Chi si consacra a Dio non dimentichi il galateo
di GIUSEPPE COLOMBERO
Il concilio Vaticano II Icome tutti i documenti del Magistero riservano inusitata rilevanza alle virtù naturali. Di grande importanza, per un sacerdote o religioso, è la capacità di avere relazioni corrette con gli altri. La ricchezza di umanità incide sull’evangelizzazione e sull’azione pastorale. Osservando le buone maniere si è già metà santi e sicuramente più accetti ai fedeli. Quali sono le qualità necessarie per la costruzione di personalità forti, equilibrate e libere.
Chi parla oggi delle piccole virtù, quelle dimesse, dai nomi comuni, direi casalinghi, che non circolano con abiti firmati, e tuttavia sono preziosissime per i nostri rapporti quotidiani, e per quell’evento comunicativo, spesso tanto laborioso ed elaborato, che è il capirsi? Non si fa fatica a incontrare sacerdoti, in qualche casa di spiritualità, che offrano edificanti meditazioni sulla preghiera, sulla liturgia, sulla Sacra Scrittura. Ma dove si trova il sacerdote, la religiosa o il laico che, senza timore di dire cose ovvie, proponga una riflessione sull’importanza di alcuni aspetti del comportamento, quali, per citarne alcuni, il buon garbo, il rispetto, la delicatezza, la cordialità, l’attenzione premurosa?
Quando si parla a religiosi o religiose si ha sempre il timore di non menzionare abbastanza il nome di Dio, e così il più delle volte si finisce per non parlare affatto dell’umano. Si ha paura di non apparire abbastanza spirituali o ecclesiastici. Effettivamente c’è il pericolo di un naturalismo chiuso in sé stesso, autosufficiente, ma c’è pure il rischio di non tenere i piedi per terra, di un soprannaturalismo per extraterrestri, sradicato dalla realtà mondana in cui ci muoviamo e viviamo. L’esistenza di una certa dialettica tra i due ambiti o mondi, tra quello naturale e quello soprannaturale, addirittura circa i loro rispettivi confini e definizioni, è un dato innegabile nella storia della teologia.
Eppure le qualità umane di un sacerdote o di una suora sono le prime a essere notate, come il vestito, e parlano un lessico che comprendiamo tutti, immediatamente. È l’umanità che manca nella nostra società, e quando la si incontra, ci si ferma, attratti dal richiamo di qualcosa che appartiene al fondo della nostra natura. Sono convinto che se noi osservassimo le buone maniere del galateo, saremmo già metà santi. Sicuramente saremmo meglio accetti ai fedeli, più ascoltati e seguiti, e anche più amati.
Tra i testi di teologia morale di un tempo, vi era un trattatello intitolato De virtutibus. Poco più di un opuscolo. Generalmente non veniva svolto a scuola, o per mancanza di tempo o perché ritenuto di secondaria importanza. Il suo studio era lasciato alla benevola discrezionalità degli studenti. Trattava delle tre virtù teologali o infuse, delle quattro virtù cardinali e dei peccati contro di esse. Il tutto era proiettato sulla dimensione verticale del comportamento virtuoso, sia perché la fede, la speranza e la carità, come modi di rispondere all’autocomunicarsi di Dio alla creatura, hanno lui come contenuto e oggetto, sia perché la condotta del credente dev’essere degna della sua fede religiosa e del suo stato di figlio di Dio.
Il concilio Vaticano II conserva integra la dottrina sulle virtù teologali, ma mette in risalto anche la dimensione sociale dell’assetto delle virtù, ricuperando il loro aspetto relazionale e richiamando all’attenzione virtù dimenticate che, proprio per il loro carattere dialogico, vengono ad assumere particolare rilievo. L’uomo è virtuoso non solo quando compie atti di fede o di temperanza, ma quando è solidale con i suoi simili, quando condivide con loro «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce» (Gaudium et spes n. 1), soprattutto la fatica di costruire una società migliore.
Essere solidale non significa solo offrire solidarietà ai membri del gruppo cui si appartiene, fonte spesso di conflitti con altri gruppi; e neppure coincide con le forme di solidarietà delegate alle istituzioni e trasformate in meccanica erogazione di servizi. Significa apertura sincera e fattiva a tutti, quell’apertura che dà al termine altro, nella logica dell’interdipendenza, il senso ampio e bello di tutti noi. Nella società attuale, basata sulla differenziazione dei ruoli, la complementarietà delle competenze e la collaborazione, sono indispensabili, e sono pure il modo più razionale di organizzare l’esistenza e il lavoro in vista dell’efficienza. Una morale che tenesse conto esclusivamente della formazione dell’individuo in quanto individuo, e massimalizzasse la sua autorealizzazione, ignorando il suo inserimento nel tessuto sociale, sarebbe una morale teorica, astratta dalla realtà. Noi abbiamo un’identità individuale e un’identità sociale, dobbiamo formare sia l’una che l’altra, imparare a vivere bene su entrambi i versanti del nostro io, quello che dà verso l’intimo di noi stessi e quello che dà verso gli altri. Dobbiamo saper stare bene con noi stessi e con gli altri, amare il silenzio e la parola, la solitudine e la gente.
In un discorso etico è classica la domanda: a che cosa mira la morale? Vuole formare l’individuo ai valori e avviarlo verso la perfezione, o indicargli dove sta la felicità? Come se educarsi ai valori, alle norme ideali della vita, equivalesse a precludersi di essere felici. La risposta corretta sta altrove: la morale mira a formare l’individuo alla solidarietà, vuole insegnargli a stare con gli altri nella maniera migliore possibile, condurlo dallo stadio della dipendenza, proprio dell’infanzia, dall’autonomia utopica, lievemente allucinatoria dell’adolescenza, alla presa di coscienza dell’interdipendenza, quale suo vero modo di essere, dove ognuno per realizzare sé stesso ha bisogno del contributo degli altri. Tutto ciò che educa l’uomo alla socialità, alla comunicatività in senso completo, tutto ciò che lo aiuta ad abbandonare l’individualismo egocentrico e ad aprirsi a relazioni sociocentriche, entra a pieno titolo nella filosofia o teologia morale.
Nei documenti del Vaticano II vi sono alcuni passaggi divenuti emblematici nei quali le virtù umane o naturali hanno un’inusitata rilevanza, passaggi ai quali, come vedremo in seguito, attingeranno abbondantemente documenti posteriori del Magistero. Ne cito alcuni. Nel decreto Optatam totius, a proposito della formazione dei giovani al sacerdozio, si legge: «Si osservino diligentemente le norme dell’educazione cristiana. Pertanto si coltivi negli alunni la necessaria maturità umana, comprovata nella fermezza d’animo, nel saper prendere decisioni ponderate, nel retto modo di giudicare uomini ed eventi. Gli alunni si abituino a perfezionare come si deve la propria indole, siano formati alla fortezza d’animo, e a tutte quelle virtù che sono tenute in gran conto tra gli uomini, e rendono accetto il ministro di Cristo, quali la sincerità d’animo, il rispetto della giustizia, la fedeltà alla parola data, la gentilezza del tratto, la discrezione, la carità nel conversare… La vita del seminario educhi al dominio di sé, al pieno sviluppo della personalità e alla formazione delle altre disposizioni d’animo che giovano moltissimo a rendere fruttuosa l’attività del sacerdote. Mentre si abituano gradualmente al dominio di sé, imparino a fare buon uso della libertà, a sviluppare lo spirito d’iniziativa e a collaborare con i confratelli e con i laici» (n. 11).
I laici «chiamati da Dio a esercitare nel mondo l’apostolato loro proprio, tengano in gran conto la competenza professionale, il senso della famiglia, il senso civico, le virtù che riguardano i rapporti sociali, cioè la probità, lo spirito di giustizia, la sincerità, la cortesia, la fortezza d’animo, virtù senza le quali non può esserci vera vita cristiana» (Apostolicam actuositatem, 4).
Questo elenco di virtù viene ulteriormente arricchito per coloro che si preparano all’apostolato missionario. Gli aspiranti missionari debbono imparare a essere risoluti, costanti, perseveranti nelle difficoltà, pazienti e forti nel sopportare la solitudine, la stanchezza, la sterilità nella propria fatica. Debbono addestrarsi ad andare incontro agli uomini con mente aperta e cuore largo, adattarsi coraggiosamente alla diversità di costume dei popoli e al mutare delle situazioni. Il missionario dev’essere uomo di preghiera, ardente per spirito di virtù, di amore e di sobrietà; deve imparare a essere contento delle condizioni in cui si trova, a saper spendere volentieri del suo, anzi tutto sé stesso per la salvezza di coloro ai quali è stato mandato (Cf AG 25).
Sono indicazioni più che sufficienti per delineare quell’”uomo perfetto” giunto o che si propone di giungere «alla misura della piena statura del Cristo» (Ef 4,13), che Paolo indica come ideale agli Efesini, quel Gesù nel quale vediamo «la più assoluta, genuina e perfetta espressione di umanità, che ha voluto conoscere la gioia e la sofferenza, sperimentare la fatica, spartire le emozioni, consolare la pena, partecipare a un banchetto di nozze, commuoversi, piangere per la morte di un amico» o il destino della sua patria (Pastores dabo vobis n. 72).
I documenti successivi del Magistero ecclesiastico si richiamano costantemente a questi passi dei decreti conciliari per ribadire che «senza un’adeguata formazione umana l’intera formazione sacerdotale sarebbe priva del suo necessario fondamento». L’esortazione Pastores dabo vobis si sofferma a lungo su questo aspetto. In particolare, nel bellissimo n. 43, elenca «una serie di qualità umane necessarie alla costruzione di personalità equilibrate, forti e libere: l’amore per la verità, la lealtà, il rispetto per ogni persona, il senso della giustizia, la fedeltà alla parola data, la vera compassione, la coerenza, l’equilibrio.
«Di particolare importanza», sottolinea, «è la capacità di relazione con gli altri, elemento veramente essenziale per chi è chiamato a essere uomo di comunione. Ciò esige che il sacerdote non sia arrogante né litigioso, ma sia affabile, ospitale, sincero nelle parole e nel cuore, prudente e discreto, generoso e disponibile, capace di offrire e di suscitare negli altri, rapporti schietti e fraterni, pronto a comprendere, perdonare e consolare» (n. 43).
È facile immaginare quanto la persona di un religioso o di una religiosa sarebbe suggestiva e credibile se possedesse queste doti umane e cristiane. Ci si innamora dei modelli assai più che delle ideologie. L’umanità ricca e schietta di un religioso è di per sé evangelizzante, nel senso che rivela il Vangelo, in particolare quello vivente che è Cristo, nel quale, chi crede e chi non crede, vede l’incarnazione della bontà.
È significativo il fatto che un religioso/a che possegga ricchezza di umanità, la gente lo chiami santo, aggettivo che attribuisce all’uomo e alla donna nei quali scorge un riflesso della bontà di Dio, il Bene per eccellenza. L’annuncio dell’evento di Cristo, come ogni proposta di valori, di qualsiasi genere, viene mediato da quella sorta di corporeità che è il comportamento di chi lo propone. Per esempio, il modo di fare di un insegnante, la sua capacità o arte di saper prendere gli alunni, di ascoltarli, di stare con loro, ha un’incidenza determinante per il risultato del suo insegnamento.
Si aggiunga il fatto che verso i religiosi e le persone consacrate, in genere, i laici, credenti e non credenti, avanzano attese esigenti, perché li ritengono in possesso di una migliore formazione, di una più chiara e forte motivazione, di una maggiore capacità di autoanalisi e autocontrollo. Di conseguenza le loro carenze nell’area della socialità e dello stare insieme destano sorpresa e scandalo. La scelta della vita consacrata deve dimostrare che è stata utile, in primo luogo, per la formazione del comportamento e dei rapporti umani, per quel lungo e laborioso processo che è il divenire persone educate, nel significato più ampio, persone che sanno vivere e convivere, amare e farsi amare. «È necessario quindi che il sacerdote rifletta sul suo comportamento sociale, sulla correttezza delle sue relazioni umane, sui valori dell’amicizia, sulla signorilità del tratto» (Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri, n. 75). Riflettere: perché da una certa età in avanti, ogni processo di formazione ha inizio dalla revisione e comporta cambiamento. E non è un processo indolore. Il viaggio più lungo è quello che conduce a colui che ci prefiggiamo di divenire.
Si sarà notato che i passi riportati non contengono elementi dottrinali, ma indicazioni di comportamento estremamente pratiche. Non si accenna a verità dogmatiche, ma a regole di vita quotidiana, suggeriscono cioè, con esemplare aderenza alla realtà, come stare tra e con gli altri, per dare luogo a convivenze piacevoli e arricchenti. Nella conclusione della circolare della Congregazione per il clero, Il presbitero, maestro della Parola, ministro dei Sacramenti e guida della comunità cristiana, vi è un ultimo richiamo al sacerdote, suggestivo e avvincente per come scende nei particolari, nelle minuzie della sua vita e del suo ministero: «I fedeli della parrocchia vedono e osservano, sentono e ascoltano, non solo quando si predica la parola di Dio, ma anche quando vengono ricevuti nell’ufficio parrocchiale, in cui si attendono modi accoglienti e amabili; quando vedono il sacerdote che mangia o riposa, e rimangono edificati del suo esempio di sobrietà e di temperanza; quando lo vanno a trovare in casa e si rallegrano della semplicità e povertà sacerdotale in cui vive; quando lo vedono vestire con proprietà, ordine e completezza il suo abito proprio, quando parlano con lui anche degli argomenti più comuni, e si sentono confortati nel comprovare la sua visione soprannaturale, la sua delicatezza e il suo stile umano, come tratta anche le persone più umili con autentica sacerdotale nobiltà. Allora la grazia dell’altare si dilata, la sua messa si spande». Si può migliorare il proprio ministero, la propria presenza nella comunità parrocchiale, regalando un sorriso, un saluto, una parola, una stretta di mano, cose che non costano nulla, ma riempiono i cuori e la vita.
Il nostro lessico quotidiano è composto di gesti semplici che la testa e il cuore caricano di messaggi, come sa fare l’amore che dice cose grandi con parole comunissime. Noi ci esprimiamo così, è nella nostra natura, nel nostro modo di stare insieme, dove tutto è piccolo. Dobbiamo saper tradurre il grande nel piccolo, e non aver paura di vedere il piccolo come luogo d’incarnazione del grande. È su queste coordinate che va cercata la bussola per il nostro comportamento di umani e di consacrati. Urge un distillato di piccole virtù, un vademecum di saggezza spicciola, che nasce dalla vita di tutti i giorni, e che ci accompagna dal “Buon giorno” del mattino alla “Buona notte” della sera. Ciò che allieta un incontro o lo sciupa, ciò che lo fa desiderare o temere, ci attende lì.
È opportuno che ognuno si compili questo piccolo breviario di virtù, quelle più indicate per il contesto della sua vita quotidiana e la rete delle sue relazioni, e lo tenga presente, lo impari a memoria, come una preghiera, pronunciando a sé stesso i nomi, disadorni e lirici, di queste virtù: amore, rispetto, buon garbo, senso della misura nello scherzare, uso appropriato delle parole e del silenzio, delicatezza, signorilità, affabilità, mitezza, cordialità sincera e non di facciata, amorevolezza, attenzione premurosa che legge nell’animo del tu e lo previene. Pronunciare questi nomi adagio, assaporandoli con il proprio palatum cordis, come le parole più saporose della vita, perché la mente abbia modo e tempo di coglierne tutto il contenuto. Questa è un’efficacissima tecnica di apprendimento, nel caso nostro, una tecnica autoeducativa o formativa. Le parole che pronunciamo provengono dalla nostra verità, ma nello stesso tempo la costruiscono, nel bene o nel male, perché ci ritornano con il loro carico di significati e di scenari. I primi uditori e discepoli delle parole che pronunciamo siamo noi.
I nomi di queste virtù che ci si prefigge di acquisire o di consolidare, si possono anche pronunciare rivolti a colui che ha detto: «Imparate da me che sono mite e umile di cuore», il Maestro interiore che ci insegna da dentro dove sta la giustizia e l’ingiustizia. Allora diventano vocazione e preghiera. La visione della (delle) virtù come ultimum potentiae, secondo la definizione di san Tommaso, mutuata da Aristotele, l’espressione più alta di ciò che l’uomo può divenire e di quanto possa chiedere a sé stesso, si sposa con l’invito di Gesù a essere perfetti come il Padre celeste. Se queste parole di Gesù hanno un senso, possiamo ben chiedergli di lasciar cadere sul nostro cuore alcune gocce della bontà del suo cuore.
Giuseppe Colombero