AMORE DI GESÙ ALLA POVERTÀ
(Seconda Istruzione)
S. Ignazio, in quella celebre contemplazione, che nel libro dei suoi spirituali esercizi intitola: «I due stendardi», ci mette sott’occhio due grandi capitani, per natura e per merito diametralmente opposti fra loro: Lucifero e Gesù Cristo, Signore nostro; i quali si adoperano tutti e due, con modi loro propri, alla conquista del genere umano.
Il primo, cioè Lucifero, che non è capitano legittimo, cerca con sottili malizie di tirar le anime nei suoi agguati e nelle sue reti, per trovare poi cibo per l’ingorda sua fame.
Il secondo invece, cioè Gesù Cristo, ch’è vero capitano legittimo, nato e venuto al mondo per regnare sulle anime, adopera tutti quei mezzi che, senza violare la naturale libertà, può usare, per renderle eternamente felici.
La prima arte di cui fa uso il demonio, per rovinare le anime, dice lo stesso S. Ignazio, è l’amore alle ricchezze. L’arricchire non ha mai termine, perché tutto ciò che si vede, si vorrebbe possedere.
Osservate, infatti, la grande moltitudine degli uomini che ogni giorno si aggira sulla terra: chi va, chi viene, chi corre, chi viaggia, chi litiga, chi suda, chi in qualunque altro modo, si affatica, e vedrete che tutto questo gran movimento è sempre indirizzato ad avere qualcosa di più e costerebbe certo fatica trovare un uomo solo, il quale farebbe un passo per averne di meno.
Non è, forse, evidente che le ricchezze non s’acquistano senza mille sollecitudini, le quali soffocano, a guisa di spine, ogni buon seme della divina parola nei nostri cuori?
Era, dunque, necessario che Gesù Cristo, Signore nostro, venendo al mondo per salvare gli uomini, insegnasse loro una via che fosse direttamente contraria a quella di Lucifero, per la quale andavano perduti, e questa via che ci ha insegnato il Divin Maestro è la santa povertà.
Noi abbiamo già visto, come Egli amò la povertà con amore di riverenza, onorandola come madre, e come l’amò con amore puro soccorrendola con le sue fatiche, quale sorella; ma non si accontentò di questo: il suo gran cuore volle amare la povertà anche di tenero amore, abbracciandola come dilettissima sposa, il che vedremo questa sera se voi mi prestate attenzione.
Chi ama la povertà come madre, professa per lei una filiale riverenza, che viene compensata con povera, ma tenerissima cura; chi l’ama come sorella, nutre per lei un amor puro e, secondo le sue forze, s’impegna ad aiutarla nelle sue necessità. Ma in questi due casi, gli effetti della povertà non si sentono troppo, perché nel primo caso essa provvede a noi, e nel secondo noi provvediamo a lei.
Ma quando nella povertà non si cerca, se non il piacere di essere povero con Gesù Cristo, senza che noi ci preoccupiamo di provvedere a lei, o che ella provveda a noi, allora vuol dire amare la povertà come sposa, cioè con amore tenero, con amore fervente, non pretendendo da lei se non il piacere di possederla, e di avere per lei il merito e la comodità di salvare più anime e di generare un maggior numero di figli a Dio.
Di questo amore sì tenero per la povertà, avvampò il nostro Divin Maestro.
Venuto il momento di uscire in pubblico a predicare, quasi volesse mettere in pratica ciò che disse Adamo ispirato da Dio, parlando della sposa: «Abbandoni l’uomo suo padre e sua madre e si unisca alla sposa», Gesù lasciò la Sua casa di Nazaret, la Sua santissima e dolcissima Madre, per seguire quella povertà che tutto lo innamorava.
Il Suo cuore, pieno di quel Dio a cui vive e sostanzialmente unito, e tutto occupato nel cercare e salvare le pecorelle smarrite della casa di Israele, non può avere pensieri di terra, né occuparsi di quello che gli è necessario per vivere. I Suoi devoti, a volte, Gli forniscono di che sostentarsi, altre volte non glielo forniscono; segga Egli a lauta mensa, o manchi perfino di un tozzo di pane con cui rompere il Suo digiuno, poco importa; sempre benedice nello stesso modo il Suo celeste Padre; sia nell’abbondanza, sia nell’indigenza, Egli non mira che a conquistare a Dio qualche nuovo adoratore.
Se anche noi, Sorelle mie, facessimo nostra questa disposizione del Cuor di Gesù; se anche noi lasciassimo ogni cosa superflua per darci, liberi da ogni attacco terreno, ad operare in compagnia di Gesù, unicamente per la nostra e l’altrui santificazione!
Dateci la grazia, o Gesù mio, e allora nessuna cosa ci distoglierà dall’adempiere in noi stessi la volontà del Padre; dal fare con i nostri esempi e con le nostre esortazioni e preghiere, che tutti l’adempiano.
Continuiamo a seguire, mie Sorelle, con pensiero devoto le orme apostoliche del nostro caro Maestro, per vedere così più da vicino, quanto fedelmente Egli si tenga al fianco, quale indivisibile compagna, la santa povertà, senza darsi pensiero né di quello di cui abbonda, né di quello che Gli manca.
Voi lo vedete recarsi dapprima in un deserto e, senza nessuna provvista, intraprendere un digiuno rigorosissimo di quaranta giorni. Finiti questi, e cominciando già la fame a farsi sentire, ecco scendere gli angeli dal cielo, accostarGlisi e servirlo del conveniente ristoro.
È vero che continuando Egli a percorrere città e borgate, per annunziare a tutti la divina parola, lo seguiva, d’ordinario, uno stuolo di pietose donne, somministrando a Lui parte delle proprie sostanze; ma quante volte Gli dovette mancare questa caritatevole provvista!
Vediamolo ora presso il pozzo di Giacobbe, bisognoso di cibo che i Suoi discepoli Gli offrono; ora nel deserto, dove per tutta la Sua comitiva non si trovano che sette pani e due pesci, come dice S. Matteo; ora non più di cinque pani d’orzo e due pesci, come dice S. Giovanni; ed ora proprio nulla, sicché i discepoli furono costretti a rifocillarsi nelle campagne con grani di crudo frumento, come riferisce S. Luca.
È vero che teneva una borsa in cui riporre le offerte dei Suoi devoti, ma in questa borsa non si trovava neppure una sola dramma, con cui soddisfare il tributo che nella città di Cafarnao tutti gli ebrei pagavano; perciò fu costretto, per non mancare a questo atto di convenienza, a mandare Pietro alla riva del mare, a prendere quel pesce che avrebbe avuto in bocca il denaro.
Lo so che a volte Lo invitavano a splendido convito: Matteo in Cafarnao, il fariseo in Naim, Zaccheo a Gerico e Simone, il lebbroso, in Betania, anzi, tutto il castello di Betania Gli era sempre aperto dall’ospitalità della famiglia di Lazzaro; ma quante altre volte non ha nessuno che Lo inviti e, non trovando ove riposarsi, è costretto a passar le notti intere sui monti, pregando a cielo scoperto.
Chi non si sentirebbe fremere di compassione, udendolo dire: «Le volpi hanno le loro tane, gli uccelli dell’aria il loro nido e il Figlio dell’uomo, non ha dove posare il capo?».
Chi non si commuoverebbe nel contemplare questo divino Povero, il giorno stesso del Suo trionfale ingresso in Gerusalemme, dopo aver fatto una moltitudine di stupendi miracoli, sul far della sera, guardarsi attorno domandandosi se fra i circostanti, se fra i beneficati, si trovasse uno solo che Lo invitasse con sé a ristorarsi? Ed essendo già l’ora tarda, andò a Betania con i dodici.
Ma la sollecita Marta e l’amorosa Maria dovevano essere lontane, perché il giorno dopo, alla mattina, dice il Vangelo, fece ritorno in città ed ebbe fame. Durante il cammino si accostò per ristorarsi ad un albero di fico, ma neppure qui trovò ristoro, perché l’albero, non aveva alcun frutto. Io mi sento commuovere a tali ricordi, Signor mio, e vorrei offrirvi quanto ho, quanto sono, perché Voi possiate avere qualche ristoro. Ma Voi non volete sollievi, perché la povertà che Vi affligge è a Voi più cara di qualunque cosa.
Che farò io dunque? Mi renderò a Vostra somiglianza, il più povero che mi sia possibile, e Voi, allora, vedendo in me l’immagine della Vostra diletta sposa: la povertà, verrete a visitarmi e Vi tratterrete in santa conversazione dentro il mio cuore. E Voi che dite, Sorelle mie, di fronte a questa povertà di Gesù?
Ma vi è ancora di più. Sul Calvario, sul doloroso letto della croce, è il luogo dove l’amantissimo Cuore del nostro Maestro, ha fatto ancora più palesi le sue tenerezze per la povertà.
Guardate, Sorelle mie, porta Egli forse con Sé alcuna cosa della terra? Lo vediamo che sta spasimando, che sta per dare l’anelito estremo a causa del gran dolore che Lo uccide: ma dove sono i rimedi che Lo confortano? Dove gli infermieri solleciti a renderGli meno intollerabile il suo male? Dove i panni che trattengono un poco di calore vitale, che già fugge? Dove almeno un misero straccio che ne ricopra la nudità?
Mio Dio, mio re, l’esser voi nato nudo fu certo una degnazione infinita con cui avete voluto somigliare agli altri uomini, ma il voler pure morire nudo, questo è puro eccesso del Vostro cuore, per cui avete voluto superare nel morire l’uomo più povero.
Quale uomo, infatti, nelle sue ultime agonie, fu mai privo di uno straccio per ricoprirsi? Qual povero non trova almeno un sasso, su cui posare il suo capo? Ma a Voi è negato anche questo sollievo estremo su questo letto di dolore, dove state morendo.
Infatti se piegate indietro il Vostro capo, la croce a cui si appoggia, spinge più profondamente le spine che gli fanno intorno, dolorosa corona; se lo adagiate di fianco sulle braccia sospese, il capo e le braccia ricevono nuove trafitture dalla spine; se lo abbandonate sul petto, quel peso che giù Vi tira, Vi lacera con maggiore spasimo i nervi.
Anime devote, è tempo di imparare bene le lezioni del nostro divino Maestro e, sfidando affetti santissimi verso Gesù Crocifisso, è tempo di vedere che conto dobbiamo fare delle cose del mondo.
Se Gesù è nato povero, è vissuto povero, è morto poverissimo, vi pare, o mie Figlie, che possiamo noi lagnarci o rattristarci se per caso ci manca qualche cosetta? Se non possiamo avere tutte le comodità che desideriamo, se non siamo prontamente servite in tutto e per tutto?
Se a Gesù mancò persino un tozzo di pane per sfamarsi, e dovette, più di una volta, passar digiuno le intere giornate, dopo averle spese tutte nel beneficare la gente, potremo noi lamentarci se la nostra delicatezza e golosità non troverà i cibi ben confezionati, o li troverà grossolani, o scarsi, o mal cotti, o mal conditi?
Se Gesù agonizzante sulla croce non ebbe il minimo conforto, perché noi, nella nostra infermità, non troveremo cosa che ci accontenti? Perché non finiamo mai di dire: o del medico perché non viene; o della Superiora, perché non vigila; o dell’infermiera perché non è pronta; o delle consorelle perché non assistono; o dei parenti perché non vengono; o dell’acqua che non è calda; o del cibo che non è buono; o del letto che non è soffice; e andate voi discorrendo?
Se Gesù ebbe un amore sì grande alla povertà, avremo noi vergogna d’essere poveri, di aver parenti poveri?
O Sorelle, se noi facessimo così, vi pare che potremmo dire di avere studiato bene le belle lezioni, che ci diede il divin Maestro? Che ne seguiamo gli esempi e ne pratichiamo le massime, e possiamo quindi dirci Sue vere Spose? A me pare, invece, che in questo caso dovremmo dire tutto il contrario, perché le cose, a cui ho accennato prima, sono diametralmente opposte a quello spirito di Santa Povertà evangelica che ogni cristiano, e specialmente ogni anima religiosa, deve avere ben radicato nel cuore, ad esempio di Gesù Cristo.
Facciamo dunque, Sorelle mie, fermi propositi di emendarci, se nel passato siamo vissuti troppo solleciti per le cose di questo mondo; e mettiamoci almeno ora (sempre implorando il divino aiuto, senza di cui nulla possiamo) ad amare intensamente la santa povertà, come l’ama Gesù Cristo. Questo è il primo passo che deve fare chiunque vuole perfettamente amare Dio. «Si vis perfectus esse, vade, vende omnia»: deve cioè spogliarsi di tutto il superfluo, contentandosi del solo necessario.
Ma notate che il necessario per una creatura così piccola, come è ciascuno di noi, è ben poco.
Osservate il buon Gesù nella stalla di Betlemme; osservateLo nella officina di Nazaret; osservateLo sopra la croce e ditemi dove è il superfluo, anzi dite se ha almeno il necessario. E a questo necessario stesso, di cui dobbiamo contentarci, non dobbiamo avere alcun affetto; non dobbiamo, cioè rallegrarci, perché non ci manca o dolerci, per timore che ci manchi o affannarci eccessivamente, perché non ci venga a mancare.
Tutti questi sono impedimenti ad amare Dio con tutto il cuore.
Gesù ha detto, e con l’esempio l’ha confermato, che non solo di pane vive l’uomo.
Di conseguenza, mentre da una parte ci stacchiamo con l’affetto anche dal necessario, procuriamo dall’altra di guadagnarcelo col sudore della fronte, con opere di carità spirituale e corporale, come ha fatto Gesù Cristo, che nei primi trent’anni di vita, si guadagnò il vitto faticando corporalmente e negli ultimi tre, adoperandosi in esercizi di carità spirituale.
Noi felici se così faremo!
Allora sì che potremo esclamare con allegrezza insieme col Profeta: «Qual pane, o Signore, vogliamo aspettarci in cielo, o quale chiedere a Voi su questa terra? Voi siete il Dio del nostro cuore qui in terra, e Voi solo sarete, in cielo, l’eterna porzione della nostra eredità». Amen.