Pene dannati

 

PENE DEI DANNATI NELL’INFERNO

Io non nego, sorelle mie, anzi confesso che gli orrendi castighi con cui Dio, che si chiama Dio di misericordia e di clemenza, ha sempre punito i peccatori di questo mondo, abbiano una gran forza a farci conoscere la malizia enorme e la gravità incomparabile del peccato mortale. Chi potrebbe chiamare piccolo male, quello per cui Dio castigò Adamo cacciandolo dal paradiso terrestre, e lo condannò con tutta la sua posterità ad un’infinità di miserie e di guai?

Chi non sa, che per il peccato Dio mandò un diluvio universale e sommerse nelle acque tutto il genere umano ad eccezione di alcune persone che ne andarono esenti? Chi non ricorda che per il peccato fece piovere fuoco dal cielo sopra cinque famose città e ne incenerì gli abitanti, eccettuata la famiglia di Lot? Chi non vede per il peccato guerre che consumano gli uomini e impoveriscono gli stati, pestilenze che spopolano i paesi, inondazioni che devastano le campagne, grandine che guasta i seminati, malattie che distruggono le famiglie, morti che diminuiscono ed estinguono i casati e tanti altri infortuni che affliggono la misera umanità? Sì, per il peccato vengono le avversità, dice lo Spirito Santo. È il peccato che ci tira addosso tutti questi ed altri mali che noi soffriamo. Tuttavia, non conosceremo mai la grande malizia e gravità del peccato se, per aborrirlo quanto merita, non meditiamo le pene orribili con cui viene punito dalla divina giustizia nell’altro mondo.

Scendiamo dunque, oggi, giù nell’inferno e meditiamo l’atrocità delle pene che ivi soffrono i miseri dannati. E, per meglio riuscire nell’intento e ricavare maggior profitto da un salutare timore, vediamo prima ciò che soffre il dannato nel corpo, poi vedremo ciò che soffre nell’anima, perché, essendosi il peccatore servito del corpo e dell’anima per offendere Dio, Dio lo punisce giustamente in tutti e due: nel corpo unito all’anima dopo il giudizio universale, nell’anima dopo quello particolare.

S. Ignazio in questa meditazione dell’inferno procede per via di castigo dei sensi. Immaginatevi col pensiero di essere sulla bocca di quell’abisso e cominciamo ad applicare la vista. Vedete voi, sorelle mie, quell’orrenda prigione? Come è oscura, com’è stretta, come è piena di fuoco, di fumo, di tenebre orribilissime! Ebbene, là dentro è seppellita per sempre la massa dei dannati. Mai penetrerà in quella fossa un raggio di sole a mitigare l’oscurità, mai un lampo di luce a dissipare le tenebre tormentatrici. Essi sono coloro a cui è destinato un mare di tenebre in eterno e non vedranno mai più la luce per l’eternità.

Se io mi danno, diceva piangendo S. Cipriano, io non vedrò più Dio, perché sarò immerso nelle tenebre. Vi sarà fuoco, è vero, in quell’abisso, ma, dice S. Tommaso, fuoco senza chiarore, fuoco caliginoso che brucerà senza dar luce. Come nella fornace di Babilonia fu un miracolo per quei tre fanciulli, gettati in mezzo alle fiamme, che il fuoco avesse tutta la luce senza il calore, così, all’opposto, il fuoco infernale avrà, per tormentare i dannati, tutto il calore senza la luce. Quindi quel fuoco tormentatore sarà tutto fumo e tutto fuoco.

Sorelle mie, rispondete a me: se il solo stare per breve tempo in una stanza piena di fumo ci sentiamo soffocare al punto che cerchiamo subito di liberarcene, come tollereremo quel fumo di zolfo e di pece che, se per disavventura ci danniamo, ci farà bruciare gli occhi continuamente nell’inferno? Ma ciò non basta: sarà un altro tormento per i dannati vedersi l’un l’altro deformi e contraffatti in volto, orribilmente, dal grande dolore.

Aggiungete la vista orrenda dei demoni che prenderanno le figure più orribili di leoni, di orsi, di serpenti, per spaventare di più i miseri dannati, avventandosi loro addosso per lacerarli. Che orrore! che spavento! Santa Caterina da Siena, per un solo demonio che vide una volta per brevissimo tempo, diede, per il terrore, un altissimo grido e disse che piuttosto che rivederlo, sarebbe andata a piedi scalzi sopra lastre roventi fino al giorno del giudizio.

E noi potremo tollerare la vista di tutti i demoni insieme e sopportarla per una eternità? Osservate, ancora, che i dannati stanno laggiù ammonticchiati l’uno sull’altro, come l’uva nel torchio, come i mattoni nella fornace, a guisa di legna nella catasta, dice il Vangelo. I meschini saranno chiusi alla rinfusa, in quel carcere tenebroso con le mani e i piedi legati, sicché non potranno per tutta l’eternità né stendere un piede, né muovere una mano, né ritirare un braccio, né potranno girarsi su un fianco, ma saranno sempre immobili come pietra.

Almeno, in tanta strettezza di luogo, toccasse a quei meschini un buon vicino, ma i vicini saranno i demoni, figlio e madre si mangeranno vivi, compagni ed amici si addenteranno come cani, mai incontreranno un buon amico, un buon compagno, un galantuomo. Perché, dunque, ora perdere tempo in litigi, entrare in combriccole, in conversazioni di dissipazione?

Ma andiamo avanti: che inferno avrà l’udito? Noi che non possiamo sentire un cagnolino che abbai, un calpestio di chi passa in un corridoio, noi a cui una limatura di ferro fa raccapricciare, noi che ci infastidiamo al ronzio di una mosca e ci impazientiamo; noi, ditemi, cadendo nell’inferno, come potremo resistere a tanti urli di disperati che laggiù si sentono continuamente? A tante bestemmie, a tante strida e maledizioni contro Dio, la Vergine, i Santi, contro i compagni e contro i parenti? Allora solo conosceremo che per colpa nostra ci siamo dannati, maledicendo l’ora in cui nascemmo, la grazia che abbiamo ricevuta, i tanti peccati che commettemmo. «Ho sbagliato – dirà allora ciascuno di quei meschini – ho sbagliato; fu mio errore grave non confessarmi bene, non obbedire agli avvisi del confessore, non far conoscere tutta la mia malizia; fu errore non mettere cura per emendarmi, non darmi di più all’orazione mentale, alla riservatezza, al silenzio, alla mortificazione; fu errore usare quella parzialità, quel fare differenza fra persona e persona, fomentare dicerie e divisioni, ed intrigarmi dove non dovevo; fu errore parlare di ciò che a me non spettava, riportare relazioni e notizie che per nulla riguardavano la mia vocazione: ho sbagliato, dunque, ho sbagliato».

Che inferno avrà l’odorato? S. Tommaso è del parere che nel giorno del giudizio coleranno laggiù, sulla testa dei miseri dannati tutte le immondezze di questa terra, ma se anche ciò non fosse, dice la S. Scrittura che dal corpo stesso di quegli infelici esalerà un fetore insopportabile. Se un corpo solo di un dannato, messo all’aria aperta, secondo S. Bonaventura, basterebbe col suo fetore a portare una pestilenza universale in tutto il mondo, che tormento daranno all’odorato migliaia e migliaia di tanti corpi? Odorate, voi così delicate, che non potete sopportare un piccolo fetore nell’assistere un infermo, odorate quella profonda sepoltura infernale sempre chiusa e non già con un solo corpo putrefatto ma con milioni, con il fetore di tutti i peccati del mondo: là andranno a finire le nostre delicatezze, le nostre vanità, se in tempo non ci ravvediamo!

Che avrà il senso del gusto? Sorelle mie, si dovranno bere bevande amarissime, altro che mangiare vivande ben condite, troppo crude o troppo cotte, altro che medicine amare e disgustose! Piombi disfatti, pece bollente, cibi e bevande terribili, a dispetto di ogni nausea ci faranno inghiottire i demoni. Né cesseranno per questo i dannati di avere una sete ed una fame ardentissime. La sete dei febbricitanti si lusinga con qualche ristoro, se non altro con l’immaginazione di acqua chiara e fresca, bevuta altre volte; il dannato, invece, non potrà neppure immaginarsi l’acqua. Così una medicina nauseante si beve presto e se ne vede il fondo, ma il calice di piombo fuso, che si dovrà trangugiare nell’inferno, non finirà mai: che tormento!

E il senso del tatto che pena avrà nell’inferno? Il tatto, dice un filosofo, non è solo nelle mani, ma in tutto il corpo, perciò è in tutti i sensi, e quando uno solo soffre, ne risentono tutti gli altri.

Che sarà, dunque, se una minima parte offesa cagiona strettezze al cuore e spasimi ai sensi, che sarà soffrire atrocissime pene in tutti i sensi, in tutte le parti del corpo, dal piede alla sommità del capo? E ciò per sempre?

Eppure, io non ho detto ancora il peggio dell’Inferno. L’Inferno che patirà il dannato nel corpo è nulla in confronto di quello che soffrirà nelle tre potenze dell’anima: memoria, intelletto e volontà, perché è verità incontrastabile presso tutti i teologi che, come i demoni, così anche i dannati conservano nell’inferno queste loro facoltà naturali.

Affliggerà la memoria, dice il Papa Innocenzo III, un pentimento ritardato. L’anima dannata avrà sempre presente alla memoria tutto il passato e la grande massa di bocconi indigesti che dovrà digerire per tutta l’eternità.

Si ricorderà sempre, la misera, del fine per cui Dio l’aveva creata, degli aiuti, dei mezzi e delle grazie che le aveva fatto perché si salvasse. Avrà sempre presente i benefici da Dio ricevuti, la chiamata che le fece in gioventù, le esortazioni che udì nel periodo della sua formazione, le prediche che ascoltò nelle chiese, i buoni esempi delle compagne, tanti Sacramenti che ricevette, le tante aspirazioni, la comodità di far del bene che ebbe in tutto il tempo della sua vita. Si ricorderà del timore che ebbe la prima volta che peccò, della paura e dei rimorsi che la spingevano a confessarsi. Quante volte Iddio mi chiamò al pentimento e mi disse: «Basta, non mi offendere più, emendati da quella cattiva abitudine, lascia di accontentare maggiormente il tuo amor proprio, conduci una vita nuova, altrimenti ti dannerai; ed io, sciocca ed insensata, chiusi il cuore, fui sorda alle minacce, alle voci amorevoli del mio buon Dio, e mi sbagliai». Vera, ma mutile conclusione sarà questa dei miseri dannati. Questo sarà il primo crudelissimo inferno dell’anima dei dannati, dice lo Spirito Santo: conoscere fino all’evidenza palpabile i loro errori e ricordarsi le tante opportunità che ebbero di salvarsi.

Un altro inferno, non meno doloroso, cagionerà ai miseri dannati il loro intelletto. Avranno i dannati una cognizione chiara della penitenza che stanno facendo, ma tale cognizione non recherà agli infelici alcun sollievo, anzi accrescerà loro angustia ed affanno, perché capiranno essere una penitenza fatta troppo tardi, quindi inutile e senza frutto. Osservate quante lamentele si fanno durante il giorno nell’uso delle cose temporali: «Potevo comprare quella casa a buon prezzo, dirà quel tale, e non lo feci; quanto mi incomoda lo starmene senza!

Potevo, con poca spesa, riparare l’inondazione di quel fiume, dice l’altro, la caduta di quel tetto e, per il misero risparmio di pochi denari, il patrimonio e il tetto sono in rovina. Potevo, con poca fatica, dice il terzo, abilitarmi allo studio in gioventù; ora che sono in età avanzata e senza istruzione, mi trovo senza stima e senza impiego». Che inferno sarà per l’anima di un dannato il conoscere che poteva con poco sottrarsi a quelle pene e salvarsi! «Potevo vincere – ella dirà – quella passione e non lo feci, potevo lasciare quell’impiego ed ho voluto invece portarlo avanti, potevo mortificarmi in quell’occasione e non volli, potevo privarmi di quei piaceri illeciti e non seppi trattenermi, potevo astenermi da quella disobbedienza, da quei risentimenti, da quelle venialità che commettevo con tanta indifferenza, mentre predicatori e confessori mi dicevano che, se non mi emendavo, mi avrebbero condotto in questo luogo, essendo proprio del peccato veniale disporre al mortale, ma fui testarda. Adesso non sono più in tempo.

Se mi fosse concessa un’ora di quelle che ho trascorso in ciarle inutili, in piaceri, in vanità, in peccati! Ma non ho più tempo: o disperazione, o inferno!».

Il povero Gionata, figlio di Saul, quando si vide dal re, suo padre, condannato a morire per avere gustato un po’ di miele, si mostrò tanto inconsolabile che non poteva darsi pace: «Come mai – diceva piangendo amaramente – come mai mi sono indotto per un piacere da nulla a meritarmi la morte? Perdo il padre, perdo il regno, perdo la vita e perché? Per un po’ di dolce che, appena gustato, svanì».

Immaginate ora, sorelle mie, che pena darà all’anima di un dannato il conoscere come per poco non ha voluto salvarsi e per poco si è spontaneamente perduto. Sì, per poco, per un fumo di vanità, per un vile e momen-taneo piacere, per un capriccio, per un puntiglio.

La volontà, finalmente, verrà anch’essa nell’inferno a tormentare il dannato con tormento suo proprio.

Vorrà, il meschino, dimenticare quanto la memoria gli andrà rievocando, ma non potrà; quello stesso non potere ciò che vorrebbe, metterà sempre in nuove torture la sua volontà. Al ricordo e alla cognizione di quanto nella vita le sarà successo, l’anima si troverà agitata da ogni sorta di sdegno, di odio, di rabbia, e rimarrà sempre come seppellita in un abisso di malinconia.

S. Bernardo è del parere che i dannati dell’inferno, per maggior loro tormento, avranno di fronte il paradiso. Che rabbia, pertanto, vedere lassù tanti e tanti che prima erano gran peccatori, ma poi divennero grandi penitenti! Ecco il tale, che io burlai come bigotto e scrupoloso, ecco la tale e la tal’altra, già mie compagne, già mie amiche: eccole salve. Fummo insieme alle prediche, agli esercizi spirituali; quella ne approfittò, io no; quella mutò vita, io no; ella lavò le sue macchie, io no; oppure, dopo averle lavate, tornai nuovamente ad imbrattarmi. Il cattivo ladrone vedrà sempre lassù il buon ladrone, suo compagno nei furti e fin sulla croce, ma non nell’inferno. Giuda vedrà gli Apostoli suoi colleghi: li vedrà e si adirerà, pieno di confusione e di furore.

Sorelle mie, che dite voi di queste infallibili verità? Vi pare che sia poco male offendere Dio e commettere un peccato mortale che merita di essere punito eternamente con pene così atroci? Vi pare che torni a nostro vantaggio contentarci e sfogarci in tutto, a proprio piacimento, senza dare retta a nessuno, stimando che tutti parlino o per un fine o per un altro? Se anche un solo peccato basta per andare all’inferno, vi pare che noi non abbiamo niente a temere, né per il passato né per l’avvenire, pur sapendo che siamo così deboli che se, per grazia di Dio non peccammo gravemente nel passato, possiamo peccare in avvenire da un momento all’altro? Se tanti e tanti, per paura di andare all’inferno si sono spontaneamente obbligati ad una vita di grande penitenza e mortificazione, vi pare che noi non dobbiamo fare nulla per fuggire quelle pene?

Dunque, mie sorelle, non solo cerchiamo di rimediare bene al passato con una buona penitenza, se conosciamo di aver mancato in qualche modo; ma procuriamo, da qui innanzi, di tendere con zelo instancabile alla mortificazione di noi stessi e di fare più opere buone che sia possibile; fare tutto con maggior fervore che possiamo per assicurarci, per quanto si può, con l’esercizio continuo di sante virtù, la nostra salvezza, come ci avvisa San Pietro: «Fratelli, datevi maggiormente da fare affinché, per mezzo di opere buone, rendiate sicura la vostra salvezza». Amen.