AMOR DI DIO
(Seconda Istruzione)
L’amore verso Dio, voi lo sapete, è il primo e il massimo dei comandamenti della santa divina legge, il mezzo universale della nostra salvezza, senza il quale nessuna cosa può essere salutare per l’anima nostra. Esso ha la sua origine, il suo progresso, la sua perfezione dall’amore eterno dello stesso Dio verso gli uomini; a tutti, come a ciascuno in particolare, esso viene comandato e appare indispensabile per giungere alla salvezza: bisogna morire oppure amare, perché, dice l’apostolo S. Giovanni, «chi non ama è in stato di morte: qui non amat, manet in morte». Ed è giusto, perché non c’è cosa più ragionevole, più santa, più doverosa che il Creatore sia amato dalla sua creatura, il padrone dai suoi servi, il benefattore dai suoi beneficati; che la bellezza, la bontà, l’amabilità per essenza sia amata da chi, per istinto di natura, tende irresistibilmente al possesso del buono, del bello, del dilettevole. Voi lo sapete, Dio è nostro creatore, è Lui che ci ha tratti dal nulla, che ci conserva continuamente l’esistenza; Dio è nostro supremo padrone, da Lui dipendiamo in tutto e per tutto, quanto all’anima e quanto al corpo; nel tempo e nell’eternità Dio è il sommo nostro benefattore, Colui che ci colmò di benefici, di favori, di grazie, di doni naturali e soprannaturali, di natura e di grazia, corporali e spirituali, temporali ed eterni.
Dio è la somma bellezza, la somma bontà, l’amabilità per essenza, e ciò che è sommamente bello, sommamente buono, sommamente amabile, come si può non amare?
Quando un oggetto o una persona qualunque racchiude in sé queste tre ineffabili prerogative: bellezza, bontà e amabilità, riesce a rapire ogni cuore e, quanto più risplendono in lei queste qualità, altrettanto si attirano, con forza e soavità, gli affetti del cuore altrui.
Chi può mettere in dubbio che in Dio si trovano infinita bellezza e infinita bontà? La sua faccia, dice la divina scrittura, appare nel Cielo così avvenente e così attraente, che forma la beatitudine stessa di quel regno celeste. Milioni e milioni di angeli, di spiriti beati e di anime sante la contemplano con loro inesplicabile godimento e contentezza per tutta una eternità, senza mai saziarsi, né curarsi d’altro che sempre più ammirarla a loro piacere. Perché noi teniamo sempre gli occhi e il cuore rivolti alla terra, e non ci innalziamo mai a contemplare la bellezza essenziale di Dio? Perché amiamo tanto le bellezze create: lo splendore del sole, la bellezza dei pianeti, lo scintillar delle stelle, la terra variopinta di tanti fiori, la preziosità dei metalli, l’avvenenza e la soavità dei volti, e non sappiamo rivolgere un affetto a quel mare immenso di bellezza infinita che è Dio da cui, come altrettante piccole stille, derivano tutte queste caduche e passeggere bellezze che si ammirano nelle creature?
Il motivo è perché non vi si riflette, altrimenti succederebbe a noi come al gran Patriarca di Assisi, S. Francesco, di cui scrive San Bonaventura che, al mirare queste stesse creature che a molti servono di distrazione e ad altri anche di caduta, si accendeva nel cuore di tanto amor divino, che sembrava un serafino: la bellezza del sole, il brillare delle stelle, la fragranza e la beltà dei fiori lo portavano talmente a fissarsi col pensiero nella bellezza di Dio, che non pareva più un uomo mortale, ma un cittadino celeste.
Non è però solo la bellezza che si trova in Dio in grado infinito che lo rende sommamente amabile; è anche la bontà, che è la seconda dote che ci spinge ad amare un oggetto. E questa si manifesta coi benefici, di modo che tanto più grandi sono i beni che Dio dona alle sue creature, tanto più è buono e meritevole di amore.
Chi può numerare i benefici, i favori, le grazie che Dio ci ha dato e ci dispensa continuamente, sia nell’ordine naturale che in quello della grazia? Quanto noi abbiamo di vita, di sanità, di robustezza, di forze, di prerogative del corpo e di qualità di animo, tutto è dono di Dio. Il cielo e la terra, il sole e la luna, le stelle ed i pianeti, i pesci e gli uccelli e tanti altri animali Dio li creò per il nostro bene, perché tutti servano a noi secondo il nostro bisogno. Gli angeli stessi, quei principi della Gerusalemme celeste che circondano sempre il divino trono li ha destinati a nostri custodi e compagni, affinché ci distolgano dal male, ci assistano nei pericoli, ci guidino sicuri sulla via della virtù e ci conducano finalmente al beato possesso di Lui, Padre comune e universale di tutti.
Ma questi benefici che Dio ci fece nell’ordine naturale, quantunque così eccellenti, come vedete, sono niente a confronto di quelli che ci ha fatto in ordine alla salute eterna dell’anima. Ricordate il gran beneficio della Redenzione, principio e fonte di tutti gli altri, per operare la quale l’eterno divin Padre mandò sulla terra l’unigenito suo Figlio e, mentre poteva salvarci con tanti altri mezzi, quanti gliene suggeriva la sua onnipotenza e sapienza infinita, ha voluto, per eccesso di bontà, servirsi del mezzo più sublime, cioè dello stesso suo Figlio, perché Egli stesso, a costo di ferite, di sangue e di una morte dolorosa, ci liberasse dalla morte del peccato, dalla schiavitù dell’inferno e ci ridonasse la vita della grazia in questo mondo e quella della gloria nell’altro.
O ineffabile amore! Dio, colmo di ogni perfezione, felicissimo in se stesso, non bisognoso di alcuno, consegna alle ignominie, ai patimenti, alla morte l’unico suo Figlio, da lui generato «ab aeterno» nello splendore dei Santi, per salvare noi sue indegne creature, suoi miserabili servi e suoi nemici perché peccatori, e per salvarci con tale mezzo e in così crudele maniera.
Come possiamo considerare questi tratti della divina Bontà e non accenderci tutte di vivissima fiamma di santo amore? Se già dobbiamo dare a Dio tutto il nostro cuore, perché Egli ci ha creato e ci conserva, che gli dovremo dare perché ci ha redenti in modo così amoroso? Gesù, venendo in questo mondo a redimerci, poteva vivere nelle delizie e negli agi, ma non fece così. Egli volle nascere tra la povertà e gli obbrobri e condurre in una carne passibile una vita la più stentata ed incomoda per rendersi a noi più esemplare e più utile. Poteva, con un solo sospiro, con una lacrima sola, con una sola goccia del suo preziosissimo sangue, perché d’infinito valore, anche senza morire, soddisfare pienamente la divina giustizia e riscattare tutto il mondo. No, Egli volle dare il suo santissimo corpo ai più barbari strazi, alle percosse, alle piaghe più crudeli e la sua innocentissima anima alla tristezza e alle agonie più dolorose ed amare; volle spargere il sangue a gocce nell’orto, a rivi nel pretorio, e morire dissanguato su una croce. Ma perché volle l’amabilissimo nostro divin Salvatore assoggettarsi a tanti e sì acerbi spasimi se, anche senza di questi o con molti di meno, poteva salvarci? Perché volle versare, morendo, tutto il suo sangue, se anche senza morire, con una sola goccia di questo, poteva riscattare tutto il mondo? Non per altro, risponde S. Bernardo con i santi Padri, non per altro volle Gesù sottomettersi a tante umiliazioni e tante pene, che per farci intendere la grandezza del suo buon cuore e del suo amore per noi: se con poco poteva redimerci, non poteva con poco mostrarci la sua infinita bontà.
E dopo ciò, non l’ameremo ancora? Vorremmo ancora dividere con le creature quel cuore e quell’amore che, per tanti motivi, tutto è dovuto a Lui? No, mio Signore, mio Dio, noi non vogliamo più offendervi, non più disgustarvi come abbiamo fatto finora, dividendo con le creature il nostro amore, ma tutto dobbiamo darlo a voi sinceramente: voi ci comandate come supremo padrone di tutte le cose, voi lo meritate come bellezza e bontà infinita, voi lo esigete come nostro sommo benefattore; noi, dunque, ve lo dobbiamo dare totalmente. Sì, noi vogliamo amarvi con amore intero, con amore operativo, con amore costante. Ecco i tre caratteri che deve avere il nostro amore verso Dio, se vogliamo che sia sincero e conforme al gran precetto dell’amore di Dio. Deve essere intero, deve essere operativo, deve essere costante.
Dobbiamo amar Dio con amore intero: ciò vuol dire con tutto il cuore, con tutta l’anima, con la mente, con tutte le nostre forze, come ci viene espresso nel divino comandamento, di modo che tutti i pensieri della nostra mente, tutti gli affetti e i movimenti del nostro cuore, gli stessi nostri sentimenti siano tutti indirizzati a Dio, né mai occupati in altri oggetti fuori di Dio, o per Dio e in ordine a Dio. Lo so che noi, miserabili creature, su questa terra non possiamo amare Dio con quell’amore sì perfetto che escluda ogni altro affetto e ci tenga sempre assorti con la mente e con il cuore in Dio come lo amano gli Angeli e i Beati nel cielo, perché, finché viviamo quaggiù, dobbiamo impegnarci in molte e in diverse altre occupazioni, ma dobbiamo almeno regolare i pensieri della nostra mente e i movimenti e gli affetti del nostro cuore, affinché tutti ci portino a Dio, tutti abbiano per fine il compiacimento di Dio e l’adempimento perfetto, in tutto e per tutto, della sua santissima volontà.
Così faceva S. Francesco di Sales, il quale dice che se egli conoscesse d’avere nel cuore una sola fibra che non fosse per Dio, se la strapperebbe subito, perché preferirebbe piuttosto essere un nulla, che non essere tutto interamente di Dio.
Entriamo, ora, un po’ in noi stesse e guardiamo un poco se il Signore è il solo nostro vivo amore, se amiamo Dio con questo amore intero che da noi si richiede. Quell’attaccamento che abbiamo alla nostra stima, quella particolare amicizia, quella simpatia con cui trattiamo gentilmente più l’una che l’altra persona, quell’avversione alla mortificazione cristiana, quel desiderio di comparire, quell’affetto alle comodità della vita, quel trasporto che spesso si mostra per le cose di quaggiù indicano assai chiaramente che non si ama Dio con tutto il cuore e con tutte le nostre forze. Dice S. Teresa che quando qualcuno mette tutto il suo cuore ih Dio, dimentica ogni altra cosa e in nulla prova consolazione se non in Dio. S. Bernardo soggiunge che, quando qualche cosa creata gli dà consolazione, è lui che prova gusto, non Dio: quindi non si dirà che l’amor di Dio in lui sia ardente. S. Filippo Neri, bruciando di quella fiamma che sapete, andava spesso gridando: «Come è possibile che uno, il quale crede in Dio, possa amare altri che Dio?» e quindi, quasi lagnandosi con Dio, esclamava: «Perché, o Dio, essendo voi tanto amabile e avendomi comandato di amarvi, mi avete dato un solo cuore e questo così ristretto?».
E noi, mie sorelle, essendo così miserabili, vorremmo ancora vivere col cuore diviso in mille terreni oggetti? Vorremmo occupare la mente in tutt’altro che in Dio e tutt’altro che in Dio cercare delizie, cercare amore, cercare piaceri? Non vi pare follia gettar via in cose vili, in vanità, in bagatelle da nulla quell’amore che dobbiamo tutto a Dio? Facciamo, dunque, le convenienti risoluzioni e, detestando il passato, proponiamo di voler essere, almeno da qui innanzi, tutte interamente di Dio amandolo con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente e con tutte le forze.
Ma non basta amar Dio con amore intero, bisogna amarlo con amore operativo. «La prova dell’amore -dice S. Gregorio – sono le opere». «Sapete chi è colui che mi ama? – disse un giorno Gesù ai suoi discepoli – Colui che tiene in considerazione i miei comandamenti e li osserva tutti esattamente; se voi mi amate, osservate i miei precetti». Dunque, è fuori dubbio che questa è la pietra di paragone su cui si deve provare l’amore di Dio. Chi osserva scrupolosamente i divini comandamenti, costui ama Dio; chi non cura questi e li trasgredisce, è privo dell’amore di Dio. Vi sarà chi si flagella fino al sangue, chi porta aspri cilici, quella che digiuna spesso, quell’altra che si trattiene a lungo in orazione, ma come si osservano i divini comandamenti? A questo si deve guardare per conoscere se veramente amiamo Dio. Dio comanda di adorare lui solo, di riverire il suo santissimo nome, di impiegare santamente i giorni a lui consacrati; comanda che amiamo il prossimo come noi stessi, né mai lo provochiamo con fatti o con parole, sebbene fossimo da lui provocati con offese gravi o ingiuste; comanda che riconosciamo i suoi sacri ministri come suoi rappresentanti e che ascoltiamo la loro voce, i loro consigli, le loro esortazioni come vere esortazioni e consigli suoi; esige che neghi la propria volontà e prenda la propria croce chiunque desideri essere suo discepolo… e continuate voi con altri precetti.
Ma come si adempiono questi santi comandamenti oggigiorno, non dirò dai cristiani in generale, ma anche da noi stessi, persone religiose? Invece di serbare il cuore a Dio solo, lo si lascia occupare dalle creature e da miseri affetti di questo mondo, il divin Nome si nomina senza rispetto e devozione, i santi giorni della festa, per lo più, si passano con più dissipazione degli altri, il prossimo si ama, ma sapete quando? Quando ci va a genio per le sue moine, o speriamo da lui qualche piacere, altrimenti si deride, si motteggia, si guarda bieco, si contraddice fin che si può e talvolta si disprezza. I sacerdoti e i confessori si riveriscono profondamente e se ne ha grande stima quando la pensano come noi, si ubbidiscono con prontezza quando ci esortano o ci consigliano di fare cose confacenti al nostro gusto, ma se essi disapprovano con libertà evangelica la nostra sregolata condotta, se ci fanno una buona correzione e ci esortano a mortificare i nostri sensi e a vincere l’amor proprio per praticare la virtù, allora non è più parola di Dio la loro, non ci curiamo niente affatto dei loro avvisi, delle loro esortazioni, dei loro consigli. Inoltre, non si vuol mai contrariare la propria volontà, la croce e la tribolazione si guardano di malocchio, si soffre con impazienza e il solo pensiero di qualche piccola contrarietà ci riempie di malumore.
Vi pare, mie sorelle, che questo sia adempiere con esattezza i divini voleri e comandi? Vi pare un amore di Dio operativo che attua l’osservanza della legge divina? Eppure, è certo che, per essere privi dell’amore di Dio, non è necessario che si trasgrediscano tutti i precetti della legge, basta che se ne violi uno solo. Dio priva della sua grazia tanto colui che non osserva un solo comandamento, come colui che trasgredisce tutte e due le tavole della legge: così l’uno come l’altro vengono esclusi dal paradiso e condannati all’inferno.
Per ultimo, l’amor di Dio deve essere costante: tale, cioè, che resista ad ogni tentazione, ad ogni assalto con cui il demonio, il mondo, la carne cercassero di staccare il nostro cuore da Dio e farci cadere in peccato. L’amore divino non deve consistere in belle parole, in dolci aspirazioni, in soli desideri, ma bisogna che venga alla pratica e che resista e superi ogni difficoltà. Se noi nei pericoli cediamo, se le tentazioni ci vincono, se le tribolazioni, tanto di spirito come del corpo, ci turbano e ci abbattono, se un’offesa, un torto qualunque che ci sembra recato dal nostro prossimo ci irrita e ci inasprisce contro l’offensore, l’amor nostro verso Dio non è vero ma falso, come è falso l’oro che non resiste al fuoco.
Perché il nostro amore sia costante, non basta resistere a tante tentazioni, soffrire pazientemente qualche molestia, tollerare in pace qualche offesa e per qualche tempo, ma bisogna resistere alla tentazione anche la più pericolosa, la più molesta per sempre, fino alla morte. Dobbiamo soffrire tutte le contrarietà con pazienza, sopportare sempre tutto in santa pace.
In una parola, a somiglianza dell’apostolo Paolo dobbiamo essere risoluti ad amare tanto il nostro buon Dio, che nessuna cosa possa separarci da lui: né tribolazioni, né angustie, né fame, né pericoli, né persecuzioni, né spada, né la morte stessa.
Questo è l’amore di Dio intero, operativo e costante che regnava nel cuore dei santi e questo deve essere quello che deve regnare anche nei nostri cuori, se vogliamo compiere quel massimo precetto che ci ha imposto il Signore quando ci ha detto: «Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente, con tutta la tua anima e con tutte le tue forze». Amen.