Fervore impegno

 

FERVORE E IMPEGNO NEL DIVINO SERVIZIO

(Considerazioni sulla solennità dell’Epifania)

Una stella chiara e risplendente di vivissima inusitata luce comparve la prima volta sull’orizzonte e fu vista in oriente da tre ragguardevoli Re Magi. Questi filosofi che, invitati e guidati dalla stella, abbandonano il loro paese natio e vanno a cercare un Dio che suppongono nato in forma d’uomo in paesi stranieri e lontani, questi stessi filosofi che prima si aggiravano sconsolati in mezzo a una metropoli popolosa, cercando di quel Dio presso la reggia di un principe perché li aveva abbandonati la celeste stella, riprendono poi il cammino sospeso sulla scorta della stella nuovamente comparsa, pervengono alla capanna di Betlemme ed offrono al neonato Messia doni misteriosi: oro, incenso e mirra. Finalmente, per una strada che viene loro prodigiosamente indicata, ritornano lieti e festosi alla loro terra nativa.

Eccovi, o buone suore, tutto l’intreccio stupendo dei vari misteri che celebra solennemente la santa Chiesa nel giorno sacro dell’Epifania del Signore. Io, nel percorrere con la mente così breve tratto di storia evangelica, mi sento rapire da cose tanto arcane e profonde, che mille idee mi si affollano alla mente, tutte liete e tutte magnifiche.

Ora la nuova stella mi invita a magnificare la maestà di un Dio grande nei suoi disegni, fedele nelle sue promesse; ora la devozione straordinaria dei re Magi e, con loro, di tutte le genti alla vera fede, mi muove a lodare la divina Misericordia e ad adorare i suoi alti decreti; ora l’accecamento di Erode, nel quale io ravviso la noncuranza dei divini favori severamente punita, mi spinge a dire alcune cose a suo rimprovero; ora i Re Magi, con la loro prontezza e costanza, richiedono i miei elogi; ora Gesù Bambino, coi suoi vagiti, domanda le mie adorazioni.

Io però, lasciata in disparte ogni altra considerazione, voglio che vinca oggi un mio pensiero ed è che l’Epifania del Signore, mentre ci fa conoscere il grande beneficio che in tal giorno ci ha fatto Dio, quale è quello di chiamarci, per mezzo dei Magi, alla vera sua cognizione, cioè alla vera fede, ci ricorda, al tempo stesso, il preciso dovere che noi tutti abbiamo di servire questo Dio come vero nostro padrone e sommo nostro benefattore, di servirlo con ogni impegno, fedeltà e diligenza.

Il fervore, dunque, anzi, l’impegno con cui dobbiamo occuparci delle cose che riguardano il divino servizio è l’argomento che io presenterò oggi alla vostra considerazione. A ciò forse mi spinge un’altra circostanza: quella, cioè, del nuovo anno che salutammo alcuni giorni fa e che io auguro a voi tutte lieto e felice, perché se all’inizio dell’anno, nel mondo, i bravi servi rinnovano la loro fedeltà ai loro padroni, è troppo giusto che anche noi, servi di Dio, riflettiamo un poco come dobbiamo servire questo degno padrone, al fine di poterci meritare quella grande mercede che Egli tiene preparata nel cielo a chi lo serve come si conviene.

Interrogato san Basilio dai suoi monaci con quale affetto si dovesse servire Dio, rispose che il buon affetto dell’anima verso Dio consiste in un desiderio ardente, insaziabile e costante di sempre piacere a Lui. Questo desiderio di sempre piacere al Signore e di fedelmente servirlo, con fervore ed impegno, deve nascere in noi principalmente per due motivi: 1) per quello che Egli è in se stesso; 2) per quello che Egli è riguardo a noi.

Considerato Dio sotto il primo aspetto, noi troveremo che Egli è il padrone più degno di lode e di rispetto di qualunque altro possa mai immaginarsi, perché le sue grandezze e perfezioni infinite lo rendono infinitamente superiore ad ogni creatura, e, conseguentemente, il più meritevole di essere amato, lodato, servito ed obbedito con più perfetto amore.

Egli è un essere così perfetto che racchiude in sé tutta la bellezza, la bontà, le perfezioni tutte e tutte le doti che hanno avute, che hanno presentemente, che avranno e che potrebbero avere tutte le creature insieme, contenendole tutte in un modo singolare ed ineffabile. Quale essere, quale padrone più bello, più nobile, più eccellente e perfetto può mai immaginarsi di Dio, se Egli contiene, in sé solo, tutto il buono, il bello e il perfetto? E lo contiene in modo tutto divino, infinitamente superiore ad ogni nostro modo di comprendere? Aggiungete che se ogni perfezione ed ogni bene nelle creature è limitato e finito, in Dio, invece, si trova in modo infinito, che è quanto dire senza termine, senza misura, senza fine, per cui la bellezza di Dio è infinita, infinita la sapienza, la bontà, la misericordia, la giustizia e tutte le perfezioni.

Se io potessi farvi comprendere che cosa vuol dire infinito, qual concetto vi formereste della grandezza di questo nostro sovrano padrone! Sapete voi che cosa dobbiamo intendere per bellezza e sapienza infinita? Dobbiamo intendere una bellezza e una sapienza così grande che, se tutti gli intelletti umani ed angelici si occupassero per l’intera eternità nel concepire bellezze e sapienze sempre nuove, non potrebbero mai arrivare a concepire e comprendere una bellezza e una sapienza infinita perché, essendo tutti questi intelletti limitati e finiti, non sono capaci di concepire e comprendere una cosa infinita. Quanto è grande, dunque, l’essere infinito di Dio! Che merito non ha Egli, pertanto, di essere da noi servito con la massima diligenza e con la più scrupolosa perfezione!

Chi siamo, noi, da usare torpore e freddezza nel divino servizio? Tutto il mondo e mille altri, se piacesse a Dio di crearli, secondo la parola dei libri Sapienziali, di fronte a quel bellissimo e perfettissimo Essere che è Dio, sono come una goccia d’acqua, o, secondo l’espressione del Profeta, come se non fossero.

Che figura faremo noi, così miseri e meschini quali siamo, se oseremo servire il Dio di ogni grandezza malvolentieri e con negligenza? Per quanto noi facciamo per onorare il Signore, dice l’Ecclesiastico, non giungeremo mai a glorificarlo abbastanza come merita. Perché, dunque, non servirlo con fervore e con impegno? Non è Egli colui che ci ama di un amore sì tenero, sì grande, sì perseverante che mai si stanca di farci del bene e che, per quanto dipende da Lui, non cesserà di beneficarci per tutta l’eternità?

Eccovi ora, mie suore, il secondo motivo che ci obbliga, per legge di gratitudine, a servire Dio con diligenza e con fervore: gli innumerevoli benefici che ci ha donato e che ci dona.

Nel considerare Dio come nostro sommo benefattore, ricordate, o mie dilettissime, come Egli ci ha tratti dal nulla a preferenza di innumerevoli altre creature che avrebbe potuto creare in vece nostra e che forse l’avrebbero servito assai meglio di noi. Ricordate quanto Egli ha fatto e patito per la nostra salvezza e tornate col pensiero alla stalla di Betlemme. Ecco là quel Dio infinitamente buono, infinitamente bello, infinitamente perfetto, in forma di Bambinello che piange, che giace sul fieno e che ha bisogno di ogni cosa. Che ve ne pare? Una grandezza infinita, una potenza, una sapienza, una santità, una giustizia infinita viene a noi in forma di piccolissimo bambino.

Consideriamo ora Gesù nel corso della sua dolorosa passione. Sapete, voi, Chi è colui che vedete nell’orto caduto bocconi per terra, immerso nel proprio sangue nel pretorio sotto la tempesta di crudelissimi flagelli e sul Calvario inchiodato sopra una croce? Egli è il buon Gesù, cioè quell’Essere perfettissimo che racchiude in sé tutto il bello e il buono di tutte le creature e che, a tanto dolore, si sottomette per nostro amore. Alzate ora gli occhi e vedete Gesù sulla loggia di Pilato, con le mani legate, vestito di lacera porpora con una canna vuota in mano per scettro, con una corona di acutissime spine in testa. Che spettacolo compassionevole! Guardate quel bellissimo corpo tutto coperto di lividure e di piaghe, quell’amabilissimo volto sputacchiato, grondante sangue, e percosso da schiaffi orribili, quei capelli tutti intrisi di sangue. Guardate quell’Uomo così malconcio, così sfigurato che non ha più forma di uomo! Lo riconoscete voi? Egli è Gesù, fiore di ogni bellezza e tempio di santità, che a tanta umiliazione si è ridotto per noi. Sì, per noi, per rialzarci dalle nostre miserie, per lavarci dai nostri peccati, per condurci a contemplarlo un giorno svelatamente nel cielo, dove godremo della sua infinita bontà e infinita bellezza, nonché di tutte le sue perfezioni e saremo con Lui eternamente felici.

I santi Sacramenti che ci ha lasciato e gli altri molteplici mezzi di santificazione che ci ha donato, non sono tutti suoi ineffabili benefici? Vi par poco che questo Dio infinitamente grande col farsi uomo abbia trovato modo di essere tutto nostro: nostro amico, nostro fratello, nostro sposo, nostro capo? Eppure è così, è di fede, non se ne può dubitare! La vocazione allo stato religioso in cui ci troviamo, non è una grazia segnalatissima di questo Dio redentore? E dopo tutto ciò noi ci faremo rincrescere di servire, di lodare, di benedire, di glorificare questo sommo nostro benefattore? Non vi pare che Egli sia degno e meritevole d’ogni nostro ossequio per l’eccellenza e per l’infinita grandezza che contiene in se stesso e per i benefici indicibili che ha fatto a noi? Perché, dunque, servirlo con tanta freddezza, tanta noia, tanta trascuratezza da muovere il buon Dio piuttosto a sdegno che a benevolenza?

Vi sarà, tra noi, a mo’ d’esempio, chi divora molti «Pater noster» e recita molte corone, ma con tale disattenzione che, alla fine, non sa che cosa abbia detto. Altri ascoltano molte sante Messe, ma con così poca riverenza al santo Sacrificio che, in quello stesso tempo, pensano alle faccende di casa; altri intervengono alla predica, ma talmente distratti che non ne comprendono una sola parola. Quella tale fatica per la famiglia religiosa, ma con tale impazienza che fa sentire ovunque le sue lagnanze. Quell’altra è costretta ad applicarsi in ciò che l’obbedienza le ha imposto, ma ne sente tanto rincrescimento che cerca mille scuse per esserne dispensata.

Vi pare questa la maniera di servire Dio, Maestà infinita, mentre noi stessi non gradiremmo certo che ci servissero in questo modo? Il Signore richiede da noi diligenza, attenzione, fervore nel suo servizio, altrimenti non ci riconosce per suoi veri seguaci. Anzi, ci allontana da Lui come tiepidi e neghittosi, come dichiarò Egli stesso espressamente nell’Apocalisse di San Giovanni: «Poiché sei tiepido, cioè né freddo né caldo, comincerò a rigettarti dalla mia bocca».

Gli Angeli santi e soprattutto gli Angeli nostri custodi osservano attentamente con quale fervore o con quale negligenza noi ci occupiamo delle cose del divino servizio. San Bernardo racconta che, stando un giorno in coro, vedeva questi Angeli che notavano, parola per parola, le orazioni dei suoi monaci: alcune a caratteri d’oro, altre d’argento e altre d’inchiostro, secondo la misura della maggiore o minore devozione con cui quei religiosi recitavano il divino ufficio. Facciamo in modo, dunque, o mie suore, che gli angeli abbiano a notare a caratteri d’oro tutte le nostre orazioni ed azioni, servendo sempre Dio con attenzione, con diligenza, con fervore e con allegrezza: «Servite Domino in laetitia».

Consideriamo che Egli è un bene infinito ed estremamente benefico verso di noi: se non siamo irragionevoli, non potremo fare a meno di amarlo. Se lo amassimo davvero qualunque fatica, qualunque lavoro pesante ci accada di dover sopportare per Lui ci sembrerà sempre soave e leggero.

Considerate il patriarca Giacobbe. Egli amava ardentemente Rachele, ma per averla in sposa dovette servire a Labano, suo padre, per sette anni consecutivi, attendendo ai suoi armenti, esposto agli ardori dell’estate, alla rigidezza dell’inverno, ai venti, al gelo, alla pioggia. Eppure la Sacra Scrittura ci attesta che quel lungo corso di anni, aggravato da tanti incomodi, sembrò a Giacobbe uno spazio di pochi giorni, tanto era l’amore che portava alla sua Rachele.

Da ciò possiamo dedurre che se noi, nel servire Dio troviamo difficoltà, è perché non lo amiamo. Amiamolo veramente di tutto cuore e si verificherà anche per noi quello che dice Sant’Agostino, cioè che chi ama non fatica, perché anche la fatica è amata. «Ubi est amor, ibi non est labor».

Imitiamo, dunque, i santi re Magi i quali, appena avvisati dalla stella che era nato il Salvatore del mondo e invitati a recarsi ad adorarlo, non si lasciarono vincere né dalle difficoltà, né dall’incertezza del luogo, né dalla rigidezza della stagione, né dalla lontananza del paese ma, desiderosi di piacere a Dio, partirono subito dall’oriente percorrendo lunghe strade, valicarono monti scoscesi e anche se, arrivati a Gerusalemme non videro più la stella che li precedeva e che serviva loro da guida, non per questo si rallentò il loro primitivo fervore. Entrarono coraggiosi nella corte di Erode, domandarono dove fosse il Re dei Giudei e, inteso dai dotti radunati appositamente a consiglio che Betlemme doveva essere il luogo della sua nascita, si misero nuovamente in viaggio e, affidati alla Provvidenza, si avviarono alla volta di quella città. Prostratisi, finalmente, ai piedi del Messia, lo adorarono con immenso giubilo del loro cuore.

Anche noi vinciamo ogni difficoltà, ogni noia, superiamo ogni ostacolo quando si tratti di piacere a Dio e di servirlo, così noi pure troveremo la gioia dei Magi, troveremo, cioè, anche noi, un giorno, Gesù il quale ci ricompenserà con le sue ineffabili dolcezze e ci farà con Lui eternamente beati. Amen..