Distacco persone e cose

 

La promessa dello Spirito Santo

Dal brano del Vangelo di S. Giovanni: 16, 5-7

  1. «…At nunc vado ad eum, qui me misit, et
  2. nemo ex vobis interrogat me: "Quo vadis ? "…».
  3. «Expedit vobis, ut ego vadam. Si enim non abiero Paraclitus non adveniet ad vos, si enim abiero, mittam eum ad vos».

DISTACCO DA PERSONE E COSE DI QUESTO MONDO

«Io vado a Colui che mi ha mandato – dice Gesù Cristo ai suoi discepoli – e nessuno di voi si mostra desideroso di sapere dove io vada. Il vostro cuore si è riempito di tristezza e di malinconia forse perché vi ho detto che per poco tempo rimarrò ancora con voi, dovendo ormai ritornare al Padre mio e che dopo la mia partenza dal mondo voi sarete, per causa mia, sottoposti a mille persecuzioni, contrarietà e travagli? Ma io vi dico la verità, vi parlo schiettamente: conviene a voi che io me ne vada, perché se resterò qui in vostra compagnia, non verrà a voi lo Spirito Consolatore. Se invece andrò al Cielo, lo manderò sopra di voi».

Ma perché, o buon Gesù, non verrà sopra i vostri Apostoli lo Spirito Santo se voi rimarrete quaggiù sulla terra con loro? Non potete voi far scendere dal cielo il vostro divino Spirito sebbene non siate ancora giunto lassù alla destra del Padre? Sì, Gesù lo potrebbe e chi ne dubita? Se egli lo fece scendere sulle acque del Giordano in forma di colomba quando volle essere battezzato dal suo precursore S. Giovanni Battista, potrebbe donarlo anche ora ai suoi Apostoli pienamente, quantunque non ancora partito dal mondo e ritornato al Padre.

Nonostante ciò lo Spirito Consolatore non verrà sopra gli Apostoli, dice S. Agostino, fino a che non sia partito da loro il divino Maestro. Sapete perché? «Perché – dice il santo Dottore – gli Apostoli erano troppo attaccati alla persona di Gesù Cristo, lo amavano con un amore troppo umano e sensibile, più per il piacere che provavano nello stare in sua compagnia che per i suoi pregi e le sue divine perfezioni. Con un amore così imperfetto ed interessato non potevano ricevere gli altissimi doni dello Spirito Santo». «Se non me ne andrò, non verrà a voi il Paraclito». Da questa lezione evangelica noi dobbiamo imparare, o mie Suore, a distaccare il cuore da tutte le cose sensibili di quaggiù, perché l’eccessivo attaccamento per i beni e i piaceri della vita presente è appunto il grande motivo per cui Iddio non ci concede tante grazie e tanti particolari favori che ci accorderebbe se non vedesse in noi ostacolo alcuno per conseguirli. State ora attente e lo vedremo con tutta la possibile chiarezza.

Dio ha creato tutte le cose per Sé e vuole che tutte servano a Lui nel modo e nella maniera da Lui stabilita per ciascuna di esse. Di tutte queste cose terrene, tuttavia, per sua divina bontà ne fece padrone l’uomo e di tutte gli diede il possesso nel Paradiso terrestre, quando disse ad Adamo: «Dominerai sui pesci del mare, sui volatili e sugli animali che si muovono sulla terra», però gli pose una condizione: che tutti gli dovessero servire solo come mezzo per conseguire più facilmente e perfettamente il fine della sua vita, cioè lodare e benedire Lui, suo creatore, e salvare l’anima propria.

Essendo quindi i beni terreni a noi dati per conseguire tale fine, non dobbiamo porre in essi il nostro cuore, ma servircene solo tanto quanto possono condurci a Dio, e privarcene sempre quando da Dio ci distraggono e ci allontanano.

Ora, ditemi un po’ mie Suore, vi pare che si faccia proprio così, non dirò da tutti i cristiani di oggi, ma da tutte le persone timorate di Dio e devote? Le persone religiose si servono delle cose terrene e sensibili solamente come di mezzi per tendere più efficacemente al conseguimento del proprio fine supremo? Quante se ne trovano, fra queste, di quelle le quali, quasi dimenticandosi di essere state fatte per Dio e, di conseguenza, per amare Lui solo di tutto cuore, in Lui solo riporre ogni speranza, a Lui solo rivolgere tutti i pensieri della mente e tutti gli affetti del cuore, vanno invece cercando la felicità nei beni transitori di questa misera vita trascurando quella gioia, quella pace, quel riposo, quella felicità a cui tutti anelano e che non può trovarsi se non in Dio? Costoro, allettate da quelle piccole scintille di bene che Dio, fonte inesausta di ogni bontà, sparge e diffonde nelle sue creature, convertono i mezzi in «fine», ponendo nelle creature quegli affetti e quell’amore che si dovrebbero nutrire solo per il Creatore e, per godere di quelle, trascurano di avanzare con sollecitudine verso il Dio di ogni bene.

Le anime che, simili all’incauta farfalla sedotta dallo splendore del lume, o ai pesci del mare ingannati dall’esca lusinghiera, oppure agli uccelletti dell’aria attratti dal cibo insidiosamente esposto dal cacciatore, ingannate e deluse dai piaceri apparenti di questa vita, cambiano il cielo con la terra, il Creatore con la creatura, l’amor di Dio con l’amor proprio, sono quelle che vogliono farsi sante, ma a modo loro; vogliono amare Gesù Cristo, ma secondo il loro modo di vedere, senza, cioè, rinunciare a quei passatempi, a quelle vanità e a quelle leggerezze nel trattare e nel conversare; a quei cibi più gustosi e delicati, a quella piacevole compagnia, e via discorrendo.

Costoro sono quelle che amano Dio ma, se non giungono fin dove il loro desiderio le sospinge, vivono inquiete, diventano di cattivo umore e, se si vedono contraddette nei loro desideri da chi le governa e le dirige, si sentono perfino male fisicamente. Se poi sono toccate nella stima o nell’onore, inarcano le ciglia e diventano di fuoco; se non guariscono da quell’infermità, perdono la pazienza; se non raggiungono il loro intento o va male qualche loro impegno, si rattristano e piangono. Amano Dio, ma non rinunciano alle comodità, né al desiderio di essere considerate persone di riguardo, sagge ed intelligenti, bene educate, garbate: migliori, insomma, delle altre.

Ora queste tali, con il cuore così pieno di affetti terreni, come possono trarre profitto dall’orazione, dalla comunione e dagli altri esercizi di pietà? «A queste anime io non parlo – disse un giorno il Signore a S. Teresa – perché il mondo fa molto strepito alle loro orecchie e la mia voce non può da loro essere udita».

Se il Signore a chi tiene il cuore attaccato ai beni sensibili di questa terra non fa neppure sentire la sua voce, come potrà dare loro i suoi lumi, le sue grazie, le sue divine misericordie? Come Gesù Cristo spanderà sopra di esse le sue celesti benedizioni e farà scendere sopra di loro i doni dello Spirito Santo? Quei doni ineffabili che i SS. Apostoli non potevano ricevere se prima non si rassegnavano a privarsi di quella consolazione e di quella dolcezza che provavano nello stare in compagnia del Maestro divino, cioè se non liberavano il loro cuore da quell’attacco, soverchio e sensibile, che portavano alla persona del Salvatore? «Se non me ne andrò, non verrà a voi il Paraclito». Il nostro cuore è come un vaso. Se voi riempite un vaso di terra, certamente non vi potete mettere altra materia se prima non togliete la terra. Così nel nostro cuore più vi è fango, ossia affetto per i beni terreni, meno vi è amore di Dio. Il nostro cuore, quindi, non può mai essere ripieno delle grazie celesti fino a che non si sia totalmente svuotato dell’amore alle cose del mondo e non si sia rivolto interamente ai beni soprannaturali e celesti.

Aggiungete che Dio vuole essere il solo ad essere amato da noi e non sopporta che cosa alcuna occupi parte di quei cuori che Egli vuole tutti per sé. «La mia sposa – dice Egli nei Sacri Cantici – cioè l’anima che veramente mi ama, deve essere un orto chiuso, perché non deve ammettere nel suo cuore altro amore che il mio». Così ci voleva significare il buon Gesù, legislatore divino, quando, intimando agli uomini la nuova legge, ordinò, nel primo comandamento, che noi la amassimo con tutto il cuore, con tutta la mente, con tutte le forze: « hoc est primum et maximum mandatum ». Considerando attentamente ciò, un giorno S. Francesco di Sales, rivolto a Dio, proruppe in queste memorande parole: «Se io sapessi di avere nel mio cuore una sola fibra che non sia di Dio, me la vorrei subito strappare». «Quante anime – dice S. Alfonso Maria de’ Liguori – farebbero voli nella santità se si distaccassero da ogni cosa di questo mondo! Ma poiché conservano sempre nel cuore qualche piccola affezione disordinata a cose di quaggiù, restano sempre nella loro miseria e, per quanto siano ricche di esercizi spirituali, di virtù, di favori divini, non giungono mai all’unione con Dio». Comprendiamo, dunque, o Suore, che se vogliamo che Dio sia tutto nostro e scenda sopra di noi la pienezza del divino Paraclito, bisogna che noi | ci diamo interamente a Lui e che stacchiamo l’affetto da qualsiasi cosa creata, benché minima. «Poco importa -dice S. Giovanni della Croce – che l’uccello sia legato con un filo grosso o sottile: in ogni modo, esso non può volare».

Certo, l’attaccamento a questi miseri beni e piaceri di terra e a questi gusti sensibili, oltre che privarci dell’abbondanza dei beni celesti, ci reca un altro gravissimo danno: quello, cioè, di toglierci la quiete e la pace del cuore, e di riempirci di malumore e di tristezza.

In verità, chi più di un Salomone gustò o poté gustare piaceri e delizie in questa vita? In quarant’anni di regno pacifico egli accumulò ricchezze immense, oltre quelle ereditate da suo padre Davide; la sua sapienza fu superiore a quella di tutti i saggi del mondo che furono e che saranno; fu in altissima stima presso tutti i popoli nazionali o stranieri e, nel colmo degli onori e all’apice della grandezza, non negò ai suoi sensi alcun piacere, né sfogo alcuno alle sue passioni. Lo confessò egli stesso: «Tutto quello che i miei occhi desiderarono non lo negai loro, né impedii al mio cuore di gustare ogni piacere». Questo grande uomo, questo grande re arrivò veramente al sommo grado della felicità, fu perfettamente e pienamente contento? Andiamo a visitarlo nella sua reggia: è tutto occupato in torbidi pensieri; è serio nel volto, inquieto nell’animo e amaramente afferma: «La mia vita mi è di tedio e di peso; in tutte le mie ricchezze e nei miei vuoti piaceri io non trovo che vanità, vanità e afflizione di spirito».

«La grande ragione è – afferma S. Agostino – che, essendo il nostro cuore fatto unicamente per Dio, non può trovare pace se non in Dio e sarà sempre inquieto finché non riposerà in Dio, come un pesce fuor d’acqua, come un osso fuori della propria giuntura: Fecisti nos, Domine, ad te et inquietum est cor nostrum donec requiescat in te ».

È tanta l’ampiezza del cuore umano, che niente può pienamente appagarlo se non la bontà infinita di Dio.

Un’altra ragione molto valida addotta dai maestri di spirito per mostrare che l’attaccamento alle cose di questa vita ci toglie la pace e ci causa continui disturbi, è che tutti i beni e piaceri terreni sono transitori e fugaci, vanno soggetti a mille vicissitudini e, perciò, non possono procurarci quella pace stabile e permanente che desidera il nostro cuore. Venendo questi a mancare, svanisce anche la contentezza di aver risposto in essi i propri affetti perché quando il cuore si trova privo di quell’oggetto e di quella soddisfazione non può fare a meno di rimanere turbato, agitato, inquieto e in preda a tanta malinconia e tristezza, che trascura perfino il profitto spirituale dell’anima propria.

Osservate gli Apostoli. Questi, attaccatisi sensibilmente alla persona del loro Maestro, avevano riposto ogni loro consolazione e conforto nello stare in sua compagnia. Venuto il tempo in cui dovevano privarsi della visibile e corporale presenza di Gesù Cristo perché Egli doveva ormai far ritorno alla destra del divin Padre, essi si turbarono e la tristezza pervase il loro cuore tanto da non preoccuparsi più del proprio spirituale profitto, cioè di essere ammaestrati intorno ai beni e alle bellezze di quella patria celeste di cui il divino Maestro andava a prendere possesso anche a nome loro e a nome di qualunque altro suo vero seguace; trascuratezza che il divino maestro non poté fare a meno di riprendere con le parole: «Vado a Colui che mi ha mandato e nessuno di voi mi chiede: Dove vai?».

Da tutto questo, mie Suore, imparate un po’ a vivere, almeno da qui innanzi, col cuore distaccato da ogni affetto e consolazione terrena, affinché nessuna cosa possa mai turbare la pace dell’animo e possiate meritarvi dal cielo grazie sempre maggiori. Amiamo Dio con puro amore, per mezzo della fede, non perché ci fa del bene e ci colma di prosperità e di consolazioni spirituali, come facevano gli Apostoli con Gesù Cristo, ma perché lo merita per se stesso e per gli altissimi pregi che Egli ha in sé. Non lasciamo di amarlo anche in mezzo alle desolazioni ed aridità e di servirlo ugualmente sia quando ci prova, sembrandoci di essere da lui abbandonati, sia quando ci accarezza e ci sembra più vicino. Allora potremo sperare che il divino Paraclito diffonda sopra di noi l’abbondanza dei suoi doni celesti, come desidero per tutte.

Amen.