, che lo Spirito "prende da Cristo" e comunica all’anima. Lo Spirito è il profumo di Cristo ed è perciò che i cristiani, essendo tempio dello Spirito, sono anch’essi buon odore di Cristo. Si può intuire la ricchezza e la suggestiva bellezza del titolo che in questa meditazione ci proponiamo di esplorare.

L’unzione: figura, evento e sacramento
L’unzione (come l’Eucaristia e la Pasqua), è una di quelle realtà che sono presenti in tutte e tre le fasi della storia della salvezza. È presente nell’Antico Testamento come “figura”, nel Nuovo testamento come “evento” e nel tempo della Chiesa come “sacramento”. La figura annuncia, anticipa e prepara l’evento, mentre il sacramento lo celebra, lo rende presente, lo attualizza e, in un certo senso, lo prolunga. Nel nostro caso: la figura è data dalle varie unzioni (regale, profetica e sacerdotale) praticate nell’Antico Testamento; l’evento è costituito dall’unzione di Cristo, l’Unto per eccellenza, a cui tutte le figure tendevano come a loro compimento; il sacramento è rappresentato da quell’insieme di segni sacramentali, che prevedono un’unzione come rito principale o complementare. Seguendo perciò lo sviluppo del titolo "unzione spirituale", è possibile delineare una pneumatologia completa, una scia di profumo che attraversa l’intera storia della salvezza e giunge fino a noi!
Su questo insieme di significati di ordine rituale o storico, viene ad innestarsi successivamente un altro piano di significati, in cui unzione non significa un atto, ma piuttosto uno stato, un modo di essere e di agire, e uno stile di vita. Quando diciamo di una persona che è piena di unzione spirituale, ci riferiamo proprio a questo secondo ambito di significati. Corrisponde all’unzione spirituale (spiritalis unctio, come nel nostro inno!), che è lo stesso Spirito Santo.
Lo scopo di questa meditazione è proprio quello di condurci alla comprensione, all’amore e al possesso di quest’ultima unzione. Ma proprio per ottenere questo scopo, dobbiamo prima parlare dell’unzione come evento e come rito, perché è da questa prima che discende, come suo effetto, quest’altra unzione. Dobbiamo, in altre parole, porre anche in questo caso il fondamento biblico e teologico, da cui tirare poi delle conseguenze per la vita spirituale.

L’unzione in Cristo: l’evento
Due soli elementi ci interessano di tutto il ricco materiale riguardante l’unzione come figura, cioè il rito dell’unzione nell’Antico Testamento: il suo intrecciarsi con l’attesa messianica e il rapporto che c’è tra l’unzione e il conferimento dello Spirito Santo.
Nell’Antico Testamento si parla di tre tipi di unzione: l’unzione regale, sacerdotale e profetica e cioè l’unzione dei re, dei sacerdoti e dei profeti, anche se nel caso dei profeti si tratta, in genere, di un’unzione metaforica, senza cioè un olio materiale. In ognuna di queste tre unzioni, si delinea un orizzonte messianico, cioè l’attesa di un re, di un sacerdote e di un profeta che sarà l’Unto per antonomasia, il Messia.
Insieme con l’investitura ufficiale e giuridica, per cui il re diventa l’Unto del Signore, l’unzione conferisce anche una trasformazione che viene da Dio e questo potere, questa realtà, vengono sempre più chiaramente identificati con lo Spirito Santo. Nell’ungere Saul come re, Samuele dice: «Ecco: il Signore ti ha unto capo sopra Israele suo popolo. Tu avrai potere sul popolo […]. Lo Spirito del Signore investirà anche te e ti metterai a fare il profeta e sarai trasformato in un altro uomo» (1 Sam 10, 1.6).
Anche David, unto da Samuele, riceve lo Spirito (cf 1 Sam 16, 13). Ciò che il re riceve con l’unzione è la ruach del Signore, che lo compenetra della sua potenza vitale. Il legame tra l’unzione e lo Spirito è soprattutto messo in luce nel noto testo di Isaia: «Lo Spirito del Signore è su di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione» (61, 1).
Il Nuovo Testamento non ha esitazioni nel presentare Gesù co­me l’Unto di Dio, nel quale tutte le unzioni antiche hanno trovato il loro compimento. Il titolo stesso di "Messia" (o Cristo, che significa, appunto, “Unto”), è la prova più chiara di ciò. Ma lo troviamo anche af­fermato esplicitamente: «Dio unse di Spirito Santo e potenza Gesù di Nazaret» (At 10, 38).
Il momento o l’evento storico a cui si fa risalire questo compimento è il battesimo di Gesù nel Giordano. A quale tipo di unzione antica si ricollega quella di Gesù: all’unzione regale, a quella profetica o a quella sacerdotale? Alcuni vi vedono un’unzione di tipo profetico, altri di tipo regale. A favore della prima starebbe il fatto che l’unzione di Gesù, come quella dei profeti, è di natura puramente spirituale, non fisica, senza, cioè, l’uso di alcun unguento. Ma forse è più giusto vedervi realizzati tutti e tre i tipi di unzione, come farà la tradizione teologica e liturgica della Chiesa.
In ogni caso, il contenuto di questa unzione è lo Spirito Santo: «Dio unse di Spirito Santo e potenza Gesù di Nazaret». Gesù stesso dirà: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione…» (Lc 4, 18).
All’inizio, fino a tutto il IV secolo, a proposito dell’unzione di Gesù, si pone il problema teologico del suo rapporto con l’incarnazione, ma non si ha alcuna difficoltà ad accettare il dato evangelico, e cioè che l’unzione di Gesù è messa in rapporto col suo battesimo nel Giordano ed è vista come un evento trinitario. È un’unzione storica, legata allo svolgimento concreto della salvezza. Il nome che Gesù riceve a causa di essa, "Cristo", designa un evento, un’azione, non la persona. Indica l’investitura di Gesù quale Messia, con la quale si inaugura, di fatto, l’economia della salvezza. Nell’incarnazione il Verbo fatto uomo diviene "Gesù. Per l’unzione dello Spirito, nel suo battesimo, Gesù uomo e Dio perfetto, diviene «il Cristo» e questo evento produce in lui degli effetti grandiosi e immediati: miracoli, predicazione con autorità, vittoria sui demoni, instaurazione del Regno…
Due fattori fecero entrare in crisi questa teologia antica, che riconosceva un’importanza così grande al battesimo di Gesù. Il primo fu il sorgere di eresie che traevano, da tutto ciò, delle false conclusioni. Gli Gnostici dicevano, per esempio,  che altri è Gesù e altri il Cristo. Gesù designa l’uomo nato da Maria, Cristo indica la divinità discesa su di lui, in occasione del suo battesimo. Ad una conclusione analoga giungeranno, in seguito, sia Paolo di Samosata che Nestorio. Gli Ariani osservavano che se Gesù è soggetto al cambiamento e al progresso, vuol dire che non è Dio in senso pieno e perfetto.
L’altro fattore fu la necessità di adattare il contenuto della fede alla cultura greca, per la quale ciò che conta veramente è il fondamento delle cose, non tanto lo svolgimento, la storia.
Il risultato fu comunque quello di la separazione del mistero dell’unzione di Gesù dal suo battesimo e la sua anticipazione e identificazione con l’incarnazione.
Su questa base controversistica, preoccupata cioè più dell’affermazione dogmatica contro il pericolo delle eresie che della fedeltà al dato biblico, si sviluppa tutta la successiva teologia sistematica fino all’inizio del nostro secolo. La conseguenza negativa è che si attenua il ruolo dello Spirito Santo e la pneumatologia si riduce a cristologia. Questo ha contribuito ad un calo della dimensione pneumatica nella teologia.
In tempi più recenti, la rivalutazione del battesimo di Gesù, in sede biblica, ha indotto a rivedere profondamente questa costruzione teologica, ritornando alla prospettiva più antica, secondo cui bisogna distinguere il mistero dell’unzione da quello dell’incarnazione e la missione dello Spirito da quella del Verbo. L’unzione svolge nella vita di Gesù un compito specifico: è il momento in cui egli riceve la pienezza dello Spirito come capo della Chiesa e come Messia. Egli era pieno di Spirito Santo fin dal momento dell’incarnazione, ma si trattava di una grazia personale e perciò incomunicabile. Ora, nell’unzione, riceve quella pienezza di Spirito Santo che, come capo, potrà trasmettere anche al suo corpo. La Chiesa vive di questa grazia. Più che un prolungamento dell’incarnazione, la Chiesa è la continuazione storica dell’unzione. É lo Spirito che fa di Gesù e della Chiesa "una mistica persona", una persona risultante da più persone.
Ne risulta tutta una rinnovata visione della cristologia e della Chiesa. In questa linea si è mosso il Concilio Vaticano II, che ha cominciato a parlare di nuovo dell’unzione, dopo che per secoli questo mistero era rimasto fuori dai grandi trattati e da ogni interesse propriamente teologico. In PO, 2 leggiamo: “Il Signore Gesù, che il Padre ha santificato e inviato nel mondo, rende partecipe tutto il suo corpo mistico dell’unzione dello Spirito, con la quale egli stesso è stato unto”.

L’unzione nella Chiesa: il sacramento
Dopo essere stata presente nell’Antico Testamento come figura e nel Nuovo come evento, l’unzione è presente ora nella Chiesa come sacramento. Ma cosa rappresenta il sacramento rispetto all’evento? Il sacramento prende dalla figura il segno e dall’evento il significato. Prende dalle unzioni dell’Antico Testamento l’elemento (l’olio, il crisma o unguento profumato) e da Cristo l’efficacia salvifica. Più che un unico sacramento l’unzione è presente nella Chiesa come un insieme di riti sacramentali. Come sacramenti a se stanti abbiamo la Cresima e l’Unzione degli infermi. Come parte di altri sacramenti abbiamo l’unzione battesimale e l’unzione del sacramento dell’Ordine. Nell’unzione battesimale, che segue il battesimo vero e proprio, si fa riferimento esplicito alla triplice unzione di Cristo: “Egli stesso vi consacra con il crisma di salvezza; inseriti in Cristo, sacerdote, re e profeta, siate sempre membra vive del suo corpo per la vita eterna”. Nella consacrazione del vescovo, è la fecondità spirituale che viene messa in rapporto con l’unzione: “Dio, che ti ha fatto partecipe del sommo sacerdozio di Cristo, effonda su di te la sua mistica unzione e con l’abbondanza della sua benedizione dia fecondità al tuo ministero”.
Infine, tra i sacramentali, ricordiamo l’unzione nella consacrazione dell’altare, delle chiese e in numerose altre circostanze.
Ma come nascono e si sviluppano, nella Chiesa, tutti questi riti di unzione? Determinanti sono stati, al riguardo, due testi del Nuovo Testamento, uno di Paolo e uno di Giovanni, in cui si parla dell’unzione con chiaro riferimen­to allo Spirito Santo: «È Dio stesso che ci conferma, insieme a voi, in Cristo, e ci ha conferito l’unzione, ci ha impresso il sigillo e ci ha dato la caparra dello Spirito nei nostri cuori» (2 Cor 1, 21). Da questo testo si vede, tra l’altro, come al tema dell’unzione sia intimamente legato, già nella Scrittura, quello del «sigillo» (cf Ef 1, 13).
A sua volta, Giovanni scrive: «Quanto a voi, l’unzione che avete ricevuto da lui rimane in voi e non avete bisogno che alcuno vi ammaestri; ma come la sua unzione vi insegna ogni cosa, è veritiera e non mentisce, così state saldi in lui come essa vi insegna» (1 Gv 2, 27). Anche Giovanni conosce il tema dello Spirito Santo "sigillo", che applica però a Cristo stesso quando dice che «su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo» (Gv 6, 27).
Rimane aperta la domanda se questi testi, che parlano dell’unzione e del sigillo, riflettano una prassi liturgica già instaurata nella Chiesa nell’ambito dei riti dell’iniziazione o siano, invece, essi stessi a determinare, in seguito, tale prassi. É certo, in ogni caso, che ben presto, già nel II secolo, nel contesto dell’iniziazione cristiana, appare un rito di unzione che, in genere, segue il battesimo. Da questo rito dell’unzione (chrio) si fa derivare il nome stesso di cristiani (christianoi), come da esso era derivato quello di Cristo. Il tema poi dello Spirito Santo come "sigillo", con cui Cristo contrassegna le sue pecorelle al momento del battesimo, ricorre continuamente nelle fonti antiche, fino ad evolversi nella dottrina del "carattere indelebile".
Il rito dell’unzione assume particolare rilievo nell’ambito della catechesi post-battesimale, dove comincia a configurarsi già come un rito a se stante, nel contesto dell’iniziazione, collocato tra il battesimo e il ricevimento dell’eucaristia. A esso viene dedicata una speciale catechesi mistagogica, in cui si dice ai neofiti: «Divenuti partecipi di Cristo, giustamente voi siete chiamati "cristi", perché avete ricevuto il sigillo dello Spirito Santo […]. Dopo che Gesù fu battezzato nel Giordano e comunicò alle acque il profumo della sua divinità, ne risalì e lo Spirito Santo discese personalmente su di lui. Anche a voi, quando siete risaliti dalla piscina delle sacre fonti, fu conferito il crisma, che è figura di quello che unse Cristo, cioè dello Spirito Santo» (Cirillo di Gerusalemme, Catechesi mistagogiche, III, 1). Più tardi, questo rito dell’unzione si configurò come sacramento a parte, l’attuale confermazione, assumendo forme e contenuti diversi nelle varie Chiese.
Diciamo dunque qualcosa di questo sacramento. Non della sua storia ed evoluzione, che sono assai complesse, ma di quello che la catechesi attuale della Chiesa cattolica insegna a suo riguardo. «La confermazione è per ogni fedele ciò che per tutta la Chiesa è stata la Pentecoste, ciò che per Gesù è stata la discesa dello Spirito all’uscita dal Giordano. Essa rafforza l’incorporazione battesimale a Cristo e alla Chiesa e la consacrazione alla missione profetica, regale e sacerdotale. Comunica l’abbondanza dei doni dello Spirito, i "sette doni" che consentono di giungere alla perfezione della carità. Se dunque il battesimo è il sacramento della nascita, la cresima è il sacramento della crescita. Per ciò stesso è anche il sacramento della testimonianza perché questa è strettamente legata alla maturità dell’esistenza cristiana» (CEI, Catechismo degli Adulti, p. 324).
La cosa più nuova è l’accentuazione del legame tra la cresima e la Pentecoste e tra la cresima e conferimento dei carismi. La cresima è l’occasione normale offerta a ogni cristiano, per ratificare e rinnovare il battesimo ricevuto da bambino, "liberandone" le energie latenti.

L’unzione spirituale, uno stile di vita
Vediamo ora come, su questo sfondo biblico e sacramentale, si innesti l’unzione spirituale intesa come uno stile di vita. Se è vero che tra le due cose esiste un rapporto stretto, tuttavia, le due unzioni non si identificano, perché una appartiene all’ordine oggettivo dei misteri, l’altra all’ordine soggettivo della mistica.
Come è nata questa seconda accezione, soggettiva, dell’unzione spirituale? Una tappa importante è costituita dal pensiero di Agostino, che interpreta il testo della Prima lettera di Giovanni (2, 27), nel senso di un’unzione continua, grazie alla quale lo Spirito Santo, maestro interiore, ci permette di comprendere dentro ciò che ascoltiamo all’esterno.
Una nuova fase nello sviluppo del tema dell’unzione si apre con san Bernardo e san Bonaventura. Con essi si afferma la nuova accezione, spirituale e moderna di unzione, non legata tanto al tema della conoscenza della verità, quanto a quello dell’esperienza della realtà divina.
Il senso che san Bonaventura dà all’unzione appare nel modo più chiaro da ciò che scrive all’inizio del suo Itinerario della men­te a Dio: «Pertanto esorto il lettore, prima di tutto, al gemito della preghiera per il Cristo crocifisso, il cui sangue deterge le macchie delle nostre colpe; e ciò perché non creda che gli basti la lettura, senza l’unzione, la speculazione senza la devozione, la ricerca senza l’ammirazione, la considerazione senza l’esultanza, lo sforzo senza la pietà, la scienza senza la carità, l’intelligenza senza l’umiltà, lo studio senza la grazia divina» (Prologo, 4). Quest’unzione, dirà alla fine, non dipende dalla natura, né dalla scienza, né dalle parole o dai libri, ma dal dono di Dio, che è lo Spirito Santo.

Come ottenere l’unzione dello Spirito
A questo punto abbiamo ormai tutti gli elementi per fare la sintesi e applicare alla nostra vita tutto il ricchissimo contenuto biblico e teologico legato al tema dell’unzione spirituale. San Basilio dice che lo Spirito Santo «fu sempre presente nella vita del Signore, divenendone l’unzione e il compagno inseparabile», così che «tutta l’attività di Cristo si svolse nello Spirito»(Sullo Spirito Santo, XVI, 39). Avere l’unzione significa, dunque, avere lo Spirito Santo come «compagno inseparabile» nella vita, fare tutto "nello Spirito", alla sua presenza, con la sua guida. Essa comporta una certa passività o, come dice Paolo, un «lasciarsi guidare dallo Spirito» (cf Gal 5, 18).
Tutto questo si traduce, all’esterno, ora in: soavità, calma, pace, dolcezza, devozione, commozione; ora in: autorità, forza, potere, autorevolezza, a seconda delle circostanze, del carattere di ognuno e anche dell’ufficio che si ricopre. L’esempio vivente è Gesù che, mosso dallo Spirito, si manifesta come dolce e umile di cuore, ma anche, all’occorrenza, pieno di soprannaturale autorità.
È una condizione caratterizzata da una certa luminosità interiore che dà facilità e padronanza nel fare le cose. Un po’ come è la "forma" per l’atleta e l’ispirazione per il poeta: uno stato in cui si riesce a dare il meglio di sé. Noi riconosciamo l’unzione quando siamo in presenza di una persona che la possiede, ma non possiamo racchiuderla in concetti chiari e distinti perché partecipa strettamente della natura dello Spirito, che è di essere inafferrabile.
Ma ora la domanda è: se l’unzione è data dalla presenza dello Spirito ed è dono suo, che possiamo fare noi per averla? Noi, grazie al battesimo e alla cresima, possediamo già l’unzione; anzi, secondo la dottrina tradizionale, basata su 2 Corinti 1, 21-22, essa ha impresso nella nostra anima un carattere indelebile, come un marchio o un sigillo. Quest’unzione però può rimanere inerte e inattiva, se non la "liberiamo", come un unguento profumato che non sprigiona un buon odore finché resta racchiuso nel vaso. Il vasetto di alabastro rotto dalla donna, grazie al quale «tutta la casa si riempì di profumo» (cf Gv 12, 3), era simbolo dell’umanità di Cristo, il vero "vaso di alabastro" per la sua purezza, che dovette essere infranto nella passione, perché la fragranza dello Spinto Santo che racchiudeva potesse effondersi e riempire di profumo tutta la Chiesa e tutto il mondo.
L’unzione non dipende da noi, ma dipende da noi rimuovere gli ostacoli che ne impediscono l’irradiazione. Non è difficile capire cosa significa per noi rompere il vaso. Il vaso è la nostra umanità, il nostro io, talvolta il nostro arido intellettualismo. Romperlo, significa mettersi in stato di resa a Dio, di obbedienza fino alla morte, come Gesù.
Ma non tutto è affidato allo sforzo ascetico. Molto può, in questo caso, la fede, la preghiera, l’umile implorazione. Gesù ricevette la sua unzione «mentre stava in preghiera» (Lc 3, 21). «Quanto più il Padre vostro celeste darà l’unzione del suo Spirito a chi gliela chiede!» (cf Lc 11, 13). Occorre dunque chiedere l’unzione prima di accingerci a un’azione importante a servizio del Regno. Mentre ci prepariamo alla lettura della Scrittura e all’omelia, la liturgia ci fa chiedere al Signore di purificare il nostro cuore e le nostra labbra per poter annunciare degnamente il Vangelo. Perché non anche noi dire qualche volta: «Ungi il mio cuore e la mia mente, Dio onnipotente, perché possa proclamare con la dolcezza e la potenza dello Spirito la tua parola»? Quando si sperimenta quasi fisicamente la venuta su di sé dell’unzione, una certa commozione, chiarezza e sicurezza si impadroniscono dell’anima. Scompare ogni nervosismo, ogni paura e ogni timidezza; si sperimenta qualcosa della calma e dell’autorità stessa di Dio.

Unti per diffondere nel mondo il buon odore di Cristo
Appare oggi il bisogno vitale che, specie le guide della Chiesa, abbiano dell’unzione spirituale, intesa nel suo duplice aspetto di dolcezza e di forza. Sarebbe un errore fare affidamento solo sull’unzione sacramentale, che abbiamo ricevuto una volta per tutte nell’ordinazione e che ci abilita a compiere certe azioni sacre come governare, predicare e istruire. Quella ci dà, per così dire, l’autorizzazione per fare certe cose, non necessariamente l’autorità nel farle; assicura la successione apostolica, non necessariamente il successo apostolico!
Per sé, l’unzione dello Spirito non è limitata ad alcuni momenti o a particolari categorie di persone nella Chiesa. L’unguento espande profumo sempre, con la sua semplice esistenza. E l’unzione è stata conferita a ogni credente, proprio perché sia "il buon odore di Cristo" (cf 2 Cor 2, 15). Consacrando l’olio che deve servire all’unzione battesimale e crismale, nella messa del Giovedì Santo, il vescovo dice: «Questa unzione li penetri e li santifichi, perché liberi dalla nativa corruzione e consacrati tempio della sua gloria, spandano il profumo di una vita santa».
Obiettava il pagano Celso, nel II secolo: «Come può un uomo solo, vissuto in un oscuro borgo della Giudea, riempire la terra del profumo della conoscenza di Dio, come dite voi cristiani?». Origene rispondeva dicendo che ciò è possibile grazie al mistero dell’unzione, di cui i cristiani sono partecipi: «Gesù ha ricevuto l’unzione con olio di letizia in tutta la sua pienezza. Quelli che partecipano di lui, ognuno secondo la propria misura, partecipano anche della sua unzione. Essendo infatti il Cristo il capo della Chiesa, che forma con lui un solo corpo, l’olio prezioso versato sul capo, discende sulla barba di Aronne, fino all’orlo della sua veste (cf Sal 133, 2)» (Contro Celso, VI, 79).
Lo Spirito Santo, secondo questa suggestiva lettura spirituale della Bibbia, è quell’olio prezioso effuso sul capo del nuovo Sommo Sacerdote che è Cristo Gesù; dal capo, esso si espande "a macchia d’olio giù per il corpo della Chiesa, fino all’orlo della sua veste, fin là dove la Chiesa tocca il mondo. La liturgia raccoglie questa immagine quando, nella messa crismale del Giovedì Santo formula in una orazione questa preghiera che facciamo nostra al termine di questa meditazione:

O Padre,
che hai consacrato il tuo unico Figlio
con l’unzione dello Spinto Santo,
e lo hai costituito Messia e Signore,

concedi a noi
di diventare partecipi della sua consacrazione
e di essere testimoni nel mondo
della sua opera di salvezza
Per Cristo nostro Signore. Amen.

 

DATORE DEI SETTE DONI
Lo Spirito Santo adorna la Chiesa di una moltitudine di carismi

Con questa meditazione inizia la terza strofa del Veni creator che, tradotta alla lettera, dice: «Datore dei sette doni, dito della destra di Dio, solenne promessa del Padre, tu poni sulle labbra la parola».
Dal punto di vista della forma, continua l’encomio del Paraclito, consistente in una serie di titoli biblici, applicati allo Spirito Santo al vocativo: «Tu che sei chiamato il Paraclito… tu che sei il datore dei doni…».
Dal punto di vista del contenuto teologico, si apre, invece, un orizzonte tutto nuovo. Dopo averci fatto contemplare nella seconda strofa l’opera santificatrice dello Spirito e la sua azione interiore e trasformante, ora l’inno ci fa contemplare la sua azione, che si manifesta nella varietà dei doni e dei carismi. Tutti i titoli e i temi riuniti in questa strofa si riferiscono, più o meno direttamente, a questa particolare azione dello Spirito: lo Spirito Santo dà i sette doni; è il dito della mano di Dio che scaccia demoni e opera segni e prodigi; è la promessa di potenza dall’alto, realizzata nella Pentecoste; è colui che si manifesta attraverso i doni legati alla parola: predicazione, insegnamento, profezia, dono delle lingue…
La distinzione di queste due linee di azione dello Spirito Santo, santificante e carismatica, è stata fedelmente raccolta dall’autore del nostro inno. Dopo aver chiamato, nella strofa precedente, lo Spirito Santo «altissimo dono di Dio» (al singolare), inizia la presente strofa, chiamando lo stesso Spirito «settiforme nei suoi doni» (septiformis munere).
Lo Spirito Santo, che è il principio dell’unità della Chiesa, è anche, nello stesso tempo, principio della sua diversità, ricchezza, bellezza e varietà. È l’eco fedele del grande insegnamento della Lettera agli Efesini. Lì, dopo aver presentato ciò che nella Chiesa è uno e identico per tutti, cioè i sacramenti e le virtù teologali: «Un solo corpo, un solo Spirito, una sola speranza, un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo, un solo Dio Padre» (4; 4-6), si passa ad elencare ciò che invece è diverso e proprio a ciascuno: «A ciascuno di noi, tuttavia, è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo. Per questo sta scritto: "Ascendendo in cielo ha portato con sé prigionieri, ha distribuito doni agli uomini"» (4, 7-8).
Questo momento di passaggio dall’intero dello Spirito al suo rifrangersi in una grandissima varietà di doni particolari, ha trovato espressione in alcune immagini suggestive. Una è quella della pioggia che scende unica e indivisa dal cielo, ma che fa germogliare le più diverse e variopinte specie di fiori. Un’altra è quella della luce che «piove di cosa in cosa e i color vari suscita dovunque si riposa».

Cos’è il carisma?
Sono due gli elementi che contribuiscono a definire il carisma. Primo. Il carisma è il dono dato “per l’utilità comune” (1 Cor 12,7); non per la santificazione della persona ma per il servizio della comunità. Secondo. Il carisma è un dono dato a uno o ad alcuni (non a tutti nello stesso modo) ma che lo distingue da ciò che è dato invece a tutti, come la grazia santificante, le virtù teologali e i sacramenti. In alcuni carismi prevale l’aspetto del dono per l’utilità comune, in altri quello del dono particolare. Ma nessuno di questi due elementi, preso separatamente, spiega tutti i casi in cui ricorre nel Nuovo Testamento il termine carisma. Paolo chiama, per esempio, carisma il matrimonio e la verginità (cf 1 Cor 7, 7), non perché essi sono doni dati principalmente per il servizio e l’utilità degli altri, (sono piuttosto modi stabili di vivere la grazia, pur in vocazioni diverse), ma perché, in questo campo, ciascuno ha il proprio dono da Dio, chi in un modo chi in un altro.
Solo tenendo conto di questa duplice caratteristica del carisma, si capisce l’uso che del termine fanno i Padri della Chiesa, i quali, nell’elencare i carismi, mettono insieme, sapienza, profezia, potere di scacciare i demoni, chiaroveggenza nell’interpretare le Scritture, continenza volontaria; cioè, sia doni destinati all’utilità comune, sia doni di santificazione, quando questi sono dati a qualcuno e non a tutti allo stesso modo. Si capisce anche come mai la Chiesa parla oggi delle varie forme di vita consacrata come di altrettanti carismi.
Che dire invece dei talenti? Bisogna dilatare il concetto di carisma in modo da includere in esso anche i talenti naturali? Certamente tutta la vita vissuta nella fede è grazia e non vi sono, in essa zone religiose e zone profane. Tuttavia, mai nel Nuovo Testamento carisma indica una umana capacità elevata e trasformata. Carisma è sempre «una manifestazione di potere soprannaturale». Le due cose sono conferite in modo ben diverso: il talento attraverso la nascita naturale, il carisma attraverso un’azione libera e sovrana di Dio, legata al battesimo. Per questo, i talenti sono spesso ereditali, i carismi mai. Il carisma può trovare il suo "supporto" in un dono e in un’attitudine naturale, ma è altra cosa da essa. Come la divinità e l’umanità in Cristo, così i carismi e i talenti naturali non vanno "separati", ma neppure "confusi".

I sette doni o i carismi?
Tutto quello che abbiamo detto sul contenuto della presente strofa del Veni creator sembra però smentito dal titolo iniziale che definisce lo Spirito: «settiforme nei suoi doni». Questo, infatti, allude chiaramente al tema dei sette doni dello Spirito Santo che, nell’interpretazione comune, non appartengono alla sfera carismatica, ma a quella santificante in senso stretto e non sono riservati ad alcuni, ma offerti indistintamente a tutti.
Ripercorriamo velocemente la storia del tema dei sette doni dello Spirito Santo. Il testo biblico da cui esso ha preso l’avvio è Isaia 11, 1-3. In esso si trovano elencati sei doni, di cui l’ultimo, il timore, ripetuto due volte: sapienza, intelligenza, consiglio, fortezza, conoscenza e timore del Signore. A questa lista di sei doni, la traduzione dei Settanta e la Vulgata aggiungono la pietà, eliminando la duplice menzione del timore di Dio e ottenendo così il numero classico di sette.
L’esegesi è unanime oggi nel vedere in questo testo la lista dei carismi che caratterizzano il sovrano ideale e il futuro Messia. Sapienza e intelligenza indicano accortezza e destrezza; consiglio e fortezza significano prudenza nel governo e valore militare; conoscenza e timore del Signore indicano il giusto atteggiamento religioso, fatto di conoscenza di Dio e di venerazione, che il sovrano diffonderà intorno a sé. Dall’insieme di questi doni scaturisce un governo in cui trionfa il diritto e la giustizia verso i poveri.
I doni elencati si collocano dunque nella linea dei carismi, che abilitano a compiti specifici nei confronti della comunità come: costruire e abbellire il tempio, vincere le battaglie, amministrare la giustizia con equità e profetizzare. Non sono destinati principalmente alla persona che li riceve per la sua santificazione individuale, ma sono conferiti a beneficio diretto dell’intera comunità, né sono dati a tutti in modo indistinto.
Nella Tradizione, però, si perde ben presto il riferimento al tema del sovrano ideale e del governo giusto. I sette doni cominciano invece a essere applicati genericamente a ogni credente.
Nascono così le formule che diverranno tradizionali: la «settemplice potenza dello Spirito Santo», il «dono settiforme» (septiforme munus), utilizzato nel nostro inno e il «sacro settenario» (sacrum septenarium) della Sequenza di Pentecoste. I sette doni sono messi in rapporto talvolta con i sette spiriti dell’Apocalisse (cf Ap 1, 4) e talaltra con le otto beatitudini.
Questo lo stadio di sviluppo e il significato con cui il titolo «settiforme nei suoi doni» (septiformis numere), entra nel Veni creator. Fu alcuni secoli più tardi che il tema dei sette doni dello Spirito Santo entrò in una nuova fase di sviluppo, che lo portò a perdere ogni riferimento ai carismi e a costituirsi in categoria a parte. Non c’è, si può dire, autore spirituale che, a partire da quest’epoca, non abbia un trattato, breve o lungo, sui doni dello Spirito.
Anzi, fino alle soglie del Concilio Vaticano II, la riflessione sullo Spirito Santo, in Occidente, continua a essere viva e creativa quasi solo nell’ambito del tema dei sette doni. I doni dello Spirito Santo dall’ambito dei carismi passano a far parte dell’opera santificatrice dello Spirito; sono visti come il coronamento di tutta la vita spirituale.
In un discorso di grande finezza, pronunziato da Paolo VI nella Pentecoste del 1969, egli distingue due campi di azione dello Spirito Santo: quello delle «singole anime» e quello «della comunità o corpo visibile della Chiesa». «Il primo campo è l’interiorità della nostra vita; il nostro io: in questa cella profonda, e a noi stessi misteriosa, della nostra esistenza, entra il soffio dello Spirito Santo; si diffonde nell’anima con quel primo e sommo carisma, che chiamiamo grazia, che è come una vita nuova, e subito la abilita ad atti che superano la sua efficienza naturale, cioè le conferisce virtù soprannaturali, si espande nella rete della psicologia umana con impulsi d’azione facile e forte che chiamiamo doni, e la riempie di effetti spirituali stupendi, che chiamiamo frutti dello Spirito».
Passando quindi all’altro campo di azione, quello comunitario, Paolo VI, dice: «Certamente "lo Spirito soffia dove vuole" (cf Gv 3, 8 ss); ma, nell’economia stabilita da Cristo, lo Spirito percorre il canale del ministero apostolico. "Dio ha creato la gerarchia, il sacerdozio ministeriale e così ha provveduto più che sufficientemente ai bisogni della Chiesa fino alla fine del mondo"» (25 maggio 1969).
Che cosa dobbiamo concludere?
Una corretta lettura del nostro inno consisterà in un ritorno indietro alla fase in cui i doni dello Spirito non erano ancora altra cosa rispetto ai carismi. Un ritorno a quella «multiforme grazia» dello Spirito, di cui parlava il Nuovo Testamento (cf 1 Pt 4, 10) e di cui, vedremo subito, si è tornato a parlare nel Concilio Vaticano II.

La riscoperta dei carismi nel Vaticano II
In uno dei documenti più importanti del Vaticano II leggiamo: «Lo Spirito Santo non solo per mezzo dei sacramenti e dei ministeri santifica il popolo di Dio e lo guida e adorna di virtù, ma "distribuendo a ciascuno i propri doni come piace a lui" (cf 1 Cor 12, 11), dispensa pure, tra i fedeli di ogni ordine, grazie speciali, con le quali li rende adatti e pronti ad assumersi opere e uffici, utili al rinnovamento e alla maggiore espansione della Chiesa, secondo quelle parole: "A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune" (1 Cor 12, 7). E questi carismi, straordinari o anche più semplici e più comuni, siccome sono soprattutto adattati e utili alle necessità del­la Chiesa, si devono accogliere con gratitudine e consolazione» (LG 12).
I carismi, dopo la loro tumultuosa apparizione agli inizi della Chiesa, non erano scomparsi dalla vita della Chiesa, quanto piuttosto dalla sua teologia. Se ripercorriamo la storia della Chiesa dobbiamo concludere che, a eccezione forse del "parlare in lingue" e dell’"interpretazione delle lingue", nessuno dei carismi è andato del tutto perduto. La storia della Chiesa è piena: di evangelizzatori, di doni di sapienza e di scienza (basta pensare ai dottori della Chiesa), di storie di guarigioni miracolose, di uomini dotati di spirito di profezia o di discernimento degli spiriti, per non parlare di doni quali: visioni, rapimenti, estasi, illuminazioni, anch’essi annoverati tra i carismi.
La storia della Chiesa è punteggiata di epoche caratterizzate da manifestazioni particolarmente intense di doni e operazioni dello Spirito: l’epoca dei martiri, l’esplosione del monachesimo (fenomeno carismatico, prima ancora che ascetico), la prima evangelizzazione dell’Europa, la missione presso i popoli slavi, il movimento francescano e l’incredibile fioritura di ordini religiosi, ognuno dei quali giustamente si rifà al "carisma" del proprio fondatore. Come nessuno può impedire al vento di soffiare dove vuole, così nessuno può impedire allo Spirito di effondere i suoi doni come vuole.
Abbiamo già ricordato che l’identità personale di Gesù nei Vangeli risulta da due rapporti fondamentali: il suo rapporto di Figlio nei confronti del Padre, caratterizzato dall’obbedienza e il suo rapporto con lo Spirito, da cui gli deriva autorità, libertà e potere nella sua missione. Lo Spirito carismatico, che gli conferisce l’unzione messianica per portare la Buona Novella ai poveri e guarire i cuori affranti, con cui scaccia i demoni, che lo fa "trasalire" di gioia nella preghiera, non è dunque un accessorio nella missione di Gesù, ma è costitutivo. Parimenti, nella vita della primitiva comunità cristiana, i carismi non erano fatti privati, un sovrappiù o un lusso, ma ciò che, unitamente all’autorità apostolica, delineavano la fisionomia della comunità. La comunità viveva degli stessi due fondamentali rapporti di Gesù: con il Padre, sperimentato come Abbà, e con lo Spirito che dava libertà e potere. Non però indipendentemente da Gesù, ma avendo in lui la sorgente di tutto e partecipando al suo rapporto unico con il Padre e con lo Spirito.
Non è sostenibile la tesi di chi vede all’inizio della Chiesa un tipo di comunità prevalentemente carismatica, in cui il ruolo dell’apostolo si limita solo a disciplinare i carismi che, da soli, provvedono, con la loro interazione, alla vita e all’espansione della comunità. Chi dice questo pone all’origine, assolutizzandola, la visione paolina di una comunità essenzialmente carismatica e poi giudica tutto il successivo sviluppo della comunità cristiana come un progressivo abbandono e un "affievolirsi" di quella visione, che si concluderebbe con il trionfo del "proto-cattolicesimo" nelle lettere pastorali.
Detto questo, bisogna però ammettere che ben presto, per diversi motivi, l’equilibrio tra le due istanze, dell’ufficio e del carisma, venne perso a vantaggio dell’ufficio. Il carisma viene ormai conferito con l’ordinazione e vive con esso. Un elemento determinante, poi, fu il sorgere delle prime eresie, specie quelle gnostiche. Fu questo fatto a far pendere sempre più l’ago della bilancia verso i detentori dell’ufficio, i pastori. I carismi vengono relegati ai margini della vita della Chiesa, un fenomeno che va esaurendosi. Scompaiono soprattutto quei carismi che avevano come terreno di esercizio il culto e la vita della comunità come il parlare ispirato e profetico e la glossolalia. La profezia viene a ridursi al carisma del Magistero di interpretare autenticamente e infallibilmente la Rivelazione.
Altra conseguenza inevitabile è la “clericalizzazione” dei carismi. Legati alla santità personale, essi finiscono per essere associati quasi sempre ai rappresentanti abituali di questa santità: pastori, monaci, religiosi.

Pentecoste è oggi!
Alla luce di queste osservazioni possiamo, credo, comprendere la novità recata dal Concilio, con il testo citato sui carismi. I carismi, dalla periferia, vengono riportati al centro della Chiesa. Di essi si parla nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa! Fanno dunque parte dell’intima natura della Chiesa, che è gerarchica e carismatica, istituzione e mistero, che non vive solo di sacramenti, ma anche di carismi. È come se venissero riattivati, nella pratica, tutti e due i polmoni della Chiesa. Vengono riaffermate le due direzioni da cui soffia lo Spirito: dall’alto, attraverso i sacramenti istituiti da Cristo e affidati al ministero apostolico e dal basso, dalle cellule del corpo, che sono i membri della Chiesa. La Chiesa completa, organismo vivo, irrorato dallo Spirito è l’insieme di questi due canali, il risultato delle due direzioni della grazia. I sacramenti sono il dono fatto a tutti per l’utilità di ciascuno, il carisma è il dono fatto a ciascuno per l’utilità di tutti. I sacramenti sono i doni dati all’insieme della Chiesa per santificare i singoli, i carismi sono doni dati ai singoli per santificare l’insieme.
Ora però bisogna guardarci dal cadere nell’eccesso opposto e credere che i carismi debbano e pos­sano manifestarsi nella Chiesa, in modo uniforme, tutti e sempre. Questo contraddirebbe un’altra verità ugualmente essenziale. Se lo Spirito soffia dove vuole e distribuisce i suoi carismi come vuole, egli soffia anche quando vuole. Non si può negare allo Spirito la libertà di soffiare in certe epoche e ambienti più o diversamente che in altri. Vi sono epoche in cui la presenza dello Spirito si intensifica e si fa più visibile. Tale fu l’epoca del profetismo in Israele. Vi è un tempo per creare e un tempo per ordinare! Vi sono "movimenti" diversi: mosso, forte, fortissimo, adagio, calmo, anche nella lunga sinfonia scritta dallo Spirito nella storia. Ognuno di questi tempi o movimenti ha la sua bellezza e contribuisce all’armonia dell’insieme.
Non è detto che in ogni epoca e cultura si debbano manifestare gli stessi carismi o nella stessa forma in cui si manifestarono all’inizio. Anche questo sarebbe oscurare l’infinita creatività e libertà dello Spirito, che non ci è lecito "standardizzare".

L’esercizio dei carismi
C’è un detto di Gesù che suona come un campanello di allarme per i carismatici: «Molti mi diranno in quel giorno: Signore, Signore, non abbiamo noi profetato nel tuo nome e cacciato demoni nel tuo nome e compiuto molti miracoli nel tuo nome? Io però dichiarerò loro: Non vi ho mai conosciuti, allontanatevi da me» (Mt 7, 21-23).
Ben tre differenti carismi sono menzionati in questo testo! L’ammonimento di Gesù pone il problema del retto uso dei carismi e siamo giunti così alla parte pratica, al momento in cui dalla teologia occorre scendere alla vita. Cosa dobbiamo fare perché il carisma che lo Spirito ha messo in noi edifichi la Chiesa, serva all’utilità comune, come è nella sua natura, e non si trasformi invece in una minaccia all’unità del corpo di Cristo e in un pericolo per la nostra stessa anima?
La risposta sta nel rapporto tra carisma e santità. Se è vero che il carisma non è dato a causa della santità o in vista della santità di una persona, è anche vero che esso non si mantiene sano, se non riposa sul terreno della santità personale.
Come non è possibile mantenere accesa una lampada senza olio, così è impossibile mantenere accesa la luce dei carismi senza un’attitudine capace di nutrire il bene con comportamenti adeguati. Ogni carisma ha bisogno dell’attitudine a esso connaturale, che incessantemente versi in esso, come olio, la materia spirituale per poter permanere nell’ambito di colui che lo ha ricevuto in suo possesso.
Accenno ad alcuni degli atteggiamenti che contribuiscono a mantenere sano il carisma e a farlo servire per l’utilità comune.
La prima virtù è l’obbedienza. La norma ultima dei carismi è Gesù Cristo. In lui vediamo perfettamente conciliate l’obbedienza al Padre e la libertà nello Spirito. Due cose reggono la sua vita: il mandato ricevuto dal Padre una volta per tutte, al momento di essere inviato nel mondo, e l’ispirazione dello Spirito data al momento. La sua autorità scaturisce congiuntamente da queste due fonti. Quando è tempo di obbedienza al comandamento del Padre (e di obbedienza fino alla morte!), Gesù non fa ricorso ai carismi, non invoca dodici legioni di angeli, non folgora i nemici con lo stesso dito di Dio con cui un tempo cacciava i demoni, ma dice: «Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore…» (Gv 12, 24).
Parliamo di obbedienza soprattutto all’istituzione, a chi esercita il servizio dell’autorità. I veri profeti e carismatici nella storia della Chiesa cattolica, anche recente, sono stati quelli che hanno saputo attendere, obbedendo e tacendo, prima di vedere le loro proposte e critiche accolte dall’Istituzione e poste, anzi, in alcuni casi, addirittura a base del rinnovamento della Chiesa. Carisma e istituzione sono come i due bracci della croce. Il carismatico è spesso la croce dell’Istituzione e l’Istituzione è la croce del carismatico. Eppure nessuno dei due può fare a meno dell’altro. I carismi senza l’Istituzione sono votati al caos; l’Istituzione senza i carismi è votata all’immobilismo. L’Istituzione non mortifica il carisma, ma: è quella che assicura al carisma un futuro, lo preserva dall’esaurirsi in un fuoco di paglia e mette a sua disposizione tutta l’esperienza dello Spirito fatta dalle precedenti generazioni.
La seconda virtù è l’umiltà. Scrive Gregorio Magno: «L’anima che è ripiena di Spirito Santo si riconosce in modo evidente da certi segni caratteristici. Quando in essa si accordano perfettamente i carismi e l’umiltà, è un segno chiaro che lo Spirito Santo è presente» (Dialoghi, I, 1). L’umiltà custodisce i carismi e i carismi custodiscono l’umiltà. I carismi sono faville del fuoco stesso di Dio affidate a noi, per la Chiesa. Come si fa a non far bruciare questo tesoro e a non bruciarsi le mani con esso? Ecco il compito dell’umiltà. Permette a questa grazia di Dio di passare e di circolare dentro la Chiesa e dentro l’umanità, senza disperdersi o contaminarsi. Più è alta la tensione e potente la corrente elettrica che passa attraverso un filo, più deve essere resistente l’isolante che impedisce alla corrente di scaricarsi al suolo o di provocare corti circuiti. L’umiltà è, nella vita spirituale, il grande isolante che permette alla corrente divina della grazia di passare attraverso una persona senza dissiparsi, o provocare fiammate di orgoglio e di rivalità.
Ma in che senso è vero anche il contrario, e cioè che i carismi custodiscono l’umiltà? Il fatto che abbiamo "doni diversi", significa che non tutti abbiamo tutti i doni; che non tutti sono apostoli, non tutti sono profeti e via dicendo. La conseguenza immediata è che ognuno di noi non è il tutto, ma solo e sempre un frammento. Dio solo è tutto. Solo la Chiesa possiede la pienezza dello Spirito (cf Ef 1, 23). È colpita, così, alla radice, l’autosufficienza. Il carisma, ci ripete San Paolo, è «una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune» (1 Cor 12, 7); è come il dettaglio in un quadro immenso.
La terza virtù (forse la prima per importanza) è la carità. Commentando la dottrina di Paolo sui carismi, S. Agostino fa una riflessione illuminante. Al sentire nominare tutti quei meravigliosi carismi (profezia, sapienza, discernimento, guarigioni, lingue),qualcuno, nota, potrebbe sentirsi triste ed escluso, perché pensa che lui non possiede nulla di tutto questo. Ma, attenzione, prosegue il santo: «Se ami, quello che possiedi non è poco. Se, infatti, tu ami l’unità, tutto ciò che in essa è posseduto da qualcuno, lo possiedi anche tu! Bandisci l’invidia e sarà tuo ciò che è mio, e se io bandisco l’invidia, è mio ciò che possiedi tu. L’invidia separa, la carità unisce. Soltanto l’occhio, nel corpo, ha la facoltà di vedere; ma è forse soltanto per se stesso che l’occhio vede? No, esso vede per la mano, per il piede e per tutte le membra… Soltanto la mano agisce nel corpo; essa però non agisce soltanto per se stessa, ma anche per l’occhio. Se sta per arrivare un colpo che ha di mira, non la mano, ma il volto, forse che la mano dice: "Non mi muovo perché, il colpo non è diretto a me?"» (Commento al vangelo di Giovanni, 32, 8).
Ecco svelato il segreto per cui la carità è «la via migliore di tutte» (1 Cor 12, 31): essa mi fa amare la Chiesa, o la comunità in cui vivo, e nell’unità tutti i carismi (non solo alcuni), sono "miei".
Terminiamo con questa bella preghiera allo Spirito distributore dei carismi, che si recita nell’Ufficio di Pentecoste nelle Chiese di rito siriaco:

Spirito che distribuisci a ciascuno i carismi;
Spirito di sapienza e di scienza, amante degli uomini,
che riempi i profeti, perfezioni gli apostoli,
fortifichi i martiri, ispiri l’insegnamento e i dottori!
É a te, Dio Paraclito,
che rivolgiamo la nostra supplica,
mista a questo incenso odoroso.
Ti chiediamo di rinnovarci con i tuoi santi doni,,
di posarti su di noi come sugli apostoli nel cenacolo.
Effondi su noi i tuoi carismi,
riempici della sapienza della tua dottrina;
fa di noi templi della tua gloria,
inebriaci con la bevanda della tua grazia.
Donaci di vivere per te, di consentire a te e di adorare te,
tu il puro, il santo, Dio Spirito Paraclito



DITO DELLA DESTRA DI DIO
Lo Spirito Santo ci trasmette la potenza di Dio

Tutte voi avete visto, almeno in riproduzione, l’affresco della creazione dell’uomo di Michelangelo Buonarroti nella Cappella Sistina in Vaticano: Dio Padre che stende il suo braccio destro e protende il suo dito divino fin quasi a toccare il dito di Adamo reclinato al suolo e rivolto verso di lui. Da una parte, tutto è energia e vita, dall’altra tutto è inerzia, abbandono e attesa. É un modo di rappresentare, nell’arte, il momento in cui, secondo la Bibbia, Dio "soffiò" in Adamo un alito di vita ed egli, da simulacro inerte di fango, divenne un essere vivente (cf Gn 2, 7). Quest’immagine è la migliore rappresentazione visiva che si possa dare del titolo «dito della destra di Dio» attribuito allo Spirito Santo. Dall’immagine dello Spirito soffio divino passiamo così all’immagine dello Spirito tocco di Dio. In questa meditazione vedremo come si è giunti a identificare quel dito proteso di Dio con la persona dello Spirito Santo ma, soprattutto, scopriremo come è possibile, se lo vogliamo, essere noi oggi quell’Adamo debole e "a terra" che protende il suo dito in attesa di ricevere da Dio energia e vita. C’è una profonda intuizione teologica in quest’immagine dello Spirito come tocco della destra di Dio. Vuole dire che lo Spirito Santo è il "luogo" in cui Dio incontra la creatura, in cui la Trinità si protende al di fuori di sé (ad extra); in cui Dio "esce" da se stesso per comunicarsi al mondo. Lo Spirito Santo è colui che rende possibile uno "spirituale contatto" col divino. Quest’idea assumerà la sua dimensione più profonda ed interiore nei mistici, che useranno l’immagine affettiva del «tocco beatissimo dello Spirito Santo»per indicare uno dei modi più forti di comunicarsi di Dio all’anima. Ma anche questa forma deriva dalla definizione biblica dello Spirito Santo come «dito di Dio».
Andiamo dunque alla scoperta del fondamento biblico e patristico di questo aspetto della rivelazione sullo Spirito Santo, racchiuso dall’autore del Veni creator nel titolo «dito della destra di Dio».

Se io scaccio i demoni con il dito di Dio
La designazione dello Spirito Santo come «dito di Dio» risale al detto di Gesù: «Se io scaccio i demoni con il dito di Dio, è dunque giunto a voi il regno di Dio» (Lc 11, 20).
In Matteo lo stesso detto viene riportato con una variante: «Se io scaccio i demoni per virtù dello Spirito di Dio…» (Mt 12, 28). Ci si domanda quale delle due formulazioni sia quella originaria usata da Gesù. Ci sono ragioni per sostenere l’una e l’altra versione. Quella di Luca sembra più probabile: è più facile, infatti, pensare che si sia sentito il bisogno di trasformare la designazione metaforica di «dito di Dio» in quella esplicita di «Spirito di Dio», che non il contrario. Ma questa piccola incertezza non toglie nulla all’importanza del testo. In questo modo non si fa che rendere esplicita l’equazione Spirito di Dio e dito (più spesso, mano) di Dio frequente nella Bibbia (cf Ez 3, 14; 8, 3). Con l’una e l’altra espressione si vuole indicare l’agire potente o il potere stesso di azione di Dio nel mondo. Gesù viene ad affermare che i suoi esorcismi sono compiuti nella potenza di Dio. Per indicare la potenza operativa divina, l’espressione «dito di Dio» è usata in Es 8, 19, dove i maghi d’Egitto, al vedere i prodigi compiuti da Mosè e Aronne, esclamano: «È il dito di Dio!» (Es 8, 15).
C’è un altro contesto in cui ricorre nella Bibbia la metafora del dito di Dio. È il passo in cui si dice che le tavole della legge date a Mosè sul Sinai furono «scritte dal dito di Dio» (Es 31, 18). Ma in questo caso l’identificazione del dito di Dio con lo Spirito di Dio fu più lenta. Geremia dirà che, nella Nuova Alleanza, Dio "scriverà" la sua legge nei cuori (31, 33); secondo Ezechiele questo consisterà nel fatto che Dio porrà il suo Spirito nel cuore dell’uomo (36, 26 s) e, finalmente, Paolo farà il passo successivo, definendo la comunità della Nuova Alleanza «una lettera di Cristo, scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra, ma sulle tavole di carne dei vostri cuori» (cf 2 Cor 3, 3). L’equazione tra Spirito di Dio e dito di Dio, in questo contesto della legge, divenne presto comune nella Chie­sa. Si legge in uno scritto del II secolo: «Mosè ricevette dal Signore le due tavole scritte, nello Spirito, dal dito della mano del Signore» e, in uno scritto più tardivo: «I comandamenti di Dio sono scritti sulla tela dell’anima e sulla tavoletta del cuore, dal dito di Dio, cioè lo Spirito Santo» (Lettera di Barnaba, 14, 2).
Nei Padri il tema del Paraclito «dito della mano di Dio» si sviluppa nel contesto delle discussioni trinitarie sulla natura divina dello Spirito Santo. Accenniamo a questo contesto, che spiega il posto che il titolo «dito della destra di Dio» occupa nel nostro inno.
Il titolo viene utilizzato per dimostrare l’unità di natura delle tre persone, più che la loro distinzione. Rabano Mauro, autore del nostro inno, scrive: «Nei Vangeli si dichiara apertamente che lo Spirito Santo è il dito di Dio… Inoltre, anche la legge fu scritta con il dito di Dio, cinquanta giorni dopo l’uccisione dell’agnello e cinquanta giorni dopo la passione di nostro Signore Gesù Cristo, venne lo Spirito Santo. Si chiama poi dito di Dio per significare la potenza operativa (operatoria virtus!) che egli ha in comune con il Padre e il Figlio. Per questo Paolo dice: "Tutte queste cose opera lo stesso identico Spirito, distribuendole ai singoli come vuole" (cf Eb 2, 4)» (Sull’universo, I, 3).

A un altro (viene concesso) il potere di fare miracoli
Il titolo «dito della destra di Dio» ci apre, dunque, uno squarcio su una particolare manifestazione dello Spirito carismatico nella storia della salvezza e nella Chiesa, quella che consiste nell’operare "segni e prodigi". Accanto ai doni legati alla parola o al governo, Paolo menziona un carisma particolare dello Spirito, che consiste nel «potere di fare miracoli (alla lettera, dynameis, opere di potenza)» (1 Cor 12, 10) e l’autore della Lettera agli Ebrei scrive che la salvezza operata dal Signore è stata confermata da Dio «con segni e prodigi e miracoli di ogni genere e doni dello Spirito Santo» (2, 4).
Questa prerogativa dello Spirito di essere operatore di prodigi è tra le più attestate nella vita di Gesù e in quella della primitiva comunità cristiana. Forse l’idea dominante che la gente si era fatta di Gesù durante la sua vita, più ancora che quella di un profeta, era quella di un operatore di miracoli. La parola che ricorre più spesso nel Vangelo per indicare questo è appunto quella di opere di potenza (dynameis). Gli Atti degli Apostoli descrivono Gesù come «un uomo accreditato da Dio […] per mezzo di miracoli, prodigi e segni» (2, 22). Gesù stesso presenta questo fatto come prova dell’autenticità messianica della sua missione: «I ciechi ricuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l’udito, i morti risuscitano» (Mt 11, 5). Gesù attribuisce la sua capacità di scacciare i demoni e operare miracoli alla presenza in lui dello Spirito Santo (cf Lc 4, 18) e questa fu anche, dopo di lui, la convinzione degli apostoli (cf At 10, 38 ss).
Dalla lettura degli Atti degli Apostoli appare chiara l’importanza che rivestono le «guarigioni, miracoli e prodigi» (4, 30) nella Chiesa nascente. La differenza è che ora tutte queste cose vengono attribuite allo Spirito di Gesù; vengono compiute nel nome di Cristo, non in nome proprio e per autorità propria, come avveniva in Gesù. Gesù non è solo il primo di una serie di operatori di prodigi o il loro modello, ma è il mediatore di tutto.

Perché il miracolo?
Che pensare di questo fenomeno, il miracolo, che ha accompagnato tutta la storia della salvezza e continua ad accompagnare oggi la vita della Chiesa? Anzitutto che esso è una manifestazione dello Spirito, non dunque qualcosa lasciato al nostro gusto o in potere della critica di accettare o meno. Fa parte di un atteggiamento di fede. Non, s’intende, l’accettare tutto ciò che viene spacciato per miracolo, ma almeno l’ammissione della possibilità ed esistenza del miracolo. La Scrittura, insieme coi racconti di miracoli, ci offre anche i criteri per giudicare della loro autenticità e del loro scopo nell’economia della salvezza.
Un brano, che si legge nel libro del profeta Isaia, ci aiuta meglio di tutto a cogliere lo "scopo" che il miracolo ha nei disegni di Dio. «Dice il Signore: "Poiché questo popolo si avvicina a me solo a parole e mi onora con le labbra, mentre il suo cuore è lontano da me e il culto che mi rendono è un imparaticcio di usi umani, perciò, eccomi, continuerò a operare meraviglie e prodigi con questo popolo; perirà la sapienza dei suoi sapienti e si eclisserà l’intelligenza dei suoi intelligenti"» (29, 13-14). Nelle intenzioni divine il miracolo serve, dunque, a spezzare la routine; impedisce che ci si adagi in una religiosità ritualistica e ripetitiva, che riduce tutto ad un «imparaticcio di usi umani». Produce soprassalti di coscienza, mantenendo vivo lo stupore, indispensabile nei rapporti con Dio. Il miracolo attuale aiuta a cogliere il miracolo abituale della vita e dell’essere, in cui siamo immersi e che sempre rischiamo di perdere di vista o di banalizzare. Nello stesso tempo esso serve anche a confondere «la sapienza dei sapienti», cioè a mettere in salutare crisi la pretesa della ragione di spiegare tutto e di rifiutare ciò che non può spiegare. Serve, dunque, ad elevare la qualità della religiosità.
Il miracolo nella Bibbia non è mai fine a se stesso; tanto meno deve servire a innalzare chi lo compie e a mettere in luce i suoi poteri straordinari. Esso, piuttosto, è incentivo e premio della fede. È un segno (così infatti lo chiama di preferenza Giovanni); deve servire ad elevare a un significato. Per questo Gesù si mostrò così rattristato quando, dopo aver moltiplicato i pani, si accorse che «non avevano capito il segno dei pani» (cf Mc 6,51; Mt 16, 5ss).
Il significato del miracolo appare ambiguo nel Vangelo stesso. È visto ora positivamente, ora negativamente: positivamente, quando è accolto con gratitudine e gioia e suscita fede in Cristo; negativamente, quando è richiesto o addirittura preteso, per credere. «Se non vedete segni e prodigi, voi non credete» (Gv 4, 48), «I Giudei chiedono i miracoli…» (1 Cor 1, 22).
La stessa ambiguità continua, sotto altra forma, nel mondo d’oggi. Da una parte c’è chi ricerca il miracolo a tutti i costi; è sempre a caccia di fatti straordinari, si ferma ad essi e alla loro utilità immediata, come quando cercavano Gesù perché avevano mangiato e si erano saziati e desideravano mangiare ancora. Sul versante opposto ci sono quelli che non fanno alcuno spazio a questo carisma dello Spirito nella vita della Chiesa; lo guardano, anzi, con un certo fastidio, come se si trattasse di una manifestazione deteriore di religiosità, senza accorgersi che, in tal modo, si pretende insegnare a Dio stesso quale sia la vera religiosità. Anche oggi il miracolo ha una funzione provvidenziale, se accolto con gratitudine da Dio, come segno del suo amore per noi e co­me incentivo a credere; diventa ambiguo, se ci si ferma a esso.
I miracoli impegnano solo i testimoni oculari diretti del fatto, mentre perdono la loro forza appena vengono riferiti da altri, perché a questo punto anch’essi diventano oggetto di fede, anziché di esperienza. Ma il cristianesimo ha bisogno, in ogni epoca, di mostrare nuovi segni e prodigi. E, difatti, lo Spirito non ha mai cessato di dare alla Chiesa questa prova, che i miracoli avvenivano e avvengono, ma che bisogna saperli riconoscere e per questo occorre almeno una certa disponibilità a credere.

Nel potere dello Spirito
Dopo questi chiarimenti sul retroterra biblico e patristico del titolo «dito della destra di Dio», è venuto il momento di aprirci alla possibilità di fare noi stessi l’esperienza di quel "tocco" dello Spirito di cui parlavo all’inizio.
Cosa ci aspettiamo da quel "tocco"? Il dono di operare, anche noi, miracoli, segni e prodigi? Questo non dipende da noi e neppure, anzi, ci è lecito chiederlo. Ci aspettiamo, piuttosto, di fare l’esperienza della «potenza dall’alto» (Lc 24, 49) promessa da Gesù ai suoi discepoli.
La Chiesa ha bisogno del tocco del dito di Dio per manifestare anche lei, nel suo operato, quel "potere" e quella "autorità" che Cristo emanava con la parola e con l’agire e che faceva esclamare ai presenti: «Da dove gli viene questa autorità? Da dove questi miracoli?» (cf Mc1, 27; Mt 13,54). Quando Gesù parlava o stendeva la sua mano succedeva sempre qualcosa: i sofferenti erano confortati, i prigionieri liberati, il demonio scacciato. Le sue non erano solo parole: c’era dentro il potere dello Spirito di Dio.
Oggi noi abbiamo bisogno di un potere e di un’efficacia soprannaturali nel nostro servizio al Regno, potere che Gesù ha promesso a chiare lettere ai suoi: «Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi» (cf At 1,8) e che quindi non può mancare nella Chiesa, se non per colpa nostra.
Il problema principale della Chiesa, in fondo, è lo stesso che, su un altro piano, ha il mondo: il problema energetico. Come assicurarsi l’energia necessaria per la vita? Dove attingere questa energia? Dal basso o dall’alto? Nel caso dell’energia fisica cercarla "dal basso" significa scavare pozzi, cercarla nel petrolio. Ma si sa che il petrolio non è inesauribile e comporta, tra l’altro, ogni sorta di inquinamento. Per questo si sta cercando ansiosamente di sostituirla con energia "dall’alto", quella solare. L’energia che arriva sulla terra sotto forma di luce è dodicimila volte superiore a quella derivante dal consumo mondiale di combustibile; i soli raggi solari che cadono sulle strade d’America contengono il doppio dell’energia prodotta da tutto il carbone e il petrolio bruciati ogni anno nel mondo intero. Non c’è proporzione tra le due fonti di energia: l’energia "celeste" è immensamente più potente di quella "terrestre".
Anche nel campo spirituale siamo davanti a una scelta: o cercare la nostra energia "dal basso", cioè in noi stessi, nelle nostre risorse di intelligenza o di intraprendenza; oppure cercarla "dall’alto", dal “sole di giustizia” che è il Cristo risorto e che si chiama Spirito Santo.
Nel mondo è in atto una corsa ansiosa per convertire le fonti di energia, per passare dal petrolio e dall’energia atomica, a quella solare, infinitamente più pulita e gratuita. La Chiesa ha continuamente bisogno della stessa "conversione".
Cosa bisogna fare per sperimentare il tocco di quel dito divino che all’inizio si protese verso Adamo? Quel dito, infatti, continua anche oggi a protendersi verso ogni membro del corpo di Cristo, per comunicargli l’energia che emana dal Risorto. Non comunica più solo forza di creazione, ma anche forza di redenzione. «Metti qua il tuo dito […], stendi la tua mano, e mettila nel mio costato» (Gv 20, 27), disse il Risorto a Tommaso. Egli mise il dito, stese la mano e ricevette, dal contatto con Cristo, una tale salutare "scossa" che tutti i suoi dubbi andarono in frantumi. É questo contatto pasquale che lo Spirito opera oggi nella Chiesa, perché Cristo "vive nello Spirito" e lo Spirito è la forza stessa del Risorto.
Al «dito di Dio», che si protende verso l’uomo per comunicargli la sua energia, deve corrispondere, come nel grandioso affresco di Michelangelo, il dito dell’uomo che si protende, nella fede, per riceverla.
Terminiamo, ripetendo la preghiera che la prima comunità cri­stiana rivolse a Dio in un momento di prova, per chiedergli di compiere "miracoli e prodigi" e che si concluse con una nuova ef­fusione dello Spirito, simile a quella di Pentecoste  (At 4,24-25.30):

Signore, tu che hai creato il cielo, la terra,
il mare e tutto ciò che è in essi,
tu che per mezzo dello Spirito Santo
dicesti per bocca del nostro padre, il tuo servo David:
«Perché si agitarono le genti
e i popoli tramarono cose vane?».
Stendi la mano
perché si compiano guarigioni,
miracoli e prodigi,
nel nome del tuo santo servo Gesù.

 

SOLENNE PROMESSA DEL PADRE
Lo Spirito Santo alimenta in noi la speranza

Lo Spirito "già" e "non ancora"
Il verso del Veni creator, sul quale ci accingiamo a riflettere in questa meditazione, è quello in cui ci si rivolge allo Spirito Santo con le parole: «Tu solenne promessa del Padre» (Tu rite promissum Patris). Il tema dello Spirito Santo come "promessa" non ebbe nessuno sviluppo nell’antichità. In compenso, la teologia biblica dei nostri giorni gli dà ampio rilievo. Il motivo è semplice: i Padri della Chiesa, in sintonia con la cultura greca in cui operavano, erano interessati ai titoli che toccavano l’essere, la natura, dello Spirito. “Promessa” non fa riferimento alla natura, quanto piuttosto alla storia; non all’essere, ma al divenire. Al contrario, il pensiero moderno, che è più interessato alla storia che alla natura delle cose, ha scoperto insospettate profondità nel nostro termine. La tensione promessa-compimento è al cuore del rapporto tra Antico e Nuovo Testamento, tra legge e grazia. Un termine che si rivela, dunque, ricco di possibilità per la comprensione del posto dello Spirito Santo nella storia della salvezza.
Come Gesù fu prima promesso nelle Scritture, poi manifestato secondo la carne e, infine, atteso nel suo ritorno finale, così lo Spirito un tempo «promesso dal Padre» (cf Lc 24, 49), fu dato a Pentecoste ed è ora di nuovo atteso e invocato «con gemiti e sospiri» dall’uomo e dall’intero creato che, avendone gustato le primizie, attendono la pienezza del suo dono, Come il regno di Dio è già presente in mezzo a noi ma non ancora pienamente realizzato, così è dello Spirito: egli è già effuso nel nostro cuore e tuttavia non ancora operante, se non sotto forma di piccola caparra (cf 2 Cor 1, 22).
In questo nostro spazio, che si stende dalla Pentecoste alla Parusia, lo Spirito è la forza che ci spinge in avanti, che ci mantiene in cammino, come pellegrini e forestieri; non ci permette di diventare un popolo "sedentario". Egli è colui che mette le ali alla nostra speranza. Di più: è il principio stesso e l’anima della nostra speranza. Scopriamo così che tra Spirito e speranza esiste un nesso non meno stretto di quello che c’è tra Spirito e carità.
Presentiamo brevemente i dati biblici e le riflessioni teologiche sullo Spirito "promessa del Padre" che ci permetteranno, in un secondo momento, di applicare, come di consueto, la verità raggiunta alla nostra vita spirituale.

Lo Spirito della promessa
Due autori ci parlano dello Spirito come promessa nel Nuovo Te­stamento: Luca e Paolo. È utile avere davanti, riuniti insieme, tutti i testi dove questo avviene.
«Io manderò su di voi la promessa del Padre mio» (Lc 24, 49). «Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere che si adempisse la promessa del Padre quella, disse, "che voi avete udito da me: Giovanni ha battezzato con acqua, voi invece sarete battezzati in Spirito Santo, fra non molti giorni"» (At 1, 4-5). «Innalzato pertanto alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo che egli aveva promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire» (At 2, 33). «Riceverete il dono dello Spirito Santo. Per voi infatti è la promessa e per i vostri figli e per tutti quelli che sono lontani, quanti ne chiamerà il Signore Dio nostro» (At 2, 38-39).
«… perché in Cristo Gesù la benedizione di Abramo passasse alle genti e noi ricevessimo la promessa dello Spirito mediante la fede» (Gal 3, 14). «In lui anche voi, dopo aver ascoltato la parola della verità, il vangelo della vostra salvezza e avere in esso creduto, avete ricevuto il suggello dello Spirito Santo che era stato promesso» (Ef 1, 13).
A che cosa si riferisce Luca quando chiama lo Spirito Santo: «promessa del Padre»? Dov’è che il Padre ha fatto questa promessa? Tutto l’Antico Testamento, si può dire, è una promessa dello Spirito. L’opera del Messia è costantemente presentata come culminante in una nuova universale effusione dello Spirito di Dio sulla terra. Il confronto con quello che Pietro dice il giorno di Pentecoste, mostra che Luca pensa, in particolare, alla profezia di Gioele: «Negli ultimi giorni, dice il Signore, io effonderò il mio Spirito sopra ogni persona» (At 2, 17; cf Gl 3, 1-5).
Ma non solo a essa. Come non pensare anche a ciò che si legge in altri profeti? «Ma infine sarà infuso in voi uno Spirito dall’alto» (Is 32, 15). «Spanderò il mio Spirito sulla tua discendenza» (Is 44, 3). «Porrò il mio Spirito dentro di voi» (Ez 36, 27).
Quanto al contenuto della promessa, Luca accentua l’aspetto carismatico del dono dello Spirito, in particolare la profezia. La promessa del Padre è "la potenza dall’alto", che renderà i discepoli capaci di portare la salvezza ai confini della terra. Ma non ignora gli aspetti più profondi, santificanti e salvifici, dell’azione dello Spirito, come la remissione dei peccati, il dono di una legge nuova e di una Nuova Alleanza.
Passando a quello che dice Paolo sullo Spirito come promessa, si entra in una prospettiva teologicamente molto più profonda. Egli enumera diversi oggetti della promessa: la giustifi­cazione, la filiazione divina, l’eredità. Ma l’oggetto per eccellenza della promessa è proprio lo Spirito Santo, che egli chiama ora «promessa dello Spirito» ora «Spirito della promessa». Due sono le idee nuove introdotte dall’Apostolo nel concetto di promessa. La prima è che la promessa di Dio non dipende dall’osservanza della legge, ma dalla fede e, dunque, dalla grazia. Dio non promette lo Spirito a chi osserva la legge, ma a chi crede in Cristo: «È per le opere della legge che avete ricevuto lo Spirito o per aver creduto alla predicazione? […] Se infatti l’eredità si ottenesse in base alla legge, non sarebbe più in base alla promessa» (Gal 3, 2.18). I cristiani sanno bene che è in seguito alla predicazione del Vangelo che essi hanno fatto l’esperienza nuova dello Spirito, non per essersi messi a osservare più fedelmente del solito la legge.
La seconda novità è, in certo senso, sconcertante. È come se Paolo improvvisamente gettasse acqua sul fuoco dicendo: «Ma la promessa non è ancora compiuta… almeno interamente!». Due concetti applicati allo Spirito Santo sono, a questo proposito, rivelatori: primizia (aparchè) e caparra (arrabón). Anche qui è utile avere davanti i testi in cui questi termini ricorrono a proposito dello Spirito Santo: «Anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente, aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo» (Rm 8, 23).
«È Dio stesso che ci conferma, insieme a voi, in Cristo, e ci ha conferito l’unzione, ci ha impresso il sigillo e ci ha dato la caparra dello Spirito nei nostri cuori» (2 Cor 1, 21-22). «E Dio che ci ha fatti per questo e ci ha dato la caparra dello Spirito» (2 Cor 5, 5). Che cosa ci dice l’Apostolo con queste espressioni? Che il compimento avvenuto in Cristo non ha esaurito la promessa. Noi «possediamo… aspettando», possediamo e aspettiamo. Proprio perché quello che possediamo non è ancora la pienezza, ma solo un anticipo, nasce in noi la speranza. Anzi, il desiderio, l’attesa e l’anelito si fanno ancora più intensi di prima, perché ora si sa cosa è lo Spirito. Avviene esattamente come per Cristo. La sua venuta ha compiuto tutte le promesse, ma non ha posto fine all’attesa. L’attesa è rilanciata, sotto forma di attesa del suo ritorno nella gloria. Per Paolo lo Spirito è, nello stesso tempo, realtà del mondo superiore divino e forza del mondo a venire.
Nel passaggio dalle primizie alla pienezza, le prime non saranno buttate via per far posto alla seconda; diventeranno, piuttosto, esse stesse pienezza. Conserveremo ciò che già possediamo e acquisteremo ciò che ancora non abbiamo. Sarà lo Spirito stesso che si espanderà in pienezza.
L’amore di Dio che quaggiù pregustiamo, grazie alla caparra dello Spirito, è della stessa qualità di quello che gusteremo nella vita eterna, non però della stessa intensità.
La stessa cosa si deve dire del possesso dello Spirito Santo. All’origine, la Pentecoste era la festa delle primizie, cioè il giorno in cui venivano offerte a Dio le primizie del raccolto. Ora essa è ancora la festa delle primizie, ma di quelle che Dio offre all’umanità nel suo Spirito. Si sono invertiti i ruoli del donatore e del beneficiario, in perfetto accordo con quello che avviene, in tutti i campi, nel passaggio dalla legge alla grazia.

Lo Spirito, futuro di Dio
Si diceva che l’epoca patristica non offre, a proposito dello Spirito come promessa, un contributo importante a causa del minore interesse che i Padri hanno per la prospettiva storica ed escatologica, rispetto a quella ontologica.
Che cosa manca, allora? Manca una riflessione su quello che lo Spirito Santo fa già ora, nel tempo, per spingere l’umanità verso il compimento; una riflessione sullo Spirito Santo come slancio, forza propulsiva del popolo di Dio in cammino verso la patria.
Lo Spirito spinge i credenti ad essere vigilanti e in attesa del ritorno di Cristo, insegnando alla Chiesa a dire «Vieni, Signore Ge­sù» (Ap 22, 20). Quando lo Spirito dice Marana-tha con la Chiesa, è come quando dice Abbà nel cuore del credente si fa voce della Chiesa.
Lo Spirito Santo è colui che mantiene la Chiesa protesa in avanti, verso il ritorno del Signore. E questo è appunto ciò che ha cercato di mettere in luce la riflessione biblica e teologica dei nostri giorni. La nuova esistenza suscitata dallo Spirito, si dice, è già l’inizio di una vita che si manifesterà pienamente solo quando si sarà stabilito il modo di esistenza non più osteggiato dalla carne. Lo Spirito non è solo promessa in senso statico, ma colui che fa percepire la possibilità della liberazione, che fa sentire come ancora più pe­santi e intollerabili le catene e spinge, perciò, ad infrangerle.
Paolo scrive che, avendo ricevuto le «primizie dello Spirito, gemiamo interiormente, aspettando la piena redenzione del nostro corpo»; anzi, «la creazione stessa attende con impazienza di essere liberata» (cf Rm 8, 19 ss). Ne deduciamo che lo Spirito Santo non rinnova la faccia della terra e non fa «nuove tutte le cose» (Ap 21, 5) solo nell’attimo finale, quando il tempo sarà sostituito dall’eternità, ma, misteriosamente, fin da ora.

Lo Spirito Santo ci fa abbondare nella speranza
Il titolo di «promessa del Padre» è inserito nella strofa del Veni creator nella quale si parla dello Spirito datore dei doni e dei carismi. Luca, negli Atti degli Apostoli, vede realizzata la «promessa del Padre» soprattutto nel dono pentecostale della profezia. Abbiamo visto, però, che Paolo ha dato a tale titolo un respiro più ampio, fino ad applicarlo a tutta quanta l’opera dello Spirito e, in primo luogo, alla sua opera salvifica e santificatrice. In questa luce vorrei mettere in evidenza ora il rapporto tra lo Spirito Santo e la virtù teologale della speranza.
Paolo fa risalire all’azione dello Spirito Santo ognuna delle tre virtù teologali. Scrive: «Noi infatti per virtù dello Spirito, attendiamo dalla fede la giustizia che è oggetto della speranza, poiché in Cristo Gesù non è la circoncisione che conta o la non circoncisione, ma la fede che opera per mez­zo della carità (Gal 5,5-6; cf Rom 5,5).
Lo Spirito Santo è la sorgente e la forza della nostra vita teologale. È per merito suo, in particolare, che possiamo "abbondare nella speranza": «Il Dio della speranza vi riempia di ogni gioia e pace nella fede, perché abbondiate nella speranza per la virtù dello Spirito Santo» (Rm 15, 13).
La speranza è stata chiamata talvolta la «parente povera» tra le virtù teologali. C’è stato, è vero, un momento di intensa riflessione sul tema della speranza, fino a dar luogo ad una vera e propria "teologia della speranza". Ma è mancata una riflessione sul rapporto tra speranza e Spirito Santo. Non si può comprendere la peculiarità della speranza cristiana se non la si vede nel suo rapporto intimo con lo Spirito Santo. È lui che fa la differenza tra la speranza e la virtù teologale della speranza. Le virtù teologali sono tali non solo perché hanno Dio come loro fine, ma anche perché hanno Dio come loro principio; Dio non è solo il loro oggetto, ma anche la loro causa.
Abbiamo bisogno di speranza per vivere e abbiamo bisogno di Spirito Santo per sperare! Credere, è stato detto, è facile; Dio risplende a tal punto nell’universo che è impossibile non vederlo! Anche amare è relativamente facile: siamo cosi infelici che non dovrebbe riuscirci difficile provare compassione gli uni per gli altri. Ma è sperare che è più difficile, perché quello che è più facile, quello a cui siamo inclinati è, invece, disperare. Chi ci aiuterà? Lo Spirito Santo! Con quale ragionamento? Nessuno! Con la sua semplice presenza, perché lui è in se stesso "Promessa". Qui sta la sua efficacia. Quando c’è lui, non si può fare a meno di sperare.
Uno dei pericoli del nostro cammino spirituale è quello di scoraggiarsi di fronte al ripetersi degli stessi peccati e all’apparentemente inutile succedersi di propositi e ricadute. La speranza ci salva! Essa ci dà la forza di ricominciare sempre da capo, di credere ogni volta che sarà la volta buona, della vera conversione. Così facendo, si commuove il cuore di Dio il quale verrà in nostro soccorso con la sua grazia.
Un altro grande ostacolo sul nostro cammino è la tribolazione. E anche di questo si viene a capo solo con la speranza, che è frutto dello Spirito Santo. «Noi ci vantiamo anche nelle tribolazioni, ben sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5, 3-5).
Lo Spirito Santo attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio, amati da lui e, così facendo, ci infonde la forza per non arrenderci di fronte alle contrarietà e alle croci.
Non ci dobbiamo accontentare di avere speranza solo per noi. Lo Spirito Santo vuole fare di noi dei seminatori di speranza. Non c’è dono più bello che diffondere in casa, in comunità, nella Chiesa locale e universale, speranza. Essa è come certi prodotti moderni che rigenerano l’aria, profumando tutto un ambiente.
C’è un bel testo sulla speranza nella Bibbia che parla di ali che spuntano a coloro che sperano:
«Anche i giovani faticano e si stancano, gli adulti inciampano e cadono; ma quanti sperano nel Signore riacquistano forza, mettono ali come aquile, corrono senza affannarsi, camminano senza stancarsi» (Is 40, 30-31).

Per voi è la promessa!
La parte pratica di questa meditazione sullo Spirito Santo è tutta contenuta nella parola che Pietro rivolse alla folla il gior­no di Pentecoste: «Per voi è la promessa e per quanti ne chiamerà il Signore Dio nostro!» (At 2, 39). Per voi è la promessa: si tratta di prendere coscienza che quel "voi" ora siamo "noi". Noi siamo quelli che il Signore ha chiamato al seguito di quei primi credenti; per noi è dunque «la promessa del Padre» dello Spirito Santo!
La cosa più importante, quando si tratta di una promessa, non è analizzarne i termini ma vederne il compimento, entrarne in possesso. E questo dipende da noi. Dopo la venuta di Cristo chiunque può presentarsi, a tutte le ore, ad esigere la promessa; anzi è atteso.
Nel secolo scorso la cristianità ha fatto, a ondate successive, l’esperienza di una effusione dello Spirito «sopra ogni uomo» (Gl 3, 1). Da essa sono sbocciati vari movimenti carismatici. La profezia di Gioele non è più una bella citazione fatta da Pietro nel suo discorso di Pentecoste, ma una realtà posta sotto i nostri occhi. Il soffio di Pentecoste circola di nuovo potentemente nella Chiesa e costituisce, in mezzo a tutte le immani difficoltà del momento nel proclamare la fede nell’opera della nuova evangelizzazione, la nostra più grande ragione di speranza.
Se per noi è la promessa, come si fa a ottenerla? Qui ci è di immenso conforto quello che Paolo ci ha detto circa la promessa. Lo "Spirito della promessa" non si ottiene per mezzo dell’osservanza della legge, ma per la fede. In altre parole, non dobbiamo aspettare di aver compiuto "ogni giustizia", di essere giunti ad un’osservanza perfetta di tutti i comandamenti, per sperare di ricevere anche noi una nuova Pentecoste. Dobbiamo piuttosto credere, aprirci a ricevere lo Spirito gratuitamente, come dono, non come debito. Gli apostoli non ricevettero lo Spirito perché erano diventati fervorosi, ma divennero fervorosi perché avevano ricevuto lo Spirito. Sarà proprio con l’aiuto dello Spirito che, dopo, saremo in grado di «mortificare le opere della carne» (cf Rm 8, 13). La cosa più importante, all’inizio, è la preghiera, perché il Padre dà lo Spirito Santo «a coloro che glielo chiedono» (Lc 11, 13). E nella preghiera lo Spirito Santo «viene in aiuto alla nostra debolezza […], intercedendo per noi con gemiti inesprimibili» (Rm 8, 26). Noi chiediamo lo Spirito Santo per mezzo dello stesso Spirito; chiediamo la pienezza per mezzo delle primizie.
Esiste, nella patristica greca (Didimo Alessandrino, Sulla Trinità, II, 1) un elogio dello Spirito Santo, che ri­chiama da vicino il Veni creator, non solo per l’afflato lirico, ma an­che per la varietà dei temi e dei titoli evocati, tra cui, in particolare, quelli di «promessa» e «caparra» dei beni futuri. Con tale ispirata dossologia del Paraclito preghiamo insieme:

Egli è il Nome divino, onnipotente e degno di ogni onore, che insieme con il Padre e il Figlio
è ricordato e glorificato. Egli santifica, vivifica e rende partecipi della luce celeste,
custodisce in tutti la perseveranza nella concordia; ha ispirato i profeti e gli apostoli,
ha dato ai martiri la forza di resistere alla crudeltà dei tiranni; rinnova e libera come Signore,
ci rende figli di Dio come Spirito di adozione; mette in fuga le schiere dei demoni
mediante l’illuminazione del battesimo e copre di ignominia Satana, l’avversario;
apre a noi le porte dei cieli e ci conduce al porto della salvezza;
ci fa partecipi della conversazione e del canto degli angeli; è per noi via che conduce al Padre
e Dio dei cieli grazie alla sua venuta sovranamente libera e generosa.
Egli è feconda e infinita potenza di salvezza,
incomparabile e santa ipostasi, che non ha dimensioni,
gloria purissima e incontaminata grazia divina, che supplisce la nostra debolezza,
bontà ineffabile ed eterna, sorgente inesauribile dei carismi,
fautore di ogni buon pensiero, colui che manifesta le cose future e nascoste,
sigillo di salvezza, unzione divina e caparra dei beni eterni.
Da lui ogni creatura visibile e invisibile, razionale e irrazionale,
riceve il sostegno; da lui la rigenerazione dall’alto,
la remissione delle colpe e il perdono dei peccati,
l’unione con Dio e la corona per i giusti,
il possesso dei beni e la dimora nei cieli,
la vita senza fine e l’eredità eterna nel regno di Dio.

 

TU PONI SULLE LABBRA LA PAROLA
Lo Spirito Santo dà forza al nostro annuncio

Spirito e parola
La strofa del Veni creator, che canta l’azione carismatica dello Spirito, si conclude con un verso che mette l’accento su un gruppo particolare di carismi: quelli legati alla parola: «tu poni sul labbro la parola» (sermone ditans guttura), più letteralmente: «tu doti la bocca di parola».
Lo spirito e la parola, la ruach e il dabar: sono le due grandi forze che insieme creano e muovono il mondo: «Dalla parola del Signore furono fatti i cieli, dal soffio della sua bocca ogni loro schiera» (Sal 33, 6). «La sua parola sarà una verga che percuoterà il violento; con il soffio delle sue labbra ucciderà l’empio» (Is 11,4).
I profeti stessi sono visti ora come gli uomini della parola, ora come gli uomini dello Spirito. Ora è la parola che "viene" su di essi e li costituisce profeti, ora è lo «Spirito del Signore» (Is 61, 1) che assolve lo stesso compito. «Il mio spirito che è sopra di te e le parole che ti ho messo in bocca non si allontaneranno dalla tua bocca» (Is 59, 21).
Queste due forze creatrici, nel nostro verso, sono messe in rapporto tra di loro, come due fari puntati uno sull’altro, che si illuminano a vicenda e. insieme. illuminano tutta la Rivelazione. Lo Spirito è colui che dona la parola e che è donato nella parola. C’è una reciprocità perfetta tra le due realtà, che ha le sue lontane radici nella Trinità stessa. Lo Spirito procede "attraverso" il Figlio, ma anche il Figlio è generato "nello" Spirito. Nella Rivelazione, lo Spirito ci dona la parola; infatti, «mossi da Spirito Santo parlarono quegli uomini da parte di Dio» (2 Pt 1, 21); ma poi è questa stessa parola, la Scrittura, che, letta con fede, dà lo Spirito Santo.
Nel momento dell’incarnazione lo Spirito Santo ci dà la vivente parola di Dio, che è Gesù, "concepito per opera dello Spirito Santo"; nel mistero pasquale è la Parola fatta carne che, dalla croce, effonde lo Spirito Santo sulla Chiesa.
Per l’autore del Veni creator, il momento in cui lo Spirito mette sul labbro la parola è la Pentecoste. È lì che si compie la «solenne promessa del Padre», di cui parlava il verso prece­dente e di cui il dono della parola è il segno visibile. Ma a che cosa ci si riferisce precisamente? Al parlare in lingue degli apostoli, appena ricevuto lo Spirito, cioè al dono della glossolalia? Certamente, ma non solo a questo. La prospettiva è molto più ampia. Il giorno di Pentecoste vi furono diverse manifestazioni dello Spirito legate alla sfera del linguaggio e del parlare umano. Gli apostoli «cominciarono a parlare in altre lingue come lo Spirito dava loro il potere di esprimersi» (At 2, 4); poco dopo è la profezia che è vista come compimento della promessa: «In quei giorni effonderò il mio Spirito ed essi profetizzeranno» (At 2, 18); il dono della parola è poi visibile nell’annuncio che Pietro fa di Cristo (cf At 2, 22 ss).
Nella Scrittura l’immagine di Dio, che pone sulla bocca di qualcuno le sue parole, è sempre legata alla profezia: «Io gli porrò in bocca le mie parole» (Dt 18, 18), dice Dio del profeta che succederà a Mosè; a Isaia e Geremia dichiara: «Ho posto sulla tua bocca le mie parole» (cf Is 51,16; Ger 1,9). Forse l’espressione: «tu poni sulla bocca la parola» riecheggia anche il detto evangelico in cui Gesù dice che lo Spirito Santo avrebbe dato ai discepoli, al momento opportuno, "una lingua e una sapienza" a cui gli avversari non avrebbero potuto resistere (cf Lc 12,12; 21,15).

Glossolalia e canto in lingue
Legato alla parola è la glossolalia, che Paolo chiama anche: «varietà delle lingue», «dono delle lingue»,o «parlare in lingue». É il dono sul quale Paolo ritorna con più insistenza, non perché più importante degli altri (viene, anzi, per lui all’ultimo posto tra i carismi), ma perché era quello che più aveva bisogno di essere disciplinato (cf 1 Cor 12-14).
In che consisteva e come si manifestava in concreto questo dono? Il dono si presenta in due forme: sotto forma di messaggi pronunciati nell’assemblea e sotto forma di preghiera personale prolungata, nell’ambito privato. In ogni caso, si tratta di suoni e parole non appartenenti di solito a nessuna lingua già esistente, ma creati sul momento. Chi parla in lingue non "sa" quello che dice anche se é consapevole del suo parlare; può iniziare e smettere, non è trascinato automaticamente.
Quando la cosa avviene nell’assemblea, il messaggio in lingue de­ve essere sempre seguito dalla interpretazione delle lingue, come la profezia doveva essere seguita dal discernimento. L’interprete non "traduce" quello che l’altro ha detto; piuttosto si sente spinto a dire qualcosa (un’esortazione, una parola della Scrittura…) che lui stesso e i presenti percepiscono come legata al messaggio in lingue, di cui esprime il senso globale.
Quelli che esercitano il dono della glossolalia nell’ambito della preghiera personale, sono unanimi nel riconoscere che esso apre la via ad una preghiera più profonda e ad un contatto con Dio più immediato, da cui traggono grandi benefici. A volte, serve a esprimere adorazione e lode, altre volte si traduce in un’intercessione potente. In essa, la persona che prega si apre a Dio, corpo, anima e spirito fusi insieme.
A volte lascia perplessi il fatto che si tratta di un fenomeno riscontrabile anche al di fuori del cristianesimo, in culti non cristiani. Ma questo vuol dire che il carisma poggia su una potenzialità religiosa insita nell’uomo, che lo Spirito Santo usa al modo suo, non al modo umano.
Tutti talora avvertiamo il desiderio di andare al di là dello schematismo delle parole e dei concetti. Questi costringono il nostro slancio espressivo a passare come attraverso a delle caselle e il moto del cuore ne risulta inevitabilmente irretito. A questo limite si sfugge in due modi: o col silenzio o con il trascendere le parole, che è ciò che avviene nella glossolalia. Detto questo però, è necessario anche oggi, come al tempo di Paolo, far seguire al "sì" un "ma"; mettere cioè in guardia dal pericolo di sopravvalutare il dono e dall’usarlo senza discernimento. Non possiamo fare a meno di notare che in Paolo si dice: «A un altro (viene data) la varietà delle lingue […]. Forse che tutti parlano in lingue?» (1 Cor 12, 10.30). Come non tutti sono apostoli e non tutti operano miracoli, così, per l’Apostolo, non tutti parlano in lingue. Fare di quest’unico carisma obbligatorio per tutti, significa dargli uno statuto speciale e toglierlo dal novero stesso dei carismi, che sono per definizione doni dati da Dio "a chi vuole e quando vuole", dati a uno per l’utilità di tutti. A chi dovesse chiedere: «Hai ricevuto lo Spirito, perché dunque non parli tutte le lingue?», rispondi tranquillamente con Agostino: «Certo che parlo tutte le lingue! Appartengo infatti, per la carità, a quel corpo, la Chiesa, che parla tutte le lingue e in ogni lingua proclama le grandezze di Dio» (Discorsi, 269, 2ss).
Insieme con il parlare in lingue, bisogna nominare anche il canto in lingue. Indica un cantare per ispirazione, senza parole o note prestabilite, ma modulando sul momento, sull’onda dell’impulso interiore dello Spirito, una sequenza di suoni. Paolo accenna spesso a questo cantare ispirato e carismatico: «Siate ricolmi di Spirito Santo, intrattenendovi a vicenda con salmi, inni e cantici spirituali, cantando e inneggiando al Signore con tutto il vostro cuore» (Ef 5, 18-19).
La migliore spiegazione della dinamica che porta al canto in lingue, è quella che ha illustrato Agostino: «"Canta nel giubilo" (Sal 33, 3). Che significa giubilare? Intendere senza poter spiegare a parole ciò che con il cuore si canta. Infatti, coloro che cantano, sia mentre mietono, sia mentre vendemmiano, sia quando sono occupati con ardore in qualche altra attività, incominciano per le parole dei canti a esultare di gioia, ma poi, quasi pervasi di tanta letizia da non poterla più esprimere a parole, lasciano cadere le sillabe delle parole e si abbandonano al suono del giubilo. Il giubilo è un certo suono che sta a indicare che il cuore vuole dare alla luce ciò che non può essere detto. E a chi conviene questo giubilo, se non a Dio ineffabile? Ineffabile, infatti, è ciò che non può essere detto; e se non puoi dirlo, ma neppure puoi tacerlo, che ti resta se non giubilare, in modo che il cuore si apra a una gioia senza parole e la gioia si dilati immensamente al di là dei limiti delle sillabe?» (Esposizione sui Salmi, 32, II, 8).
Ma con l’espressione «cantici spirituali», cioè ispirati dallo Spirito, Paolo non intende certamente solo il canto in lingue, ma ogni forma di canto dell’as­semblea cristiana, eseguito con fede e intima partecipazione. Per la sua "ispirazione", libertà, ritmo e armonia, il canto è forse il mezzo espressivo più "connaturale" allo Spirito Santo; certo, il più adeguato per parlare di Dio, o a Dio. Questo spiega perché il verbo "cantare", con i suoi derivati (canto, cantico, cantore) è tra le parole che ricorrono con maggior frequenza nella Bibbia (circa 309 volte nell’Antico Testamento e 36 nel Nuovo). Il canto intenerisce i cuori e li predispone ad accogliere la verità di Dio e la sua volontà. Agostino rievoca così l’effetto che ebbe su di lui, al momento della conversione, il canto sacro che si praticava a Milano, per iniziativa di S. Ambrogio: «Quante lacrime versate ascoltando gli accenti degli inni e dei cantici, che risuonavano dolcemente nella tua Chiesa! Che commozione profonda! Quegli accenti fluivano nelle mie orecchie e distillavano nel mio cuore la verità, eccitandovi un caldo sentimento di pietà» (Le Confessioni, IX, 6, 14).

Altri carismi legati alla parola
Come per l’autore degli Atti degli Apostoli, anche per Paolo, il posto d’onore, tra i carismi legati alla parola, è occupato, però, dalla profezia, che egli antepone con forza al parlare in lingue: «Aspirate pure anche ai doni dello Spirito, soprattutto alla profezia […]. Chi profetizza, parla agli uomini per loro edificazione, esortazione e conforto. Chi parla con il dono delle lingue edifica se stesso, chi profetizza edifica l’assemblea […]. Se tutti profetassero e sopraggiungesse qualche non credente o un non iniziato, verrebbe convinto del suo errore da tutti, giudicato da tutti; sarebbero manifestati i segreti del suo cuore, e così prostrandosi a terra adorerebbe Dio, proclamando che veramente Dio è fra voi» (1 Cor 14, 1-25).
Consisteva in parole ispirate che un membro della comunità si sentiva spinto a pronunciare durante un’assemblea. Quando Paolo ricorda a Timoteo le profezie fatte a suo riguardo (cf 1 Tm 1, 18), si riferisce probabilmente a questi messaggi ispirati, pronunciati mentre si pregava su Timoteo, in occasione del suo battesimo o della sua elezione episcopale e che rivelavano il disegno di Dio su di lui. Talmente forte era, in questi casi, il senso che fosse Dio stesso a parlare, che il profeta non aveva paura di usare formule come: «Dice il Signore…» oppure, ancora più coraggiosamente: «Io vi dico: "Io vi ho amato…"», dove però l’io non è quello di chi parla, ma di Dio in persona. Quando la profezia è autentica, l’assemblea percepisce in modo inequivocabile la presenza di Dio. Essa costringe a esclamare: «Qui c’è Dio!» o, se si tratta di un non credente: «Dio è fra voi!». La predilezione che l’Apostolo mostra per questo carisma è dovuta al fatto che esso serve più di ogni altro alla «edificazione» della comunità.
Ma il carisma della profezia deve essere accompagnato, nel suo esercizio, da quello del discernimento degli spiriti: «A un altro (viene dato) il dono della profezia; a un altro il dono di distinguere gli spiriti» (1 Cor 12, 10). Il discernimento ha assunto, nella storia della spiritualità cristiana, una molteplicità di significati e di applicazioni. Ma il suo senso originario, inteso da Paolo, sembra essere molto preciso e limitato. Riguarda la ricezione della profezia stessa e la sua valutazione da parte di uno o più membri dell’assemblea, anch’essi dotati di spirito profetico. Però non sulla base di un’analisi razionale, quanto di un’ispirazione dello stesso Spirito. Il senso di discernere (diakrisis) oscilla tra distinguere e interpretare: distinguere se a parlare è stato lo Spirito di Dio o uno spirito diverso (umano o diabolico); interpretare cosa lo Spirito ha voluto dire in una situazione concreta. A questo stesso dono del discernimento, si riferisce la nota raccomandazione: «Non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie; esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono. Astenetevi da ogni specie di male» (1 Ts 5, 19-22).
Un altro carisma legato alla parola è quello dell’ insegnamento (Rm 12, 7). Chi lo possiede riceve la qualifica di maestro (cf 1 Cor 12, 29; Ef 4, 11). A differenza della profezia, che indica una parola nuova di Dio, l’insegnamento indica, invece, la capacità di cogliere nuove implicazioni nella parola di Dio già conosciuta, sia dell’Antico Testamento come del Nuovo. Questo è il carisma che brilla, per esempio, nella migliore esegesi spirituale dei Padri. La differenza tra il linguaggio della scienza e il linguaggio della sapienza (1 Cor 12, 8), che pure paiono riferirsi all’insegnamento, consiste nel fatto che il primo si occupa delle verità elementari del cristianesimo e il secondo di quelle più alte.
Ho cercato di illustrare i carismi che sono più direttamente legati alla parola, perché è ad essi che il nostro inno si riferisce direttamente quando parla dello Spirito che «mette sulle labbra la parola». Il rapporto tra lo Spirito e la parola non si limita però all’ambito carismatico, ma si estende a tutti gli aspetti della, vita della Chiesa. Lo Spirito Santo mette sulla bocca dell’Agiografo la parola rivelata, ed è la Scrittura. Mette sulla bocca della Chiesa la parola di lode, ed è la liturgia. Mette sulla bocca dei Padri la parola di definizione, ed è il dogma. Mette sulla bocca dei Pastori la parola di insegnamento, ed è il magistero. Mette sulla bocca del Predicatore la parola: "Gesù è il Signore!", ed è l’evangelizzazione. Mette sulla bocca del Sacerdote le parole della consacrazione, ed è l’Eucaristia. Mette sulla bocca dei Figli il grido: "Abbà, Padre!", ed è la preghiera cristiana.

Apparvero loro lingue come di fuoco
C’è un elemento comune che unisce tutti i carismi che abbiamo ricordato: in tutti è lo Spirito Santo che si inserisce misteriosamente nel linguaggio umano, conferendo ad esso una qualità del tutto nuova.
Questo si realizza soprattutto quando si proclama il kerigma di Gesù Cristo morto e risorto "in Spirito e potenza". Che cosa avviene in questo caso? L’apostolo Paolo descrive benissimo questo fatto: «La mia parola e il mio messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza,, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio» (1 Cor 2,4-5). «Il nostro vangelo, infatti, non si è diffuso fra voi soltanto per mezzo della parola, ma anche con potenza e con Spirito Santo e con profonda convinzione, come ben sapete» (1 Ts 1, 5).
Quando è lo Spirito che mette sulle labbra una parola, gli effetti sono ben percepibili. L’ascoltatore è raggiunto in un punto dell’essere, dove non giunge nessun’altra voce; si sente "toccato". L’uomo e la sua voce, a questo punto, scompaiono per far posto ad un’altra voce, quella dello Spirito. Questo non avviene con la stessa intensità nel corso di un intero discorso o di una predica. Sono momenti. A Dio basta una frase, una parola. Annunciatore e ascoltatori hanno la sensazione come di gocce di fuoco che, a un certo punto, si mescolano alle parole del predicatore, rendendole incandescenti. Il fuoco è l’immagine che più perfettamente esprime la natura di quest’azione dello Spirito. Per questo a Pentecoste egli si manifestò sotto forma di «lingue come di fuoco che si dividevano e si posarono su ciascuno di loro» (At 2, 3).

Da Babele a Pentecoste
Tutto questo ci fa capire una cosa: abbiamo un estremo bisogno di far entrare il fuoco dello Spirito Santo in tutte le parole che escono dalla nostra bocca. Se no, saranno parole cariche magari di senso, ma vuote di potere; illuminano, ma non muovono. Parole "inutili". Gesù ha detto che : «Di ogni parola inutile gli uomini renderanno conto nel giorno del giudizio» (Mt 12, 36).
Si è sempre discusso cosa voglia dire la parola "inutile". Ma se leggiamo questo testo alla luce di quello parallelo sui falsi profeti (cf Mt 7, 15-20), forse si dissipa la sua oscurità. Il senso esatto del termine originale (argon) non è quello passivo di parola infondata, calunniosa, ma è quello attivo di parola inefficace, che non fonda nulla, non produce nulla. Esattamente l’opposto della parola di Dio che è definita energica, efficace (energes).
La parola "inutile", di cui gli uomini dovranno rendere conto, la parola vuota, puramente umana, pronunciata da colui che dovrebbe invece far risuonare le "energiche" parole di Dio, parole ispirate. È la parola del falso profeta, di colui che fa credere di parlare in nome di Dio e invece parla a nome suo; non attinge le parole dal cuore di Dio, ma dal suo. Per pronunciare parole efficaci, abbiamo bisogno dello Spirito Santo. Ma non occorre insistere molto sul fatto che, senza lo Spirito Santo, non ci può essere autentica proclamazione e missione; che senza di lui il nostro parlare, esortare, pregare, insegnare, predicare è sterile. Di questo siamo già, credo, tutti convinti. Dobbiamo piuttosto preoccuparci del problema pratico: come fare per consentire allo Spirito Santo di mettere davvero «sulla nostra bocca la parola»?
Una indicazione importante a questo riguardo la troviamo nel racconto stesso di Pentecoste. É risaputo che Luca ha voluto creare un contrasto tra Pentecoste e Babele. A Pentecoste avviene qualcosa che rovescia ciò che era avvenuto a Babele. Di qui la sua insistenza sul fatto delle lingue. A Babele tutti parlavano ancora la stessa lingua, eppure, ad un certo momento, nessuno capisce più l’altro; a Pentecoste tutti parlavano lingue diverse (Parti, Medi, Elamiti ecc.), eppure ognuno capisce l’altro. Come mai? Gli uomini di Babele si accinsero alla costruzione della torre, dicendosi l’un l’altro: «Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra» (Gn 11, 4). Essi vogliono "farsi un nome", sono animati da volontà di potenza e di auto-affermazione. Ora passiamo a Pentecoste. Come mai tutti li comprendono? La risposta è in ciò che notano i presenti: «Li udiamo annunziare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio» (At 2, 11). Tutti comprendono gli apostoli, perché essi non parlano di se stessi, ma di Dio. Non pensano a farsi un nome, ma a farlo a Dio. Se un tempo discutevano tra loro chi fosse il più grande, ora non più. É avvenuta la grande conversione: dall’io a Dio. Per questo lo Spirito può mettere sulla loro bocca la parola. Lo Spirito non può diventare complice della nostra vanità e non può mettere la sua potenza a servizio della nostra ambizione.
La lode entusiasta di Dio, l’ammirazione, lo stupore di fronte alle sue opere è uno dei segni più chiari che lo Spirito di Dio ha visitato l’anima dell’uomo. Maria, ricevuto lo Spirito Santo e la potenza dell’Altissimo, intona il Magnificat. La Chiesa, ricevuta la potenza dall’alto a Pentecoste, fa lo stesso. Le "grandi opere" di Dio che gli apostoli proclamano, richiamano da vicino le "grandi cose" cantate da Maria (cf Lc 1, 49).
Babele e Pentecoste sono due cantieri tuttora aperti nella storia. Nel mondo sono in costruzione due città: la città di Babilonia, fondata sull’amore di sé spinto fino al disprezzo di Dio, e la città di Dio, la Gerusalemme nuova, fondata sull’amore di Dio spinto fino al disprezzo di sé. Ognuno è chiamato a scegliere in quale dei due cantieri vuole operare. Ogni iniziativa pastorale, ogni missione, ogni impresa religiosa, anche la più santa, può essere o Babele o Pentecoste. È Babele se uno cerca in essa la propria affermazione, di farsi con essa un nome; è Pentecoste se cerca con essa la gloria di Dio e l’avvento del suo regno.
É un’indicazione anche per noi oggi. Se vogliamo che lo Spirito metta sulle nostre labbra la parola, dobbiamo vivere in questo costante atteggiamento di morte alla propria gloria e di ricerca della gloria di Dio.
Terminiamo facendo nostra questa bella preghiera di Gregorio di Narek, mistico armeno vissuto all’inizio del secondo millennio:

Io supplico la tua immutabile e onnipotente sovranità,
o Spirito potente: invia la rugiada della tua soavità.
Tu che consacri gli apostoli, ispiri i profeti, istruisci i dottori,
che fai parlare i muti e apri gli orecchi ai sordi,
dona anche a me, peccatore, la grazia di parlare con sicurezza
del mistero vivificante della buona novella del vangelo.

Nel momento in cui mi accingo ad esporre in pubblico la tua parola,
che la tua misericordia mi preceda
e mi suggerisca interiormente, al momento giusto,
ciò che è degno, utile e gradito a te,
a gloria e lode della tua divinità,
e per la piena edificazione della Chiesa cattolica.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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