AMORE DI GESÙ NELL’ISTITUIRE LA SS. EUCARISTIA
(prima parte)
Dio è carità, e tutte le sue opere sono opere di amore. Opera di amore è la creazione del mondo e di quanto di bello e di vago noi ammiriamo sulla terra e nel cielo; opera di amore la creazione dell’uomo e di tutti gli esseri intelligenti; opera di amore la conservazione continua dell’universo intero; opera di amore l’Incarnazione del Verbo per cui il Figlio di Dio, alla destra del Padre, venne ad assumere la nostra debolezza e a farsi uomo simile a noi; opera di amore la Redenzione stupenda di tutto il genere umano, che l’Uomo-Dio operò a così grave prezzo.
Ma con tutte queste opere di svisceratissimo amore non ci aveva il Signore ancora dato l’ultimo segno della sua carità infinita, perché in tutte queste opere non si è comunicato a noi in tutta la maniera possibile e comunicabile, cioè personalmente.
Mancava un’opera che uguagliasse l’ampiezza del Suo buon cuore e con cui profondesse a nostro vantaggio tutti i tesori dell’infinito amor suo.
Questa sublimissima opera di infinita carità, la compiva appunto il Salvatore divino nel Cenacolo di Gerusalemme, la notte precedente la Sua dolorosissima Passione, durante l’ultima cena che volle fare con i Suoi amati discepoli, prima di andare ad immolarsi sull’altare della croce per la nostra salute!
O notte memoranda, o cena di troppo dolce memoria! In quella notte e in quella cena il buon Gesù istituiva l’augustissimo sacramento dell’Eucaristia, quel divinissimo sacramento che noi adoriamo sui nostri altari.
Con questa istituzione – dice il Concilio di Trento – Gesù profuse veramente a nostro riguardo tutta la ricchezza inesauribile della Sua carità. E fece un dono tale agli uomini ingrati, che niente più lascia loro a desiderare e quantunque Egli sia un Dio di infinita potenza, di infinita sapienza, e di immensa ricchezza, pare, disse S. Agostino, che non poté né seppe né ebbe che darci di più.
In questo Sacramento, riprende S. Giovanni, l’amantissimo Iddio fece proprio l’ultimo sforzo del Suo amore per noi.
Mie Sorelle, non sarà dunque bene che io quest’oggi mi dedichi tutto a riflettere sull’inesprimibile amore che ci dimostrò il nostro divino Salvatore, nell’istituire questo augusto sacramento dell’Eucaristia? E sì che lo è, mie Sorelle, perciò io lo farò volentieri, mostrandovi con la possibile chiarezza che l’istituzione del SS. Sacramento fu una grande, grandissima, inesprimibile testimonianza dell’amore che Gesù Cristo ci porta, e ciò per due principali ragioni:
1 ° per il dono ineffabile che in questo sacramento ci ha fatto;
2° per la tenera e inusitata maniera con cui ci ha fatto questo dono.
E quindi conchiudere, a rigore di logica, che noi pure dobbiamo rendere a Lui amore per amore, bene per bene. O mio Gesù, che da quel sacro tabernacolo mi guardate, fate che un raggio vibrante della vostra luce illumini la mia mente, e un dardo del vostro amore ferisca questo mio cuore, affinché io, illuminato, possa illuminare; ferito, possa ferire, e accendere tutti del Vostro amore!
1° – Dopo che il Figlio di Dio era per noi disceso dal Cielo e, venuto sulla terra, si era unito con una mirabile unione ipostatica alla nostra umana natura e fattosi uomo uguale a noi, era vissuto e aveva conversato familiarmente con noi per trenta e più anni e ci aveva dato esempi di ogni virtù e spiegato ogni verità; dopo che per lavarci dalle macchie dei nostri peccati, ci aveva preparato un bagno nel Suo medesimo sangue che voleva versare per noi fino all’ultima stilla; e affinché noi potessimo vivere di una vita immortale, Egli si era disposto a subire per mano dei più spietati tiranni una crudelissima morte; pareva proprio che non potesse fare di più per noi, né avesse altra cosa da darci.
Ma la sua infinita bontà ben seppe trovare di che darci ancora.
Qual Padre amorosissimo che, obbligato dalla morte a separarsi dai suoi amati figli, pensa a lasciar loro un attestato imperituro del tenero e fiammeggiante amore che nutre per essi, perché rimanga sempre viva in loro la Sua memoria, il Divin Redentore Gesù Cristo, venuto il tempo in cui doveva partire dal mondo per tornare in Cielo, volle dare a noi ancora una prova di quell’ardentissima carità di cui ci aveva già dato tante stupende attestazioni; una prova così solenne che valesse per tutte.
Che fa Egli pertanto? L’affabilissimo, amoroso Gesù in quell’ultima cena, assiso a quella mensa che era stata l’oggetto dei Suoi più antichi desideri, insieme ai fedeli apostoli, discute di varie cose: della morte vicina e dell’orribile tradimento ordito contro di Lui.
Quand’ecco che il divino Signore, alzatosi d’improvviso, tutto acceso nel volto e negli occhi, per eccesso di grandissimo amore, preso in mano del pane preparato, lo benedice, lo spezza in più parti e, con voce e con gesto da spiegare più assai di quello che diceva: «Prendete – dice a voce alta porgendolo agli stupefatti circostanti discepoli, e nella loro persona a noi tutti, – prendete…: accipite» Che cosa dobbiamo prendere da Voi, o Gesù mio caro, che non abbiamo già da Voi ricevuto? Vi resta forse qualche cosa da darci di più?
«Accipite», prendete, qui rinchiusi sotto le apparenze del pane, gli arcani più reconditi della mia infinita sapienza, gli sforzi più poderosi della mia onnipotenza, le amabili finezze della mia carità.
Prendete la mia clemenza, la mia misericordia, la mia immensità, il mio essere eterno e tutti i miei divini attributi.
Prendete il tesoro inestimabile dei miei meriti e delle mie soddisfazioni; il frutto prezioso della mia Passione e morte; il riepilogo insomma più pregevole di tutte le mie grazie.
Prendete la vera consolazione nelle tribolazioni;
la pazienza costante nelle avversità; il sicuro rimedio contro le tentazioni; l’antidoto mirabile contro il peccato e la vittoria infallibile sull’inferno.
Sì, prendete in questo pane nascosto, prendete il vostro Creatore, il vostro Redentore, il vostro Conservatore, il vostro Padre, il vostro Dio.
Prendete la mia carne, il mio sangue in dono; dono vero, verissimo, affinché voi abbiate ogni diritto su di me e ne usiate come vi piace e ne disponiate come credete, ed Io sia tutto vostro, anzi quasi una stessa cosa con Voi.
Nello stesso modo, prese il calice col vino, e benedicendolo lo distribuì agli stessi circostanti, i discepoli, dicendo ugualmente: «Prendete e bevete, questo è il mio sangue, che sarà versato in remissione dei peccati». O taumaturghe parole; la sostanza del pane si cambiò subito nel Suo vero Corpo, e la sostanza del vino nel Suo vero Sangue, non restando del pane e del vino che le semplici e pure apparenze.
In quello stesso momento conferì l’Ordine Santo agli apostoli e ai loro successori, istituendo così il Sacerdozio e comandò che facessero essi pure lo stesso in Sua memoria, non per una sola volta, ma per mille e mille, fino alla consumazione dei secoli. O stupendi prodigi della bontà e dell’onnipotenza di un Dio amante! Là dunque, in quell’Ostia consacrata, non vi è più pane, ma sotto le specie del pane vi è realmente e sostanzialmente Gesù Cristo in corpo, sangue, anima e divinità; quel Gesù Cristo stesso che per virtù dello Spirito Santo fu concepito nel seno verginale di Maria, che tenero bambino fu adagiato nella grotta di Betlemme; quel Gesù che per la nostra salvezza sparse tanti sudori, fu lacerato da tanti strazi, coperto da tante piaghe e che sull’altare della croce tutto si offerse al divin Padre in sacrificio per noi; quello stesso Gesù che ora siede glorioso nel Cielo e che un giorno dovrà essere giudice inesorabile dei vivi e dei morti. O dono ineffabile! O eccellentissimo dono! Qual cosa poteva mai darci di più l’amantissimo Iddio oltre a darci interamente Se stesso? Qui fece proprio l’ultimo sforzo della Sua infinita potenza e dell’infinito Suo amore.
2° – Ma ciò che manifesta e palesa l’amore di colui che dona, non è tanto l’eccellenza e la preziosità del dono che elargisce, ma l’affetto e la cordialità con la quale dona; per cui l’amore di Gesù verso di noi nella istituzione della SS. Eucaristia, cresce ancora di più. Infatti Gesù Cristo in questo divin Sacramento ci dona tutto Se stesso nella più tenera e commovente maniera che si potesse immaginare. Qui Egli ci dona il Suo corpo e il Suo preziosissimo sangue a modo di cibo e di bevanda.
Sì, mie Sorelle, quello che ci porge Gesù Cristo nella Santa Eucaristia, non è solamente un dono, ma è vero cibo delle anime nostre; ce lo assicura Egli stesso di propria bocca in S. Giovanni. «La mia carne è veramente cibo».
Cibo perché ci viene dato da masticare, da inghiottire e da conservare nel nostro cuore; cibo perché col distruggersi delle specie sacramentali, si allontana da noi anche l’Umanità di Gesù Cristo, ma rimane in noi la Sua divinità, la quale come cibo immortale e perenne, con infusione di nuova grazia, mantiene, accresce e fortifica la vita spirituale dell’anima.
Cibo perché trasfondendo la sua virtù ed efficacia anche nel nostro corpo, infonde in questo certi segni di immortalità, onde abbia un giorno a rivivere dalla corruzione del sepolcro; Cibo, perché come il cibo che ci alimenta, si converte nella nostra sostanza e ci penetra tutto da capo a fondo, così noi cibandoci nella SS. Comunione, della preziosissima Carne e dell’illibatissimo Sangue del Redentore ci confondiamo e mescoliamo tutti con Lui, dice S. Giovanni Crisostomo, con Lui diventiamo un solo corpo e ci facciamo a Lui consanguinei e corporei. Diventiamo membra delle Sue membra -dice S. Paolo – e ossa delle Sue ossa, per modo che nessuna cosa ha tanta forza da separarci da Lui.
Si può mai desiderare di più? E no, – dice S. Francesco di Sales – il Redentore in nessun’altra occasione può manifestarsi più tenero, e più amoroso che in questa: nell’Eucaristia in cui si annichila, per così dire e si riduce in cibo, per poter penetrare le anime nostre ed unirsi intimamente al cuore di ciascuno di noi.
Aggiungete che questo cibo di eterna vita, a differenza del cibo materiale di cui ci alimentiamo, non si converte nella nostra sostanza, ma converte noi in Lui e noi, ricevendo in Lui nuova vita, viviamo della stessa Sua vita.
E qui, Sorelle, non si può spiegare con parole i mirabili effetti di così religiosa mutazione.
Di Mosè, attesta la divina scrittura che ritornando giù dal monte sul quale si era trattenuto in lungo colloquio con Dio, si mostrò cambiato in volto così che non pareva più quello stesso che era salito, poiché la sua faccia compariva attorniata da raggi così penetranti e luminosi che, abbagliando la vista di chiunque avesse ardito mirarlo, vietavano perfino di fissare in Lui lo sguardo curioso.
Era salito sulla cima del monte per nulla diverso dagli altri uomini, e da quel monte stesso scendeva poco meno di un Dio. E la ragione è questa – soggiunge il Santo abate Macario – perché quantunque negli interi quaranta giorni che aveva dimorato su quel monte non avesse gustato né stilla di acqua, né boccone di cibo materiale, ritornava però rinvigorito da un altro cibo migliore: soprannaturale e celeste.
Oh quante volte vediamo noi presentarsi alla mensa Eucaristica anime tutte di terra, anime piene di affetti terreni, di mondo, di vanità, di alterigia, di collera; immortificate, invidiose, maligne e superbe e quante volte ancora le vediamo tornare mutate dal sacro altare. Le vediamo infatti, dolci e mansuete nel tratto, umili nelle parole, modeste nel portamento, non avere che pensieri di Dio e di eternità; né altro avere in cuore che affetti per Dio né avere altri desideri che desideri di sempre più piacere a Dio.
Donde un cambiamento così improvviso? Quest’anima si è nutrita di quel vivifico pane celeste, di cui si nutrono gli angeli nel Cielo e che ha la meravigliosa virtù di cambiare e trasformare in sé chi degnamente se ne ciba. Qual meraviglia perciò se questa anima compare diversa di quella di prima? La di lei vita – dice l’apostolo S. Paolo – per mezzo di Gesù si è nascosta, confusa, perduta, convertita, trasformata in quella di Dio.
Che dite or voi, mie care Sorelle, non vi pare che sia eccessivo, inespugnabile l’amore che Gesù Cristo ci manifestò nell’istituire per noi la SS. Eucaristia sia per il dono ineffabile che in Essa ci ha fatto di tutto Se stesso, sia per la tenera e affettuosa maniera con cui ci ha voluto elargire questo medesimo, impareggiabile dono?
Ma se è così, non è giusto, non è doveroso che ancora noi, mie Sorelle, mostriamo a Lui la nostra riconoscenza? Voi lo sapete; amore richiede amore, beneficio vuol gratitudine; un amore e una gratitudine tanto più estesa e perenne, quanto più grande è il dono ricevuto, e più commovente il modo con cui il donatore ce lo presenta.
Se dunque Gesù si è dato tutto a noi, noi dobbiamo altresì donarci tutte a Lui: «Dilectus meus mihi et ego illi», diceva la sposa dei cantici; e come Egli, per essere tutto nostro e propriamente nostro, si è fatto cibo delle anime nostre, così noi per essere tutte di Dio dobbiamo ugualmente farci cibo di Dio. Dio si pàsce, dice la S. Sposa, di candidi gigli, cioè come spiega S. Gregorio, del candore e della purezza di ogni cristiana virtù, perciò noi dobbiamo tendere alla pratica di queste: dobbiamo esercitare l’umiltà, la pazienza, la mortificazione dei sensi, l’abnegazione del nostro proprio volere, l’obbedienza, la compunzione del cuore, soprattutto una viva fede, una dolce speranza, un’ardente carità, che sono appunto la disposizione prossima con cui dobbiamo riceverLo nella S. Comunione.
Ma ditemi, mie Sorelle, pare a voi che possa Iddio, non dirò tra i semplici cristiani, ma tra le persone religiose, trovare molte di queste anime veramente virtuose, di cui prendersi gusto e sapore, compiacersene e, quasi cibo eletto, pascersene e ristorarsi? Io lo lascio considerare a voi. Ma se noi esaminiamo bene la nostra condotta, oh quanto abbiamo da confonderci e da vergognarci nel vederci così indifferenti al confronto di un amore così eccessivo qual’è quello che ci dimostra Gesù Cristo nell’istituzione del divin Sacramento dell’Eucaristia!
E perciò, detestando tutte le nostre freddezze passate, le nostre ingratitudini usateGli finora, procuriamo almeno di corrispondere un po’ meglio per l’avvenire, onde non abbiamo poi a sostenere da Lui quegli acerbi rimproveri che un giorno Egli farà ai reprobi, soprattutto se avranno portato l’abito da religiose o da religiosi.
Che il Suo buon cuore ce ne liberi. Amen.